Il professionista inserito in servizi e turni organizzati dai dirigenti è un dipendente e non un collaboratore

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Se la prestazione dipende direttamente dall’interesse del datore, allora è subordinato il lavoratore intellettuale. È un vero e proprio dipendente e non un mero collaboratore il professionista che esegue la sua prestazione nell’ambito di un servizio e secondo orari prestabiliti dai dirigenti dell’azienda, svolgendo le stesse mansioni dei colleghi strutturati a tempo indeterminato. Per fissare la natura del rapporto dei lavoratori intellettuali, è importante il livello di etero-organizzazione della prestazione: è necessario accertare se l’attività risulta soltanto coordinata con l’attività dell’impresa o dipende direttamente dall’interesse del datore. È quanto emerge dall’ordinanza 23520/19, pubblicata il 20 settembre dalla sezione lavoro della Cassazione.

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Caso

Il caso in esame non presenta alcun tratto di novità rispetto alla giurisprudenza formatasi sulle questioni di diritto coinvolte dal giudizio.

La Corte di appello di Roma, con sentenza n. 10348/2014, aveva confermato la decisione del locale Tribunale che, accogliendo la domanda proposta dalla Dott.ssa X nei confronti dell’Istituto Figlie di Nostra Signora del Monte Calvario – Ospedale “Cristo Re”, aveva riconosciuto la natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso tra le parti, formalmente regolato da una serie di contratti di collaborazione autonoma, per lo svolgimento di attività di medico ospedaliero.

La Corte di appello aveva posto, a fondamento del decisum, circostanze secondo cui la Dott.ssa X era inserita nel turno unico diurno/notturno, in cui erano inseriti sia i medici con regolare contratto di lavoro subordinato, sia quelli regolati da contratto libero-professionale, organizzato dal primario sulla base della disponibilità di massima dei medici non strutturati; inoltre la Dott.ssa X era comandata, come gli altri medici, anche in reparti diversi da quello della Medicina Interna, relativo alla sua specializzazione, per sostituzioni improvvise; ed infine le prestazioni rese dalla Dott.ssa X erano le stesse dei medici strutturati, ma questi ultimi avevano l’obbligo di pronta reperibilità; la Dott.ssa X non aveva il badge, ma firmava il foglio di presenza.

Pertanto, secondo la Corte di Appello di Roma, le differenze tra la posizione assunta dalla Dott.ssa X e quella degli altri medici strutturati nell’organizzazione dell’Istituto erano essenzialmente riferibili ad aspetti formali, amministrativi o marginali (come il badge e la pronta disponibilità), visto che il potere conformativo della prestazione lavorativa era esercitato dal datore di lavoro con modalità indifferenziata nei confronti di tutti i medici inseriti, a diverso titolo, nell’organizzazione della struttura.

Inoltre, circa la questione prospettata in via subordinata dall’Istituto appellante, secondo cui è applicabile la riqualificazione dei rapporti come singoli contratti a termine, la Corte territoriale ha osservato che, seppure il D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 10, comma 4, consente la stipulazione dei contratti a termine con i dirigenti per una durata non superiore a cinque anni, ciò richiede la stipulazione di un regolare contratto di lavoro subordinato e l’attribuzione della qualifica di dirigente, mentre nel caso in esame il contratto libero-professionale stipulato tra le parti non rispondeva a tali requisiti formali e di contenuto.

Per la Cassazione della sentenza emessa dalla Corte di Appello di Roma, l’istituto ha proposto ricorso affidato a due motivi.

Il decisum della cassazione

Motivi addotti dall’istituto appellante

Con il primo motivo l’istituto denuncia vizio di motivazione consistente nell’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, nonché la violazione degli artt. 2697, 2094 e 2222 cod. civ. per avere la Corte di Appello del tutto omesso di esaminare alcuni elementi fondamentali emersi nel corso dell’istruttoria espletata in primo grado e precisamente la mancanza di un inserimento stabile del medico nell’organizzazione aziendale e di un controllo gerarchico e direttivo da parte dell’ospedale nell’espletamento delle mansioni svolte dal medico, e la mancanza di un obbligo di osservanza di un predeterminato orario di lavoro. Con il secondo motivo l’istituto, con riferimento alla tesi dei rapporti come singoli contratti a termine, ha eccepito l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio e la violazione dell’art. 10, comma 4, d. lgs. n. 368 del 2001 per non aver la sentenza debitamente considerato che il rapporto ebbe una durata infra quinquennale e che le mansioni avevano natura dirigenziale, alla luce dell’art. 15 d.lgs. 502 del 1992.

Motivi di rigetto da parte della cassazione

La Suprema Corte si è soffermata maggiormente sul primo motivo, avendo ritenuto inammissibile, prima ancora che infondato, il secondo motivo per difetto di specificità rispetto alla sentenza impugnata.

Secondo la Cassazione, proprio gli indici che si assumono trascurati sono stati vagliati dalla Corte di appello. Difatti, statuisce l’Ordinanza, “la sentenza ha evidenziato come l’inserimento stabile nell’organizzazione dell’Ospedale fosse desumibile innanzitutto dall’inserimento nei turni diurni/notturni al pari dei medici strutturati, senza alcuna differenza tra le due categorie di medici: il turno era predisposto dal primario sulla base di una previa indicazione di disponibilità; la D. veniva comandata a provvedere a sostituzioni improvvise e ciò anche in reparti diversi dalla sua specializzazione (Medicina Interna). Gli elementi di differenziazione erano dunque solo formali ed amministrativi e non interessavano la natura, nè le modalità della prestazione lavorativa, in tutto assimilabile a quella svolta dai medici assunti con contratto di lavoro subordinato”.

Ne consegue, sostiene la Corte di Cassazione, “tale valutazione non incorre in alcun vizio di sussunzione nella fattispecie legale di cui all’art. 2094 c.c., atteso che, ai fini della distinzione tra lavoro autonomo e subordinato, quando l’elemento dell’assoggettamento del lavoratore alle direttive altrui non sia agevolmente apprezzabile a causa della peculiarità delle mansioni e del relativo atteggiarsi del rapporto, occorre fare riferimento a criteri complementari e sussidiari. In particolare, in caso di prestazioni che, per la loro natura intellettuale, mal si adattano ad essere eseguite sotto la direzione continua del datore di lavoro, ai fini della qualificazione del rapporto come subordinato o autonomo, cioè l’assoggettamento del lavoratore al potere organizzativo del datore di lavoro, deve essere verificata mediante il ricorso ad elementi sussidiari, che il giudice di merito deve individuare attribuendo prevalenza ai dati fattuali emergenti dal concreto svolgimento del rapporto (Cass. n. 14573 del 2012; Cass. 19568 del 2013; Cass. n. 10043 del 2004)

Commento

Con particolare riferimento a coloro che esercitano la professione medica, la giurisprudenza di legittimità, proprio in casi in cui non era agevole fare riferimento agli ordinari parametri della sottoposizione al potere direttivo e disciplinare del datore, ha ritenuto correttamente motivate le pronunzie di merito che hanno riconosciuto la natura subordinata del rapporto dei medici svolto in cliniche private sulla base di indici, quali il loro inserimento in turni lavorativi predisposti dalla clinica, la sottoposizione a direttive circa lo svolgimento dell’attività, pur tenuto conto che la sussistenza o meno della subordinazione deve essere verificata in relazione alla intensità della etero-organizzazione della prestazione, al fine di stabilire se l’organizzazione sia limitata al coordinamento dell’attività del medico con quella dell’impresa, oppure ecceda le esigenze di coordinamento per dipendere direttamente e continuativamente dall’interesse dell’impresa.

Si ritiene che la posizione del medico X, accertata in coerenza con i parametri indicati dalla richiamata giurisprudenza, dia luogo ad una figura professionale caratterizzata dall’esercizio di attività proprie della professione medica, ma giuridicamente articolata secondo la figura della subordinazione prevista dall’art.2094 cod. civ.

L’interpretazione della Suprema Corte, riguardo ai contratti stipulati tra le parti, ha escluso che gli stessi, formalmente di collaborazione professionale, rispondessero ai requisiti di forma e di contenuto per potere essere riqualificati nel senso preteso da parte appellante, poiché un contratto di collaborazione libero-professionale non può che essere intrinsecamente diverso da un contratto stipulato per un rapporto di natura subordinata, ancorché a termine.

Sulla subordinazione la giurisprudenza si sofferma su alcuni aspetti, secondo cui, per la qualificazione del contratto di lavoro come autonomo o subordinato occorre accertare se ricorra o no il requisito tipico della subordinazione, intesa come prestazione dell’attività lavorativa alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore e perciò con la soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, mentre gli altri caratteri dell’attività lavorativa, come la continuità, l’assenza di rischio, l’osservanza di un orario, la rispondenza dei suoi contenuti ai fini propri dell’impresa e le modalità di erogazione della retribuzione non assumono rilievo determinante, essendo compatibili sia con il rapporto di lavoro subordinato, sia con quelli di lavoro autonomo parasubordinato ( Cass. n. 5645/2009; Cass. n. 21028/2006; Cass. n. 20669/2004).

Mentre, riguardo ai caratteri che debbono presentare le direttive impartite dall’imprenditore affinché possano essere considerate come espressione di subordinazione, la giurisprudenza ha più volte statuito che esse non rilevano al riguardo se non siano assolutamente pregnanti ed assidue, traducendosi in un’attività di direzione costante e cogente atta a privare il lavoratore di qualsiasi autonomia, perché l’organizzazione del lavoro attraverso disposizioni o direttive costituisce una modalità di coordinamento e di eterodirezione propria di qualsiasi organizzazione aziendale e si configura quale semplice potere di sovraordinazione e di coordinamento, di per sé compatibile con altri tipi di rapporto, e non già quale potere direttivo e disciplinare, dovendosi ritenere che quest’ultimo debba manifestarsi con ordini specifici, reiterati ed intrinsecamente inerenti alla prestazione lavorativa e non in mere direttive di carattere generale, mentre, a sua volta, la potestà organizzativa deve concretizzarsi in un effettivo inserimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale e non in un mero coordinamento della sua attività (Cass. n. 2728/2010; Cass. n. 26986/2009; Cass. n. 20002/2004).

Sul punto si è espressa anche la Corte Costituzionale secondo cui «il potere direttivo, pur nelle multiformi manifestazioni che presenta in concreto a seconda del contesto in cui si esplica e delle diverse professionalità coinvolte, si sostanzia nell’emanazione di ordini specifici, inerenti alla particolare attività svolta e diversi dalle direttive d’indole generale, in una direzione assidua e cogente, in una vigilanza e in un controllo costanti, in un’ingerenza, idonea a svilire l’autonomia del lavoratore». (Corte Cost. n. 76/2015)

Peraltro, non va sottaciuto, nella giurisprudenza di legittimità sono anche individuabili due filoni di decisioni espressioni di impostazioni ampiamente divergenti rispetto all’apparente rigidità dell’orientamento di cui si è dato conto finora e incentrato sulla necessità della prova della soggezione del prestatore ad ordini specifici e ad un costante e penetrante controllo da parte del datore di lavoro.

In primo luogo si fa riferimento alle pronunce che ammettono casi di subordinazione c.d. attenuata, espressione utilizzata per descrivere fattispecie nelle quali il vincolo della subordinazione si presenta in maniera maggiormente sfumata e ciò o a causa della particolare creatività caratterizzante la prestazione lavorativa (come nel caso del lavoro giornalistico: Cass. n. 22785/2013; Cass. n. 6727/2001) ovvero per la natura intellettuale di questa (come nel caso dell’operatore grafico esaminato da Cass. n. 5886/2012) o ancora per gli ampi margini di autonomia di cui gode il lavoratore (come nel caso del dirigente: Cass. n. 18414/2013; Cass. n. 7517/2012). In simili casi si è ritenuto sufficiente l’inserimento continuativo ed organico delle prestazioni nell’organizzazione d’impresa (Cass. n. 22785/2013) ovvero la soggezione ad indicazioni generali di carattere programmatico (Cass. n. 7517/2012).

In secondo luogo, in molte sentenze, la giurisprudenza di legittimità è pervenuta al riconoscimento della sussistenza della subordinazione esclusivamente sulla base di indici diversi dalla soggezione alle direttive dell’imprenditore. Così, è comune l’affermazione secondo cui, ove l’assoggettamento del lavoratore alle direttive altrui non sia agevolmente apprezzabile a causa della peculiarità delle mansioni, occorre fare riferimento a criteri complementari e sussidiari — come quelli della collaborazione, della continuità delle prestazioni, dell’osservanza di un orario predeterminato, del versamento a cadenze fisse di una retribuzione prestabilita, del coordinamento dell’attività lavorativa all’assetto organizzativo dato dal datore di lavoro, dell’assenza in capo al lavoratore di una sia pur minima struttura imprenditoriale — che, privi ciascuno di valore decisivo, possono essere valutati globalmente come indizi probatori della subordinazione (Cass. n. 9252/2010; Cass. n. 9256/2009; Cass. n. 4500/2007; Cass. n. 13858/2009, secondo cui, nei casi di difficile qualificazione a causa della natura intellettuale dell’attività svolta la sussistenza dell’essenziale criterio distintivo della subordinazione, intesa come assoggettamento del lavoratore al potere organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, deve necessariamente essere verificata sulla base di elementi sussidiari; nello stesso senso Cass. n. 11207/2009, rispetto ai casi in cui l’assoggettamento alle direttive altrui non sia agevolmente apprezzabile a causa della peculiare struttura organizzativa del datore di lavoro e del relativo atteggiarsi del rapporto, prestato, nella specie, a favore di gruppi parlamentari). È questo il caso di cui all’Ordinanza in commento della Cassazione.

In materia, deve ricordarsi come la Corte costituzionale abbia affermato che, se spetta al legislatore stabilire la qualificazione giuridica dei rapporti di lavoro, allo stesso non è però consentito negare la qualifica di rapporti di lavoro subordinato a rapporti che oggettivamente abbiano tale natura, ove da ciò derivi l’inapplicabilità delle norme inderogabili previste dall’ordinamento per dare attuazione ai principi, alle garanzie e ai diritti dettati dalla Costituzione a tutela del lavoro subordinato (Corte Cost., n. 121/1993) ed ha aggiunto (Corte Cost. n. 115/1994) che, a maggior ragione, è da escludere che il legislatore possa autorizzare le parti ad impedire, direttamente o indirettamente, con la loro dichiarazione contrattuale, l’applicabilità di tali norme e garanzie ai suddetti rapporti, poiché i principi, le garanzie e i diritti stabiliti dalla Costituzione in questa materia sono e debbono essere sottratti alla disponibilità delle parti e pertanto, allorquando il contenuto concreto del rapporto e le sue effettive modalità di svolgimento — eventualmente anche in contrasto con le pattuizioni stipulate e con il nomen iuris enunciato — siano quelli propri del rapporto di lavoro subordinato, solo quest’ultima può essere la qualificazione da dare al rapporto, agli effetti della disciplina ad esso applicabile (c.d. indisponibilità del tipo contrattuale).

Nel ricorso per cassazione in questione, come abbiamo visto l’istituto appellante ha eccepito la violazione degli artt. 2697, 2094 e 2222 cod. civ. per avere la Corte di Appello del tutto omesso di esaminare alcuni elementi fondamentali emersi nel corso dell’istruttoria espletata in primo grado.

Sul punto ebbene ricordare come la dottrina ha collocato la fattispecie della parasubordinazione tra il lavoro subordinato di cui all’art. 2094 e quello autonomo di cui all’art. 2222, comprendente forme di prestazione dell’attività lavorativa le cui modalità di svolgimento sono tali da porre chi le svolge in condizioni di debolezza o soggezione economica nei confronti del committente analoghe a quelle in cui versano i lavoratori subordinati.

La fattispecie ha trovato un preciso riconoscimento normativo con la riforma della disciplina del processo del lavoro del 1973 che, modificando l’art. 409 c.p.c., ha esteso le disposizioni sul processo del lavoro ai rapporti di agenzia e di rappresentanza commerciale e a tutti gli «altri rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione d’opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato».

La prestazione di lavoro parasubordinato è stata così qualificata unicamente dalla sussistenza dei tre requisiti previsti dalla menzionata norma del codice di rito, vale a dire la continuità, la coordinazione e la natura prevalentemente personale dell’opera. La dottrina ha invece svalutato l’aspetto della disparità di forza contrattuale, data la sua matrice strettamente metagiuridica e sociologica. Il carattere della continuità, pur non richiedendo necessariamente una molteplicità ininterrotta di incarichi, presuppone tuttavia una collaborazione protratta nel tempo, eventualmente anche attraverso un unico contratto di durata apprezzabile, dovendo essere esclusa nel caso di un contratto d’opera avente ad oggetto una prestazione ad esecuzione istantanea ed occasionale (v. Cass. n. 7288/1998). Né è necessario che la continuità delle prestazioni sia stata convenzionalmente stabilita, ben potendo essa essere accertata a posteriori, in base alla reiterazione di fatto delle prestazioni (Cass. n. 23897/2004).

La coordinazione si identifica nel collegamento funzionale dell’attività del prestatore d’opera con quella economica del committente, derivante da un protratto inserimento nell’organizzazione aziendale o, più in generale, nelle finalità perseguite dal committente e caratterizzata dall’ingerenza di quest’ultimo nell’attività del prestatore (Cass. n. 5698/2002; Cass. n. 14722/1999).

Il requisito della natura prevalentemente personale dell’opera consiste, non nell’infungibilità soggettiva della prestazione, bensì nella prevalenza dell’attività del prestatore sugli altri fattori impiegati per l’esecuzione dell’obbligazione (Cass. n. 6351/2006; Cass. n. 5698/2002; Cass. n. 3485/2001).

La disciplina sostanziale del lavoro parasubordinato è praticamente identica a quella del lavoro autonomo (in giurisprudenza, per l’inapplicabilità della normativa propria del lavoro subordinato, v. Cass. n. 1245/1989 — con riferimento ai principi di sufficienza e proporzionalità retributiva di cui all’art. 36; Cass. n. 3089/1996 — rispetto all’art. 2103 —), differenziandosene solamente per quel che concerne il regime applicabile in caso di ritardato o mancato pagamento dei crediti pecuniari del prestatore (che è quello dettato dall’art. 429, comma 3, c.p.c.) e quello delle rinunce e transazioni (per l’applicazione dell’art. 2113 anche ai rapporti in oggetto, in giurisprudenza, Cass. n. 9636/2003; Cass. n. 7111/1995; Cass. n. 1359/1993)

Determinando quindi minori oneri per il committente, il lavoro parasubordinato è stato spesso utilizzato in modo fraudolento. Al fine di reprimere questo fenomeno, con il d.lgs. n. 276/2003 il legislatore aveva stabilito che i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa prevalentemente personale e senza vincolo di subordinazione, di cui all’articolo 409, n. 3), c.p.c., avrebbero dovuto essere riconducibili a uno o più progetti specifici determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore (art. 61), con conseguente divieto di tali forme di collaborazione in difetto di progetto (salve le ipotesi espressamente fatte salve dallo stesso art. 61) e conseguente conversione in contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato (art. 69).

L’art. 52 d.lgs. n. 81/2015, ha abrogato gli articoli da 61 a 69-bis d.lgs. n. 276/2003, disponendo che essi continuano ad applicarsi esclusivamente per la regolazione dei contratti già in atto alla data di entrata in vigore dello stesso decreto.

A norma dell’art. 2 d.lgs. n. 81/2015, a far data dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche «ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro». Restano estranee all’ambito di operatività di tale previsione solamente alcune fattispecie tassativamente elencate nello stesso art. 2 (collaborazioni per le quali gli accordi collettivi nazionali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale prevedono discipline specifiche riguardanti il trattamento economico e normativo, in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative del relativo settore; collaborazioni prestate nell’esercizio di professioni intellettuali per le quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi professionali; attività prestate nell’esercizio della loro funzione dai componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società e dai partecipanti a collegi e commissioni; collaborazioni rese a fini istituzionali in favore delle associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate alle federazioni sportive nazionali, alle discipline sportive associate e agli enti di promozione sportiva riconosciuti dal C.O.N.I.).

La norma ha dato luogo a divergenti posizioni della dottrina. Secondo un primo indirizzo, il legislatore ha creato una nuova fattispecie di lavoro, intermedia fra lavoro subordinato e non subordinato (sia pure continuativo e coordinato), riconducendo ad essa la disciplina tipica del lavoro subordinato. Si tratterebbe, in sostanza, di prestazioni lavorative etero organizzate, ma non etero dirette. Ad avviso di altri Autori, invece, il legislatore, collocandosi sul piano della fattispecie del lavoro subordinato, ha integrato o aggiornato il contenuto dell’art. 2094 (con l’obiettivo dell’estensione dell’ambito della tutela tipica), prevedendo espressamente che sussiste la subordinazione anche quando siano riscontrabili indici di connotazione che hanno una consistenza equivalente a quelli tipi del lavoro subordinato).

Un’ulteriore impostazione, muovendo dalla constatazione che, nel diritto vivente la riconduzione dei rapporti concreti di lavoro alla fattispecie dell’articolo 2094 è sempre stata operata sulla base di un giudizio di maggiore o minore approssimazione rispetto ad una figura di lavoratore subordinato ricostruita tramite una serie di indici, tra cui anche la eterodeterminazione del tempo e del luogo di lavoro, suscettibili di esprimere, nella loro combinazione, la soggezione del lavoratore al potere di organizzazione del datore di lavoro, perviene alla conclusione secondo la quale l’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81/2015 sarebbe privo di efficacia propriamente normativa, risolvendosi al più in un intervento di sostegno, a latere dell’art. 2094, dell’approccio pragmatico della giurisprudenza improntato alla prudente valutazione della ricorrenza nel caso concreto degli indici della soggezione del lavoratore ad un pieno potere organizzativo del datore di lavoro.

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Avv. Francesco Rutigliano

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