Il problema del tentativo nella rapina impropria: brevi note su una questione irrisolta





Fra le dispute interpretative maggiormente discusse in tema di rapina, rientra quella – di antica tradizione – concernente l’ammissibilità o meno del tentativo nella fattispecie c.d. impropria.

Quest’ultima, come noto, è contemplata dal comma 2 dell’art. 628 c.p. secondo cui “alla stessa pena [prevista dal comma 1] soggiace chi adopera violenza o minaccia immediatamente dopo la sottrazione, per assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa sottratta, o per procurare a sé o ad altri l’impunità”. Il precetto sancito dal primo comma, si riferisce, invece, secondo la tradizionale classificazione, alla rapina propria che, viceversa, ricorre quando mediante violenza o minaccia ci si impossessa della cosa mobile altrui sottraendola a chi la detiene, per procurarsi profitto[1].

Va subito precisato che non si tratta qui di verificare la possibilità di ammettere tout court il tentativo di rapina impropria. La questione è un’altra, e verte sulla configurabilità o meno dell’ipotesi tentata del reato in esame nei casi di violenza o minaccia poste in essere dopo una sottrazione soltanto tentata.

A dire il vero, qualche opinione iniziale tendeva a negare – in assoluto – il tentativo di rapina impropria, disconoscendo il delinearsi di tale figura anche in situazioni di avvenuta sottrazione della cosa: l’assunto si giustificava in base alla ritenuta impossibilità di apprezzare giuridicamente il tentativo di minaccia o violenza[2]. Il punto, tuttavia, è stato da tempo chiarito: oggi, infatti, pur nella difficoltà di immaginare un tentativo di minaccia, si tende concordemente a riconoscere la fattispecie tentata di rapina impropria per lo meno nei casi di atti idonei ed univoci a compiere violenza immediatamente dopo la sottrazione (es. il ladro che dopo aver sottratto la cosa tenta di percuotere il soggetto offeso, ma non riesce perché fermato dall’opera di terzi).

Tutt’altro che sopito invece è il dibattito sul tentativo quando violenza o minaccia, anche tentate, siano poste in essere dopo un tentativo di sottrazione. La discussione vede, tuttora, dottrina e giurisprudenza assestate su opposte posizioni: la prima tende a negarlo, ravvisando, in simili ipotesi, un concorso di reati fra furto (tentato) e il reato contro la persona (minacce, percosse); fra i giudici, viceversa, salvo qualche recente pronuncia, non si esita ad ammettere il tentativo di rapina impropria anche in ipotesi di sottrazione non consumata.

Una prima obiezione, a quanto pare insuperabile, che fra gli autori si muove contro l’orientamento giurisprudenziale, trova il suo fondamento nel dato positivo. L’art. 628 comma 2 c.p., si dice, è al riguardo molto chiaro: riferendosi la norma a violenze o minacce commesse “immediatamente dopo la sottrazione”, non può ipotizzarsi il reato, neanche in forma tentata, se non nella fase indicata dalla norma, relativa cioè al momento successivo alla avvenuta sottrazione. Dal combinato disposto dell’art. 56 comma 1 e 628 comma 2 c.p., il precetto in esame va quindi letto nei seguenti termini: “alla stessa pena del comma 1 soggiace chi tenta di adoperare violenza o minaccia immediatamente dopo la sottrazione..”[3].

Per aggirare l’ostacolo, in giurisprudenza si fa leva sullo stesso dettato ordinario, che prevede, accanto al fine di assicurarsi il possesso della cosa sottratta (fine che qui non interessa trattandosi di mancata sottrazione) quello di procurarsi l’impunità: tale ultimo obiettivo, oggetto di dolo specifico dell’agente, può invero essere perseguito, si sostiene, tramite violenza o minacce, anche a seguito della mancata sottrazione: ciò dovrebbe giustificare dunque il tentativo di rapina impropria anche in simili circostanze[4].

Tale scelta interpretativa, si è rilevato in dottrina, pare in realtà poco convincente: è ben vero, infatti, si argomenta, che un soggetto può ricorrere – in astratto – a violenza o minacce per assicurarsi l’impunità a causa di una sottrazione solo mancata; l’ipotesi non rientra però nella previsione dell’art. 628 comma 2, là dove il legislatore si esprime nettamente in termini di sottrazione già realizzatasi. Riconoscere, dunque, la rapina impropria anche in tali situazioni significa forzare la lettera della legge, creando un vulnus al suo interno, attraverso una tecnica di creazione giuridica destinata a risolversi in un’applicazione analogica in malam partem.

A sostegno del costante indirizzo giurisprudenziale, volto a riconoscere il tentativo di rapina impropria anche in presenza di una sottrazione non consumata, s’invoca, peraltro, anche l’argomento relativo alla considerazione della natura del reato in questione, che (come noto) rappresenta una fattispecie complessa ai sensi dell’art. 84 c.p. La rapina è infatti figura delittuosa, come comunemente si afferma, composta dal furto e dalla violenza privata, e più in particolare, per la fattispecie che qui interessa, dalla sottrazione e dal reato contro la persona (minaccia, percosse, etc.) che di volta in volta segue la prima. Potendo – si dice fra i giudici – le fattispecie componenti la figura in esame (sottrazione e violenza) presentarsi entrambe alla stadio del tentativo, occorre continuare a considerare l’unitarietà della rapina anche quando – realizzatesi entrambe – esse si arrestino, per l’appunto, ad ipotesi tentate, sia che si tratti della sottrazione che della condotta successiva a quest’ultima. Non sarebbe dunque consentito procedere, proprio per l’unità reale della fattispecie, ad una considerazione autonoma degli elementi componenti volta a ravvisare un concorso di reati fra tentato furto e fatti contro la persona.

Tale conclusione, tuttavia, sembra, ad avviso degli autori, porsi in contrasto proprio con la corretta ed indiscutibile premessa, da cui la stessa giurisprudenza muove, circa la natura complessa del reato considerato: ipotizzare la sussistenza della rapina impropria in caso di tentata sottrazione, sempre seguita dal fatto contro la persona, non è permesso, si dice, proprio per via di specifiche ragioni attinenti al carattere composto della figura in esame. Più precisamente, si afferma, il reato complesso costituisce una fattispecie autonoma rispetto agli elementi costitutivi che in essa si compenetrano; questi ultimi, perdendo il rilievo giuridico assunto nella figura originaria, danno vita ad un fatto tipico nuovo suscettibile di autonoma considerazione. Ora, la sottrazione, da un lato, e il fatto di violenza o minaccia, dall’altro, in tema di rapina impropria, si fondono, per così dire, in una fattispecie strutturalmente indipendente da quella del furto e della violenza privata in maniera tale da conferire alla stessa un diverso significato giuridico. Sicché, si rileva, il comportamento tipico, che segna l’ubi consistam del nuovo reato, si sostanzia nell’impiego di violenza o minacce in un momento immediatamente successivo alla sottrazione. Il concetto è stato espresso in dottrina con significativa espressione: si è parlato di fattispecie a tempo “circoscritto” o “vincolato”[5]: la figura delittuosa, cioè, in tanto esiste – come titolo autonomo di reato – in quanto sia riscontrabile, all’interno del preciso ambito temporale segnato dall’“immediatamente dopo la sottrazione”, una relazione tra il reato contro la persona e la sottrazione stessa che, a sua volta, finisce per divenire nella fattispecie composita un presupposto di realizzazione dell’azione tipica[6].

Appare pertanto ovvio che anche il tentativo non potrà che essere apprezzato in relazione al nuovo fatto tipico così come sopra descritto, in rapporto cioè al nuovo oggetto del divieto penale: la forma tentata, in sostanza, risuonerà, come del resto può desumersi dalla norma, in questi termini: “non tentare di adoperare violenza o minaccia, per assicurarti il possesso o l’impunità, immediatamente dopo la sottrazione”.

La necessità di valutare il tentativo di rapina impropria nei termini suddetti discende d’altra parte dall’impossibilità di inferirne la sussistenza dalla mera sottrazione tentata o anche consumata. Costituendo, queste ultime, elementi del tutto svincolati dal resto della fattispecie, vale a dire dalle ipotesi di minaccia o violenza, atti di relativo compimento non potrebbero mai rivelarsi autonomamente idonei ed univoci rispetto alla commissione dell’intera figura delittuosa. Si giustifica quindi la considerazione della sottrazione come presupposto del reato in questione, non invece come parte dell’azione tipica stante – in caso contrario – la necessità di rinvenire, indebitamente, nel relativo inizio di esecuzione un tentativo di rapina impropria[7].

Ma anche laddove si obietti che la tentata sottrazione può dar luogo a tentativo di rapina impropria solo se seguita, nell’arco temporale imposto dalla norma, da fatti di violenza o minaccia, concludere per la sussistenza della rapina impropria tentata, anche in simili ipotesi, appare comunque operazione del tutto arbitraria. L’assunto risulterebbe infatti inaccettabile proprio alla luce della natura del reato in esame: la mancata verificazione della sottrazione, elemento rispetto al cui insorgere il legislatore ha evidentemente costruito la condotta tipica punibile, segna il venir meno della possibilità dell’instaurarsi del legame – richiesto dalla norma – fra le diverse offese, che costituisce l’unica ragione di sussistenza della figura complessa, anche in forma tentata.

Ad una simile affermazione si perviene, invero, ove si ragioni proprio in termini di offesa. Il fatto offensivo tipico della rapina impropria è infatti espresso dal legame tra la lesione alla persona susseguente al pregiudizio arrecato al patrimonio: questo è il disvalore sotteso alla norma. E in termini di tentativo, la condotta – si capisce – rileva ove risulti idonea ed univoca ad esprimere tale legame offensivo, cioè a dire la lesione personale dopo quella patrimoniale.

Tra l’altro, proprio per il carico lesivo insito nella condotta descritta dall’art. 628 comma 2 c.p., il legislatore ha previsto il trattamento sanzionatorio della reclusione da tre a dieci anni. Sarebbe evidentemente un’operazione contra legem applicare la medesima risposta punitiva all’ipotesi di mancata sottrazione, seguita da reati contro la persona, proprio per la minore offensività di quest’ultima ipotesi. Allo stesso modo intollerabile, sempre per la disparità di offesa, risulta la parificazione sanzionatoria fra l’unica ammissibile ipotesi di rapina impropria tentata, postulante l’avvenuta sottrazione, e quella ipotizzata come tale, in cui la sottrazione non sia avvenuta[8].

La diversità obiettiva fra l’ipotesi di rapina impropria tentata con avvenuta sottrazione e quella in cui tale sottrazione venga a mancare trova puntuale riscontro, si afferma in ultimo, sul piano soggettivo: altro infatti è l’atteggiamento psicologico mirante a perseguire l’impunità per una sottrazione soltanto mancata, risolventesi nella sola volontà di sottrarsi alle conseguenze di un furto non consumato, altro è quello tipico della rapina impropria, rivolto alla realizzazione di tale finalità a seguito di sottrazione avvenuta.

Per qualche pronuncia, l’invalidità dei rilievi dottrinali andrebbe desunta dall’eccessiva indulgenza che verrebbe accordata, per via della contestazione del solo concorso di reati (furto tentato e violenza), a colui il quale usi violenza alle persone per assicurarsi l’impunità, non riuscendo, egli, a consumare la sottrazione solo per cause estranee al suo volere. D’altronde, si afferma, se il legislatore ha previsto di punire in una certa misura il ladro che ricorre alla violenza o minaccia in vista dei fini indicati dalla norma, non può non aver serbato la stessa sorte a chi abbia tentato di rubare, poiché l’aggressione al patrimonio in ogni caso è già avvenuta e, se si è fermata al tentativo, ciò è accaduto sol perché è sopraggiunta una causa impeditiva, estranea alla volontà del reo.

Sia pure utili e del tutto validi alla stregua di un giudizio logico-morale nonché in una prospettiva de iure condendo, tali osservazioni – secondo l’indirizzo dottrinale – si pongono in contrasto, come visto, da un lato, con la lettera della legge, dall’altro con la ratio della stessa figura del reato complesso: fondare la convinzione circa l’esistenza della rapina impropria, nelle ipotesi in esame, con conseguente applicazione del relativo regime sanzionatorio, in base ad una presunzione di sussistenza del medesimo intento legislativo sotteso alla fattispecie in cui la sottrazione si sia consumata, significa porsi apertamente in contrasto col principio di legalità.

Nonostante per lo più si tenda in giurisprudenza a ravvisare nei casi di violenza successiva a tentata sottrazione, una fattispecie di rapina impropria anziché un concorso di reati fra tentativo di furto e violenza contro la persona, in qualche recente pronuncia sembrano invece aver trovato spazio gli argomenti, più convincenti, sostenuti dalla dottrina[9]. Il che darà presto luogo, con tutta probabilità, ad un contrasto su cui l’organo di legittimità sarà chiamato a pronunciarsi.

 

Federico Martella, foro di Bologna



[1] Per un’analisi completa della fattispecie v. F. Mantovani, Rapina, in Enc. giur. Treccani, 1991.

[2] V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, 5 ed. aggiornata, 1984.

[3] Padovani, Tentativo di sottrazione e tentativo di rapina impropria, in Giur. it, 1977, II, c. 229; Adami, La configurabilità del tentativo del delitto di rapina impropria, in Giust. pen., 1989, II, 599 ss.; Zagrebelsky V., voce Rapina, in Novissimo dig. it. 1968, p. 778.; Giannelli, Sul tentativo di rapina impropria, in Giur. merito, 1990, p. 1166 ss.; Brunelli, Rapina, in Dig. disc. pen., 1996; Pizzuti, Rapina, in Enc. dir., 1987; Tascone, Rapina propria, rapina impropria e tentativo di rapina impropria, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1982, 1615; Concas, Sottrazione, impossessamento e tentativo di rapina improria, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1955, p. 616; Losana, Rapina impropria e tentativo, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1963, p. 609; Palladino, Rapina impropria e tentativo: contrasti fra dottrina e giurisprudenza di legittimità, Giur. merito, 1997, 573.

[4] Cfr., fra le altre, esprimenti un indirizzo interpretativo unanime, Cass. sez. II, 9 febbraio 1979, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1982, 1615; Cass. sez. II 10 luglio 2001, n. 28044, in Cass. pen. 2002, p. 3775. In linea con l’orientamento giurisprudenziale, v., in dottrina, Marra, Ancora riflessioni sul tentativo nella rapina impropria, in Cass. pen. 2002, p. 3777; Baldi, In tema di configurabilità del tentativo di rapina impropria, in Cass. pen. 2001, p. 1215.

[5] Concas, Sottrazione, impossessamento, cit.; Padovani, Tentativo di sottrazione, cit.

[6] Questa è l’impostazione della dottrina dominante succitata. In questo senso anche quella manualistica. Cfr. Fiandaca-Musco, Diritto penale – parte speciale, dei delitti contro il patrimonio, 2002; Mantovani, Diritto penale, parte speciale, dei delitti contro il patrimonio, p. 93. Dai vari contributi dottrinali si può cogliere fra l’altro anche una divergenza interpretativa in ordine al concetto di “immediatamente dopo la sottrazione” che per la giurisprudenza costante, anche recente, è espresso dai concetti di “flagranza” o “quasi flagranza”, mentre per la dottrina, per spiegare la locuzione ci si dovrebbe riferire a quella situazione di transizione in cui si realizza l’estinzione del possesso del soggetto passivo, per via dell’uscita dalla relativa sfera di sorveglianza, a favore del conseguimento di quello dell’agente. Sul punto cfr. .F. Mantovani, Rapina, cit.; Zagrebelsky V., voce Rapina, cit.

[7] Padovani, Tentativo di sottrazione, cit.

[8] Ancora Padovani, Tentativo di sottrazione, cit.; Adami, La configurabilità del tentativo, cit.

[9] Il riferimento è non solo a Cass. sez. V n. 3796 del 1999, in Cass. pen., 2001, p. 1214 ma anche ad una recente pronuncia in cui sembrano trovare accoglimento le tesi sostenute in dottrina di cui si riporta la massima: “In tema di rapina impropria, postulando l’art. 628 comma 2 c.p., che la violenza o minaccia siano adoperate “immediatamente dopo la sottrazione” ed al fine di conseguire, proprio mediante il loro impiego, il possesso, non ancora conseguito, della cosa sottratta ovvero della impunità, deve ritenersi che non sia configurabile il tentativo di rapina impropria, ma sussistano invece il reato di tentato furto e quello (minaccia, percosse, lesioni o altro)cui la condotta violenta o minacciosa abbia dato luogo, qualora tale condotta sia posta in essere senza che la sottrazione sia stata previamente realizzata”, così Cass. sez. V n. 32551 del 2007 in CED 236969.

Martella Federico

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