La distinzione tra ‘pubblico’ e ‘privato’, nonostante i tanti approfondimenti e le significative ricostruzioni del problema da parte di studiosi di varia estrazione, continua a presentarsi come oggetto di innegabile interesse e, soprattutto, continua a presentare confini mobili ed evanescenti in relazione ai punti di vista dai quali si osserva, alla fase storica di riferimento, alla strumentalità dell’atteggiamento con il quale la si affronta.
Fin troppo spesso, si devono registrare opinioni sulla natura ‘pubblica’ di scuola, università, sanità, assistenza e sulla paventata ‘privatizzazione’ degli stessi ambiti, che prescindono da qualunque riflessione sulla portata semantica degli aggettivi utilizzati e sulla relatività della loro funzione normativa in relazione al contesto di riferimento.
La sensazione che si avverte è quella di una straordinaria incertezza nell’ambito dei processi di qualificazione e di una diffusa polisemia dei termini ‘pubblico’ e ‘privato’, che sfugge troppo spesso al controllo di chi ne fa uso.
Sembra particolarmente urgente tornare a riflettere sul valore della qualificazione di ‘pubblico’ e, corrispondentemente, di ‘privato’ in ambiti sociali ed economici, nonché in contesti storici, profondamente diversi. Si va dal problema della natura pubblica/privata degli enti del sistema creditizio, a quello della trasformabilità in fondazioni di scuole, università, ospedali, enti pubblici non economici; dal problema del regime lavori stico dei dipendenti degli enti pubblici, al problema dei criteri di esplicitazione e valutazione delle attività della pubblica amministrazione e dei relativi risultati; dal problema della definizione delle aree di intervento ‘autoritativo’, al problema della legittimazione per consenso sociale preventivo di normative di particolare rilevanza.
Concezioni dell’uomo e processi auto istituenti della società.
Tutte le volte in cui si fa riferimento alla nozione di ‘pubblico’ ritenendo di evocare un principio organizzativo di particolare efficacia nella tutela degli interessi dei cittadini, si dovrebbe prestare più attenzione alla storia dell’aggettivo all’uso normativo che ne è stato fatto nei vari contesti.
Chi avverte una vibrazione quasi ‘sacrale’ del termine non è lontano dal vero, ma forse dovrebbe riflettere meglio sui valori culturali di riferimento.
La Comunità dei popoli del Mediterraneo riesce a coniugare, forse in misura più significativa che altrove, la salvaguardia di valori tradizionali con la presenza di importanti organizzazioni statuali e amministrative. Certamente, è difficile paragonare l’esperienza di Stati a forte tradizione amministrativa, come Spagna, Francia, Italia, Turchia, Egitto e, nonostante la breve storia, Israele, con altri Stati che operano nella stessa area. Non sempre la cultura amministrativa di derivazione francese ha lasciato segni talmente profondi da garantire continuità al modello applicato.
La caratterizzazione del sistema di organizzazione, rappresentazione e tutela degli interessi che costituisce il modello europeo occidentale di amministrazione, tuttavia, sembra avere radici comuni particolarmente significative e percorsi evolutivi abbastanza confrontabili.
Si può tranquillamente affermare, per esempio, che la Comunità mediterranea si caratterizza per la particolare incidenza nelle proprie culture della dimensione religiosa come ‘cifra’ determinante del rapporto fra società civile e sistema istituzionale. Nella storia degli ultimi cinquecento anni, anche se con varia intensità e caratterizzazione sistematica, il processo autoistituente che determina la nascita e la formazione degli Stati dall’organizzazione della società è stato caratterizzato dalla tensione fra istituzioni sociali di derivazione religiosa e istituzioni pubbliche che tendono a ‘laicizzare’ modelli, schemi, procedimenti di razionalizzazione di origine religiosa.
La ricerca, a volte drammatica, sempre intensa, dell’equilibrio fra le ragioni della persona, del singolo che si pone in relazione con gli altri e le ragioni della collettività che cerca la legittimazione delle scelte, che in qualche modo deve limitare, coordinare, indirizzare l’azione individuale in un sistema sempre più complesso ha caratterizzato lo sviluppo delle stesse nozioni di ‘pubblico’ e di ‘privato’, mutuando dal ‘rito’ e dalla’liturgia’ l’attenzione alle forme e al procedimento come strumenti essenziali della rappresentazione e della dura dei valori.,.
In Paesi come la Spagna, l’Italia e, per certi versi, anche la Francia, l’organizzazione e la dimensione dello Stato, come entità autonoma dalla società e ad essa dialetticamente contrapposta traggono origine dall’esperienza religiosa in almeno due sensi: da un lato, come modello culturale di organizzazione di sistemi dipendenti dal principio di autorità e dal principio di non contraddizione; dall’altro, come processo di contrapposizione dialettica delle istituzioni laicizzate alla matrice religiosa dello schema organizzativo e delle relazioni sociali.
Negli Stati mediterranei di maggiore tradizione amministrativa è possibile individuare un processo storico segnato dalla progressiva espansione, a partire dal cinquecento, di istituzioni di cura dei più significativi aspetti della vita di relazione e della socialità. Tali istituzioni, per un lungo periodo, sono cresciute per importanza del ruolo sociale e per complessità dell’organizzazione, producendo un sapere e una capacità di impostazione e risoluzione dei problemi come tecnica autonoma dalla stessa ispirazione religiosa originaria.
Probabilmente esistono ancora significativi spazi di indagine per ricostruire aspetti e profili del diritto degli Stati amministrativi dell’ottocento e del novecento, che traggono origine da istituti e sistemi di regolazione della vita civile, qualificati dalla rispondenza a un principio trascendente di autorità, non disponibile dai singoli.
La sostituzione del principio trascendente con il principio di autorità laica si è realizzata mediante l’invenzione dello Stato moderno e la sua ipostatizzazione, fino all’estremizzazione ‘etica’ degli Stati-nazione.
Tale processo non è di esclusiva pertinenza degli Stati europeo-mediterranei: fin troppo spesso, purtroppo, dimentichiamo nelle nostre ricostruzioni di fare il dovuto riferimento alla straordinaria e parallela esperienza del sistema ottomano e delle sue derivazioni laiche più significative, turca ed egiziana, di organizzazione sociale e statuale. Una vicenda, parallela a quella della modernità europea, che si è sviluppata nelle dimensioni di un impero che riuniva e, in qualche modo, organizzava i popoli di metà, forse più, delle coste mediterranee, con una propria organizzazione statuale e sociale di grandissimo rilievo e con una forte impronta religiosa.
Forse non abbiamo ancora sviluppato in tutte le sue possibili declinazioni il problema del rapporto fra diritto civile, delle persone, della famiglia, delle relazioni sociali e di solidarietà (come quelle dei regimi successori) e il diritto pubblico che definisce i percorsi di cittadinanza (sanità, istruzione, assistenza). In particolare, non abbiamo approfondito i profili di continuità o di cesura che segnano il rapporto fra diritti delle persone e regole di derivazione religiosa delle prime codificazioni europee e, ancora oggi, del diritto tradizionale islamico.
Escludere o rimuovere il rapporto fra concezioni dell’uomo e della società nel processo di organizzazione istituzionale dalla nostra riflessione sui sistemi di amministrazione pubblica nel bacino mediterraneo sarebbe, dunque, in primo luogo, un errore di prospettiva storica. È necessario ricostruire le radici dalle quali si sono sviluppati i concetti essenziali che definiscono l’attuale modello per evitare di correre il rischio dell’incomprensione degli stessi processi in corso.
Non si può fare a meno, quindi, di richiamare la tensione profonda fra libertà individuale e rappresentazione istituzionale della società che ha caratterizzato la storia profonda, filosofica, religiosa, politica, delle comunità mediterranee a partire dalle città-stato dell’epoca greca e lo scontro, spesso violento, di concezioni totalitarie e olistiche con concezioni individualistiche e libertarie. Il paradigma originario di ricerca dell’autonomia degli individui dalla teocrazia del dio-re (faraonico, persiano, minoico), quasi miticamente rappresentato da Atene e Sparta, continua a far sentire tutto il suo peso attraverso la storia e si manifesta come visione antropologica-giuridica delle organizzazioni della modernità.
La stessa tensione attraversa le concezioni filosofiche dell’occidente cristiano, che pure tanto mutua dal pensiero classico e dalle sue riletture arabe, durante tutto il medioevo e il rinascimento.
Le concezioni moderne dell’uomo e delle sue relazioni, dell’identità individuale e dell’organizzazione collettiva, traggono alimento dalla profonda storia delle antropologie monoteistiche del Mediterraneo e dalle conseguenti visioni dei rapporti dei singoli con lo Stato, con la concezione della giustizia, con la definizione delle forme di legittimazione dell’azione collettiva. Il tentativo di attribuire un significato specifico e univoco al termine ‘pubblico’ si deve misurare, quindi, con la periodica oscillazione della ricerca del miglior equilibrio possibile tra le ansie di libertà individuale e gli storici e concreti assetti dei processi di legittimazione dell’autorità che pone limiti nell’interesse della realizzazione di tutti e di ciascun individuo.
Pubblico e privato nel processo di istituzionalizzazione della società.
In particolare, non è possibile dimenticare che la costante dialettica fra ‘individuale’ e ‘collettivo’, ‘particolare’ e ‘generale’, ‘riservato’ e ‘comune’, attraversa, oggi come sempre, l’esperienza di quanti vivono e si confrontano con sistemi complessi e con la necessità di esprimere e regolare aspettative, esigenze, bisogni. Essa trova forme sempre nuove di manifestazione nell’evoluzione parallela e, spesso, complementare dei concetti di ‘pubblico’ e ‘privato’.
La stessa concezione dello Stato e del mercato si presenta con peculiarità proprie nell’area mediterranea. Alla pretesa, certamente ben più radicata nelle esperienze dell’Europa continentale e di tradizione protestante, di una espansione incontenibile della logica di mercato e della potenziale traduzione in termini monetari di qualunque rapporto, si contrappone l’esigenza di salvaguardare schemi di relazione che trascendono la reciprocità corrispettiva esigendo comunque una rappresentazione rispettosa di gerarchie di valori.
Il percorso seguito negli ultimi centocinquanta anni è caratterizzato dall’espansione di una sfera ‘pubblica’, impersonale e sempre più autonoma, al cui ambito di competenza si è preteso di attribuire la mediazione di tutte le tensioni che non sono facilmente risolubili nella logica dello scambio corrispettivo. Il processo ha avuto certamente il significativo effetto di esprimere in forma autoritativa l’incommerciabilità di certi valori (si pensi al divieto della tratta degli schiavi) e di costituire un baluardo a tutela delle aspettative essenziali.
L’affrancamento della società civile dai valori e dalle regole di derivazione religiosa, per muovere, spesso, nella direzione della ‘laicizzazione’ e generalizzazione di tutele precedentemente garantite dalle stesse regole, ha prodotto una oggettivazione e un irrigidimento dell’organizzazione nelle forme della pubblica amministrazione moderna che conosciamo.
Si pensi solo alla stretta correlazione storicamente rilevabile fra il concetto di persona giuridica e l’istituzionalizzazione delle esperienze religiose e delle esperienze civili connesse all’adempimento dei doveri di pietà (pertutte le religioni che convivono nell’area mediterranea). Si pensi pure all’ipostatizzazione della comunità nella concezione dello stato nazionale.
Nel breve corso di poco più di un secolo, un radicale processo di trasformazione dei valori e dei criteri di misura dei rapporti fra gli uomini ha prodotto, proprio nei paesi a più antica tradizione di società organizzata in forma religiosa, un enorme apparato amministrativo che ha progressivamente assorbito aree di relazioni sempre più importanti. Nell’ambito di un processo di (apparente) semplificazione è stato trasferito al mercato ogni rapporto che poteva essere espresso in termini di reciprocità corrispettiva, mentre sono stati assorbiti nella ‘funzione pubblica’ tutti i rapporti che per un aspetto o per altro non potevano essere rappresentati in termini di scambio monetario.
Autorità e mercato hanno costituito una coppia di opposti tendenzialmente esaustiva dei problemi di regolazione di ogni tipo di rapporto e sono stati utilizzati per circoscrivere qualunque potenzialità argomentativa che potesse forzare i rigidi confini dell’eguaglianza formalistica.
Rispetto a tale processo, che ha dato luogo, nel corso dei decenni, alla formazione dello Stato etico e alla sua cancellazione, alla nascita delle moderne democrazie generaliste e alla crisi delle stesse, ai molteplici tentativi di riorganizzazione del ‘servizio’ ai cittadini, continuano a crescere movimenti critici e resistenze direttamente proporzionali alla quantità e alla qualità della crescita dell’intervento pubblico.
Una di tali tendenze può essere ricondotta al processo di espansione della logica del mercato.
Si pensi solo ai tentativi di mercantilizzazione delle tecniche trapiantistiche di organi, alle commercializzazione delle tecniche di maternità assistita o, ancor più, alle tecniche surrogatorie della maternità naturale. Sarà facile, in tali contesti, cogliere una nuova dimensione privatistica e mercantile della concezione dell’uomo.
Con maggiore evidenza il processo si manifesta nella riorganizzazione dei servizi di risposta ai bisogni indotti dalla modernità: dall’organizzazione amministrativa si passa verso forme commerciali e imprenditoriali.
A prima vista, dunque, sembrerebbe che l’aspirazione alla generalizzazione della logica di mercato trovi ogni giorno nuovi sostenitori e nuove ragioni. Una sorta di processo forzoso di smantellamento del complesso organizzativo messo in opera dagli Stati nazionali nel corso dell’ottocento e del novecento sembra procedere sotto le insegne del mercato.
Stato, mercato, nuove istituzioni delle autonomie sociali.
Se si osserva con maggiore attenzione il processo, tuttavia, non è difficile rendersi conto che la rivoluzione alla quale stiamo assistendo è ben più lontana di quanto si creda dalla generalizzazione dei principi di mercato.
Sembra, anzi, che si possa affermare che l’ipotesi di una mercantilizzazione coattiva delle relazioni già organizzate in forma amministrativa sia abbastanza circoscritta rispetto ai processi di riforma in corso. Probabilmente, si deve rilevare, da una parte, un’eccessiva enfasi critica in tutti gli interventi che paventano la pervasività di presunte forzature delle riforme nell’ambito della logica appropriativa; dall’altra, al contrario, una certa superficialità e genericità nei tentativi di applicazione dei principi innovativi introdotti da varie norme, non sempre coerenti e non sempre riconducibili a vere logiche di mercato.
Per restare all’esempio dell’Italia, non si può certo affermare che il lungo processo di riforma della pubblica amministrazione sia un processo di mercantilizzazione. Esso muove dai primi anni settanta, con i tentativi di introduzione di modelli partecipativi, con la progressiva destrutturazione del carattere ‘misterico’ della funzione amministrativa e con l’affermazione del principio di trasparenza come presupposto essenziale della ‘giustizia’ (o della ‘giustezza’) dell’azione amministrativa, con la riduzione allo stato privatistico di molti segmenti dell’organizzazione pubblica dell’economia e dei servizi. La direzione nella quale si sviluppa questo processo non è certo quella del puro e semplice trasferimento al mercato delle funzioni, già, svolte da operatori pubblici.
Assistiamo, piuttosto, a una nuova fase dei processi di giuridicizzazione, all’introduzione di tecniche più sofisticate della mediazione istituzionale del bisogno e delle tensioni sociali.
Le dimensioni della ‘depubblicizzazione’ sono molteplici e non devono essere necessariamente ricondotte ai principi di lucratività e di appropriazione individuale.
Rapidamente e senza alcuna presunzione di esaustività, ci pare che si possano individuare alcune linee significative per l’evoluzione del processo che è ancora in corso di sviluppo.
Si tratta di singoli segmenti, di tratti, di istituti ancora non del tutto specificati, che lasciano intravvedere tendenze, spesso non del tutto chiare, ma comunque abbastanza univoche rispetto alla prospettiva finale di riduzione dell’area della legittimazione di un intervento pubblico fondato sull’autorità.
a) Privatizzazione come restituzione al mercato di categorie di attività e di rapporti che erano considerati ‘pubblici’ per l’assunzione diretta da parte dello Stato per varie ragioni di politica economica e sociale. Si può fare riferimento a tutti i grandi sistemi di servizio pubblico nati privati, pubblicizzati per superare la crisi degli anni trenta e le successive crisi di crescita (come la nazionalizzazione della produzione e distribuzione di energia elettrica e la telefonia negli anni sessanta), riprivatizzati all’esito dei processi tecnologici di diffusione delle capacità organizzative. . Il processo manifesta, tuttavia, i limiti propri del mercato in tutti i casi (quasi tutti) in cui alla ‘restituzione’ si associa l’introduzione di regimi articolati di controllo del mantenimento dell’equilibrio delle posizioni reciproche tra i ‘successori’ del monopolio pubblico e tra loro e l’utenza. Il sistema delle ‘autorità’ esplicita l’incapacità di autoregolazione del mercato in presenza di operatori particolarmente forti e sostituisce ad una regolazione autoritativa diretta dell’attività economica, una regolazione esterna volta a definire limiti all’agire dei privati in nome dei principi ‘liberali’ di concorrenza, trasparenza, tutela della riservatezza, ecc.
La ‘restituzione’ al mercato si realizza istituendo i confini, le ‘rationes’, i criteri di accesso per un’area di relazioni che non può essere lasciata all’anarchia.
Nella specifica ipotesi di ‘privatizzazioni per restituzione al mercato’, quindi, si può ritenere che l’intervento autoritativo pubblico originariamente fondato su una componente proprietaria che determinava anche le funzioni di regolazione in forma direttamente economica, si è risolto nell’istituzione di una funzione meramente regolatoria e in una coesione parziale o totale della proprietà pubblica delle aziende produttrici.
b) Privatizzazione come ‘depubblicizzazione’ di apparati che erano stati considerati pubblici per una valutazione ‘etica’ della funzione svolta e per la conseguente legittimazione dell’intervento finanziario pubblico. Si può fare riferimento alle ipotesi previste dal decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 419, nelle sue singole disposizioni nonché l’elenco di cui alla tabella A, alla trasformazione in fondazioni bancarie (per la parte non commerciale) degli enti pubblici creditizi, alla riqualificazione privatistica degli enti di patronato. La pubblicità di tali enti deriva direttamente dall’evoluzione della loro funzione originaria di istituzioni che non perseguivano interessi di singoli e che speravano nei confronti del ‘pubblico’, intesa come categoria indifferenziata di destinatari. Sulla scorta delle considerazioni della stessa Corte Costituzionale, enti come le IPAB trarrebbero la legittimazione della loro autonomia dall’originaria caratterizzazione privatistica del procedimento istitutivo, mentre la ‘pubblicizzazione’ dipendente dalla legislazione crispina, altro non sarebbe che il riconoscimento della natura intrinsecamente pubblica della funzione di assistenza. La ricostruzione appena riferita, ovviamente, deve essere confrontata, come pure lo è stata da parte della stessa Corte Costituzionale, con la portata del principio pluralistico sancito dall’art. 38 Cost.
c) Privatizzazione come ‘aziendalizzazione’. Nelle tre grandi aree delle relazioni connesse alla salute, all’istruzione/educazione, all’assistenza sociale, a parte la già evidenziata espansione del processo di ‘depubblicizzazione’ relativo alla riconduzione all’originaria natura civilistic del regime soggettivo, il processo di privatizzazione si manifesta come trasformazione dei criteri operativi dell’organizzazione e della gestione, nonché come introduzione di criteri di responsabilizzazione per la gestione di risorse pubbliche da parte di organismi pubblici. Si può fare riferimento alla normativa in materia di organizzazione del sistema sanitario L’Atto Aziendale è atto di diritto privato ai sensi dell’art. 3, comma 1-bis, del d.lgs. 502/92 e successive integrazioni e modificazioni. Più in generale per l’intera Pubblica amministrazione, all’esito di una complessa vicenda legislativa (art. 4 del d.lgs. n. 29 del 1993, come sostituito prima dall’art. 3 del d.lgs. n. 546 del 1993, successivamente modificato dall’art. 9 del d.lgs. n. 396 del 1997, e nuovamente sostituito dall’art. 4 del d.lgs. n. 80 del 1998), nell’art. 5 c. 2 del d.lgs. n. 165 del 2001 è stabilito che «Nell’ambito delle leggi e degli atti organizzativi di cui all’articolo 2, comma 1, le determinazioni per l’organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro sono assunte dagli organi preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro». Analoghe considerazioni possono essere svolte sull’aziendalizzazione dell’organizzazione dell’assistenza, almeno per quanto attiene alla riorganizzazione in forma di Aziende pubbliche di servizi alla persona ai sensi del D. lgs. 207 del 2001.
d) Privatizzazione come criterio conformativo dell’attività di organismi pubblici nella relazione con l’utenza. Si può richiamare il problema del ‘consenso informato’ in area sanitaria in qualche modo regolato dal codice di deontologia medica del 1998 e, per i profili relativi ai trapianti d’organo, dalla legge 91 del 1999. Si può pure pensare ai problemi di regolazione consensuale della funzione educativa tra scuola e famiglia ai sensi dell’art. 5 bis del d.P.R. n. 249 del 1998 (d.P.R. 21 novembre 2007 n. 235).
e) Privatizzazione come criterio di chiusura del sistema e limite nella definizione del regime di responsabilità di qualunque amministrazione pubblica.
Accanto alle trasformazioni del regime giuridico dei soggetti e delle attività di prestazione di servizi della pubblica amministrazione, non si può fare a meno di segnalare l’importante evoluzione in senso ‘consensuale’ di altri significativi aspetti dell’esercizio della funzione pubblica.
Il processo di allargamento delle forme di partecipazione all’esercizio della funzione pubblica, avviato all’inizio degli anni settanta come risposta alla crescente domanda di democratizzazione, può essere considerato un significativo esempio di sostituzione del modello di rappresentanza amministrativa con il criterio di consensualità rappresentativa.
Ai sistemi di rappresentazione degli interessi coinvolti dal procedimento amministrativo, fondati su tecniche pubblicistiche di rappresentanza necessaria e formalizzata (partecipazione a consigli, comitati, commissioni sulla base di procedimenti elettorali formalizzati diretti o indiretti), si sostituiscono, con sempre maggiore rilevanza, sistemi di concertazione, fondati su tecniche di valutazione della rilevanza degli interessi espressi da organismi privati rappresentativi (associazioni, sindacati, movimenti Delibera CIPE 21 marzo 1997, Delibera CIPE n.71 del 14 maggio 1999, Delibera CIPE 166 dicembre 2007).
Il processo in corso non deve essere sottovalutato. Esso tende a svilupparsi estendendosi dalle procedure di decisione su singoli atti della Pubblica amministrazione, anche alle procedure di formazione di atti normativi di portata sempre più rilevante.
Il processo di privatizzazione della pubblica amministrazione, infine, esige lo sviluppo di nuovi parametri e di nuovi concetti per la misurazione dei risultati dell’attività e della loro rispondenza alle finalità istituzionali.
Da una parte, infatti, è venuto meno il criterio di responsabilizzazione formale e gerarchica come tecnica di valutazione e imputazione delle responsabilità.
Dall’altra, i criteri tradizionali non possono essere semplicisticamente sostituiti da criteri economicistici e, specificatamente, mercantili e monetari.
La complessità delle interconnessioni fra tutela di valori non sottoponibili a valutazione mercantile e tecniche di perseguimento dell’efficienza amministrativa impone la costruzione, spesso particolarmente difficile, di strumenti di valutazione che rendano espliciti il percorso, le scelte, le decisioni, i risultati, in relazione alle condizioni di partenza e ai condizionamenti intermedi.
La proliferazione di organismi e tecniche di valutazione nell’ambito della pubblica amministrazione è, probabilmente, un tentativo di risposta, ancora non sufficientemente definito nei presupposti e nei canoni metodologici e non consolidato nelle abilità operative.
La proposta di lavoro con la quale concludiamo le presenti brevi considerazioni è dunque quella di interrogarci ancora sulla complessità del processo di privatizzazione, a partire dalla portata delle innovazioni introdotte dalla legge n. 15 del 2005, e di chiedierci se siamo già pervenuti alla conclusione di un processo di trasformazione culturale che restituisce gli apparati di mediazione alla loro funzione sociale originaria, fuori dall’area dell’autorità.
L’affermazione del principio di prevalenza del ‘diritto civile’ nell’attività amministrativa che non esige manifestazioni imperative è qualcosa di più e di diverso della ‘privatizzazione mercantile’.
Si potrebbe intravedere, piuttosto, l’avvento progressivo di un sistema di riorganizzazione su base paritaria del rapporto fra la società e le sue istituzioni. Probabilmente, si può ritenere che il livello di maturazione democratica generale, la diffusa cultura del bene pubblico, l’acquisizione come patrimonio civile del senso di cittadinanza, se si vuole – con una formula di moda – di un’etica pubblica, sembrano indurre l’affermazione di nuovi modelli non più fondati sul principio di autorità, bensì più direttamente sul consenso, e quindi sull’argomentazione. In sostituzione del principio di delega della società all’amministrazione pubblica, nonostante l’ampio ricorso a forme di partecipazione democratico-elettorale degli ultimi decenni, si registra una sempre maggior diffusione di modelli di partecipazione ‘convenzionale’, fondati sul principio di parità e sulla istituzionalizzazione ‘civilistica’ delle strutture di servizio.
Giuseppe Vecchio
Ordinario di Diritto privato nell’Università di Catania.
*Testo provvisorio dell’intervento al Convegno: "La cultura amministrativa nell’area del Mediterraneo"
SSPA di Acireale 26 maggio 2009.
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