§ 1) Il problema della successione nelle PMI familiari e le sue dimensioni.
In questo articolo esaminiamo un aspetto cruciale della gestione aziendale che, pur toccando la struttura organizzativa, interessa principalmente l’assetto di controllo proprietario delle imprese e soprattutto delle PMI – Piccole e medie imprese, vale a dire quello del “cambio (o “passaggio”) generazionale” o della “successione” fra gli imprenditori che hanno creato e sviluppato una impresa fino al punto in cui è oggi ed i loro figli che hanno raggiunto l’età in cui possono dare il loro contributo alla gestione di essa.
Esamineremo, inoltre, l’istituto giuridico del “patto di famiglia”, introdotto dalla Legge n. 55 del 2006 proprio per facilitare il passaggio di generazione in una famiglia che gestisce o possiede una impresa o detiene partecipazioni nel capitale di essa.
Secondo stime della Commissione Europea riferite all’anno 2002, il problema del passaggio generazionale interessa ogni anno in Italia circa 40.000 imprese aventi forma diversa dall’impresa individuale a cui si aggiungono 60.000 imprese individuali, per un totale annuo di 100.000 imprese, pari al 2,5% del totale1. Ma anche questo dato, pur ragguardevole, non dà l’esatta dimensione del problema visto che la successione alla guida dell’impresa non si può certo improvvisare e deve essere, pertanto, preparata con molto anticipo. Si stima, infatti, che circa il 20% delle imprese italiane, quindi circa 800.000 imprese, sia oggi interessato al problema del cambio generazionale, dal momento che questa è la percentuale dei titolari di imprese con più di 60 anni nel Centro Nord, mentre nel Sud l’età media di essi è più bassa, ma solo di qualche anno (fra i cinque ed i dieci).
Si tenga inoltre presente che il tempo opera sulle aziende una vera e propria “selezione darwiniana”, per cui, sempre da studi della Commissione Europea, il tasso di sopravvivenza delle imprese di seconda generazione è stimato fra il 20 ed il 25%, mentre quello delle imprese di terza generazione è compreso fra il 5 ed il 15%, ma la dimensione aziendale media per fatturato, patrimonio, numero di occupati tende a crescere fra i vari passaggi generazionali.
E’ facile comprendere, pertanto, quanto sia importante che vi siano dei meccanismi efficaci ed efficienti per affrontare questo passaggio cruciale dell’esistenza di una impresa proprio per garantire, se non proprio la crescita, almeno la continuità della creazione di valore, reddito ed occupazione da parte di essa.
§ 2) I modi per gestire il problema della successione nelle PMI familiari.
Per questo esame partiamo quindi dalla premessa che quelle di cui parliamo sono, ovviamente, le imprese a proprietà e controllo familiare. L’impresa familiare è definibile come quella in cui una o poche famiglie, collegate da vincoli di parentela, di affinità o da solide alleanze, detengono una quota del capitale di rischio sufficiente ad assicurare il controllo dell’impresa anche quando esso è esercitato in presenza di manager e/o di amministratori esterni alla famiglia, fino ad includere il caso in cui nessun membro delle famiglie controllanti è impegnato nella gestione dell’azienda.
Per dare un’idea della diffusione del fenomeno, segnaliamo che tutti i principali istituti di ricerca e di statistica economica del nostro paese (Banca d’Italia, ISTAT, Unioncamere, ecc.) fissano ad almeno il 90% la percentuale delle imprese italiane rientranti nella citata definizione di “impresa familiare”.
A seconda del grado e della quantità della partecipazione di membri esterni alla famiglia agli organi societari ed al management, si può distinguere tra imprese familiari “tradizionali” (la famiglia proprietaria esprime anche tutto il management), “allargate”, “aperte”, fino al “gruppo di imprese familiari” quando vi sono più società controllate dalle stesse persone o da una società capogruppo le cui quote o azioni sono detenute dai familiari2. Quest’ultimo è il caso della c.d. “piccola holding”, cioè di una società controllante con un capitale proprio piuttosto contenuto che detiene e gestisce partecipazioni nel capitale di società controllate che non hanno un elevato valore nominale ma che determinano da sole o sono comunque significative per la formazione della maggioranza nell’assemblea dei soci.
L’impresa familiare “allargata” è quella che utilizza managers esterni (quadri e dirigenti) di solito sulla spinta della crescente complessità della struttura da governare e dei problemi da risolvere, mentre è “aperta”, quando vi sono anche soggetti proprietari non familiari, per esempio, altri soci privati (imprese o persone fisiche), investitori istituzionali, fondi chiusi, banche creditrici che abbiano consolidato in tutto od in parte in capitale di rischio precedenti crediti illiquidi, ecc.
In particolare, poi, la forma di gruppo di imprese consente alla famiglia azionista controllante il vantaggio, in caso di fallimento di una o più delle società controllate, di limitare la responsabilità patrimoniale dei familiari soci nella misura delle quote di capitale detenute. Il vantaggio emerge soprattutto quando non c’è un unico azionista proprietario dell’intero gruppo.
Per le piccole e medie imprese il gruppo di società può rappresentare, come è avvenuto in tanti casi in Italia ed in Puglia, il primo passo verso una struttura organizzativa più complessa che accompagni la crescita dimensionale, consentendo anche un certo grado di autonomia gestionale alle società controllate che difficilmente sarebbe possibile avere in una struttura multidivisionale di un’unica società. Questo modello può essere scelto anche per dare una maggiore articolazione alla struttura proprietaria.
E’ noto che l’assoluta non contendibilità alla famiglia della proprietà e del controllo dell’impresa ha come svantaggio la possibilità di finanziare la crescita solo con risorse proprie (i capitali dei familiari e gli utili dell’impresa, cioè l’autofinanziamento da essa generato) o, di solito e maggiormente, con capitale preso a prestito dalle Banche e non con capitale di rischio raccolto sul mercato borsistico o da soggetti terzi investitori. In questo caso le banche creditrici sono l’unico soggetto che può esercitare una supervisione ed un controllo sulla gestione dell’impresa, ma il frazionamento del rischio degli affidamenti bancari, il non elevato livello di indebitamento complessivo (il c.d. “leverage”) in assoluto ed in rapporto col capitale proprio ed, infine, una corretta e leale gestione dei rapporti con le banche può, nella maggior parte dei casi, evitare l’esercizio di questo tipo di controllo.
Del resto, non è un caso se molti economisti, soprattutto anglosassoni, hanno messo in luce, anche attraverso ricerche empiriche, l’efficienza superiore alla media dell’impresa familiare di prima generazione e quella inferiore alla media della stessa impresa di seconda o di terza generazione.3
Per quanto riguarda la gestione concreta della fase del “cambio generazionale” o della “successione” della nuova generazione di imprenditori figli dei fondatori dell’azienda, la letteratura sul c.d. “dynastic management” e sulle imprese familiari (o “family firms”), suggerisce che questi ultimi devono scegliere, di fatto, fra queste tre alternative4:
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allargare la proprietà rinunciando al controllo: l’impresa diventa una c.d. “public company”, gli imprenditori – azionisti – fondatori familiari e gli eventuali azionisti esterni scelgono di comune accordo il o i migliori managers professionisti disponibili sul mercato del lavoro (anche quadri o dirigenti formati all’interno dell’azienda, non solo esterni), che nel caso concreto sono più adatti a quel compito rispetto agli eredi;
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far entrare azionisti esterni di minoranza e chiamare il o i migliori managers professionisti disponibili, su cui il o gli azionisti – fondatori e/o i suoi o i loro eredi esercitano un controllo ravvicinato e puntuale;
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mantenere la stretta proprietà familiare e chiamare alla successione il o i family managers eredi.
Nel mondo anglosassone prevale, di solito, la prima scelta, mentre le altre due sono tipiche dell’Europa continentale e, soprattutto, dell’Italia, in cui è prevalsa dal punto di vista numerico, finora e di gran lunga, la terza alternativa.
Per le sole imprese di media e medio – grande dimensione con o senza forma di gruppo di società, un altro grande pericolo della fase di passaggio generazionale è che il gruppo o la singola impresa, invece di razionalizzarsi (se necessario, ovviamente), semplificando la propria struttura societaria od organizzativa, moltiplichi le proprie articolazioni societarie od organizzative per offrire una sistemazione a tutti i membri della seconda (o successiva) generazione di imprenditori. In questo modo si rischia di rendere ipertrofica la struttura giuridica ed organizzativa del gruppo di imprese familiari, di ostacolare la sua capacità di adattarsi ai cambiamenti del mercato e di sfruttare le sinergie fra le varie imprese del gruppo ed, in ultima analisi, di creare un’azienda con scopi tattici e difensivi, piuttosto che strategici e di sviluppo.
§ 3) Il “patto di famiglia” introdotto dalla Legge n. 55 del 2006.
Il fatto che il problema gestionale più spinoso per una impresa a proprietà e gestione familiare, specie se di dimensioni medie o piccole, sia, quasi sempre, quello della successione o del “cambio generazionale” deriva anche dall’assenza di specifici strumenti giuridici e, pertanto, vincolanti, utilizzabili dagli imprenditori per regolare questo fondamentale passaggio in modo tale da favorire l’erede o gli eredi che sembrano più adatti a continuare l’opera della precedente generazione come proprietari o come manager.
Per iniziare a risolvere questo problema della mancanza di strumenti giuridici specifici con cui regolare la successione nelle imprese familiari, la Legge n. 55 del 2006 ha introdotto nel Titolo IV del Libro II (sulle successioni) del Codice Civile il Capo V – bis, composto dagli articoli da 768 – bis a 768 – octies e dedicato all’istituto del “patto di famiglia”.
Il patto di famiglia è un patto successorio, cioè un contratto “con cui taluno dispone della propria successione” che è sempre nullo, eccetto proprio il caso del patto di famiglia, la esclusione della cui nullità è stata introdotta nell’art. 458 c.c. dall’art. 1° della Legge 55/2006.
L’art. 768 – bis definisce “patto di famiglia” “il contratto con cui […] l’imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l’azienda, e il titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote, ad uno o più discendenti”. La prima disposizione riguarda quindi l’imprenditore individuale che può trasferire l’azienda, cioè “il complesso dei beni organizzati […] per l’esercizio dell’impresa” (art. 2555 c.c.), e la seconda riguarda tutti i tipi di partecipazioni in società di persone, di capitali o cooperative.
Per questo motivo tale disposizione deve coordinarsi con la disciplina delle società (oltre che con l’art. 230 – bis c.c. sull’impresa familiare), per es., con l’art. 2284 c.c. che prevede, per il caso di morte del socio nelle società di persone, la scelta fra la liquidazione della quota agli eredi, lo scioglimento della società o la continuazione di essa con gli eredi consenzienti (a meno che l’atto costitutivo non disponga diversamente) o con l’art. 2469 c.c. riformato nel 2003 che prevede la possibilità che l’atto costitutivo delle Srl sancisca l’intrasferibilità assoluta delle quote anche nel caso di morte del socio.
Il patto di famiglia deve essere concluso per atto pubblico a pena di nullità (art. 768 – ter c.c.) e ad esso “devono partecipare anche il coniuge e tutti i soggetti che sarebbero legittimari se in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell’imprenditore” (art. 768 – quater, 1° comma, c.c.), vale a dire, ai sensi dei primi due commi dell’art. 536 c.c., il coniuge, i figli legittimi, i figli naturali e gli ascendenti legittimi. Gli assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie devono liquidare gli altri partecipanti al contratto, se questi non vi rinunziano in tutto o in parte, con il pagamento di una somma o, se tutti i contraenti sono d’accordo, con l’assegnazione di altri beni di valore corrispondente alle quote di riserva dei legittimari previste dagli artt. 536 e ss. c.c. Da ciò deriva che il “patto di famiglia” è uno strumento che può essere anche molto oneroso e che solo imprenditori con un cospicuo patrimonio personale extraziendale o proprietari di imprese con una buona liquidità si possono permettere di usare nel caso debbano liquidare una pluralità di legittimari.
I beni assegnati con questo contratto agli altri partecipanti devono essere imputati, in base al valore attribuito in esso, alle quote di legittima loro spettanti. Si deroga, pertanto, al principio che il valore dell’impresa sia valutato al momento della morte del de cuius, ma l’assegnazione può essere disposta anche con un successivo contratto che sia espressamente dichiarato collegato al primo e purché vi intervengano i medesimi soggetti che hanno partecipato al primo contratto o coloro che li hanno sostituiti (per esempio, i figli in caso di morte dei genitori). Quanto ricevuto dai contraenti non è soggetto a collazione (cioè al conferimento delle donazioni ricevute in vita dal de cuius nella massa attiva dell’eredità, art. 737 e ss. c.c.) o a riduzione (l’azione che permette ai legittimari, lesi per effetto di donazioni o disposizioni testamentarie lesive dei loro diritti, di ridurre tali disposizioni e di reintegrare la propria quota di riserva, art. 553 e ss. c.c.) (art. 768 – quater, commi 2, 3 e 4, c.c.).
Il patto può essere impugnato dai partecipanti per vizi del consenso (errore, violenza e dolo) ai sensi degli artt. 1427 e ss. c.c. entro il termine di prescrizione di un anno (art. 768 – quinquies c.c.) e, conseguentemente, può essere annullato se il consenso fu viziato.
All’apertura della successione dell’imprenditore, i legittimari che non abbiano partecipato al contratto possono chiedere ai beneficiari del patto di famiglia il pagamento della somma di cui sopra prevista dall’art. 768 – quater, 2° comma, c.c. aumentata degli interessi legali. Il mancato pagamento costituisce motivo d’impugnazione del patto ai sensi dell’art. 768 – quinquies c.c., di cui al capoverso precedente.
Il contratto può essere sciolto o modificato dalle medesime persone che hanno concluso il patto di famiglia (quindi finché è in vita l’imprenditore che trasmette l’azienda o le partecipazioni societarie) mediante un nuovo contratto che rispetti la disciplina del patto di famiglia o mediante recesso, se espressamente previsto dal contratto stesso e che sia manifestato attraverso una dichiarazione agli altri contraenti al patto certificata, cioè autenticata da un notaio (art. 768 – septies c.c.).
Le controversie sui patti di famiglia, prima di essere esaminate dal Giudice Ordinario, sono devolute preliminarmente ad uno degli organismi di conciliazione stragiudiziale previsti dall’art. 38 del Decreto Legislativo n. 5 del 2003, per esempio quelli delle Camere di Commercio (art. 768 – octies c.c.).
Concludendo, possiamo dire che il legislatore, facendo del patto di famiglia una tipologia contrattuale tipica, cioè prevista dalla legge, ha conferito forza cogente ad uno strumento che la pratica e gli studi di management già conoscevano, ma che prima non aveva valore legale e si limitava ad essere un insieme di principi – guida e di regole chiare e condivise sui rapporti tra famiglia ed impresa finalizzati allo sviluppo di medio – lungo periodo di quest’ultima.
Le ragioni alla base di un simile strumento erano e sono: l’aumento progressivo del numero di membri della famiglia proprietaria col passare delle generazioni e la diversità dei principi su cui si basano la famiglia (unità, fedeltà, mutua assistenza) e l’impresa (economicità, efficienza, produttività). Esso serviva e serve a chiarire nel tempo (anche creando una memoria storica che altrimenti andrebbe persa) le regole, le ragioni e i valori che i familiari osservano o debbono osservare nei rapporti con l’impresa e può rappresentare uno strumento di pressione morale nei confronti di coloro che adottano o vogliono adottare dei comportamenti devianti rispetto ad essi.
Dante Alighieri nel Purgatorio scrive: “Non sempre la virtute discende per li rami”, intendendo che non sempre le virtù, cioè le qualità, dei padri si trasmettono ai figli. Non perché i figli sono peggiori dei padri, ma perché i figli sono sempre diversi dai padri. Un ottimo imprenditore può avere figli che hanno tutt’altre aspirazioni e capacità, così come tanti grandi imprenditori sono nati da famiglie in cui non c’era mai stato nessun imprenditore.
Pertanto, una società ed un’economia che non abbiano degli strumenti efficaci per indirizzare al meglio i talenti dei singoli (e la società e l’economia italiane hanno molte e note carenze in questo) non possono che essere meno competitive e generare meno benessere delle altre che questi meccanismi posseggono in maggior misura.
1 Fonte: elaborazione dell’autore su dati della Commissione Europea.
2 La classificazione seguita è quella nel fondamentale studio di G. Corbetta: “Le imprese familiari”, 1995, EGEA.
3 Per i riferimenti su questa letteratura vedi: L. Sciandra. “Patto di famiglia e riforma societaria: opportunità e costi per i passaggi generazionali delle PMI”, in “Mercato, Concorrenza, Regole” n. 2 del 2006.
4 Classificazione ripresa da: F. Onida: “Se il piccolo non cresce”, Ed. Il Mulino, 2004.
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