Il provvedimento amministrativo intervenuto dopo la scadenza dei termini di conclusione del procedimento amministrativo (quando non opera il silenzio – assenso e il silenzio – rigetto)

Silvis Claudio 27/07/12

1. Il problema dell’interesse protetto. 2. L’interesse protetto per come emerge dall’analisi della legge 241/1990. 3. La situazione giuridica soggettiva del privato inciso dal provvedimento tardivo. 4. La questione della invalidità-annullabilità del provvedimento intervenuto “fuori tempo massimo”. 6. Il recente orientamento che propugna l’annullabilità “a senso unico” dei provvedimenti tardivamente emessi solo quando abbiano contenuto restrittivo della sfera giuridica del destinatario. 7. …E, in tutto questo, cos’è il “danno da ritardo”

 

1. Il problema dell’interesse protetto.

L’art. 2 della legge 7 agosto 1990 n. 241 impone alle pubbliche amministrazioni di concludere i procedimenti amministrativi di loro competenza con un provvedimento espresso, che deve intervenire (per le Amministrazioni dello stato o per gli enti pubblici nazionali) entro trenta giorni dalla data di inizio del procedimento ovvero nel diverso termine stabilito con legge o con regolamento adottato con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri.

Quando parla di “provvedimento espresso”, la norma non si riferisce al solo atto alla cui adozione è preordinato questo o quel procedimento amministrativo (c.d. provvedimento positivo), ma anche alla decisione della Pubblica Amministrazione di non adottare quell’atto (c.d. provvedimento negativo), in quanto, ad esempio, l’istruttoria procedimentale ha fatto emergere l’insussistenza delle condizioni necessarie alla sua adozione. Al sostantivo “provvedimento”, quindi, è dato il significato ampio di determinazione con cui la P.A. emette o dichiara di non emettere l’atto per la cui verifica di adottabilità il procedimento si è svolto.

Da ciò che generalmente si asserisce e si scrive sull’argomento, ma anche dal concreto “modus operandi” degli uffici amministrativi, si desume l’esistenza di un convincimento generale secondo cui il dovere della P.A. di rispettare i termini di conclusione del procedimento è costruito in funzione del soggetto nella cui sfera giuridica dovranno prodursi gli effetti del provvedimento (nel predetto senso ampio) con cui dovrà chiedersi il procedimento. Non si nega che vengano in rilievo interessi pubblici in collegamento a quel dovere, ma si attribuisce loro una posizione complementare quali oggetto della tutela garantita dalla citata norma.

Secondo tale opinione, che pare confortata e alimentata da ricorrenti affermazioni della giurisprudenza amministrativa sulla natura e la finalità dei termini in questione, il destinatario del provvedimento vanta un interesse protetto in modo specifico a che la P.A. decida entro un tempo predeterminato di emettere o non emettere l’atto per la cui adozione è stato incardinato il procedimento. Diversamente detto, l’art. 2 della legge 241/1990 considererebbe unicamente o, comunque, principalmente la situazione di chi attende una modifica favorevole della propria sfera giuridica soggettiva dalla P.A., riconoscendo e proteggendo la sua esigenza di conseguire rapidamente la produzione di quegli effetti o di conoscere altrettanto rapidamente le ragioni per cui la P.A. nega la modifica stessa. Analogamente, anche la situazione di chi può essere pregiudicato da un provvedimento restrittivo della propria sfera giuridica sarebbe oggetto della medesima volontà protettrice dell’art. 2 e questo in considerazione del suo interesse a non rimanere a tempo indeterminato sotto la «spada di Damocle» del minacciato intervento gravatorio della P.A.

Al gius-amminitrativista di qualche anno fa un simile inquadramento del termine per provvedere come strumento mirato a garantire l’interesse di quanti entrano in rapporto qualificato con la P.A. farebbe sorgere più d’un legittimo sospetto .

In primo luogo, reputare i termini di conclusione del procedimento come intenzionalmente preordinati a salvaguardare il destinatario del futuro provvedimento amministrativo equivale a ritenere che il vincolo della P.A. di osservare i termini stessi è asservito ad un vero e proprio diritto di tale soggetto nei riguardi della P.A. Quando il dovere imposto ad un soggetto è costruito in funzione dell’interesse di altro soggetto, inevitabilmente quest’ultimo vanta una posizione di diritto soggettivo al rispetto di quel dovere. Il genoma del diritto soggettivo è un dato strutturale, ossia immutabile: la norma che protegge interessi di cui siano portatrici entità soggettivizzate individuali o collettive crea sempre e solo diritti soggettivi in capo a tali entità, indipendentemente dal fatto che quei diritti e i corrispondenti doveri od obblighi ineriscano a rapporti privatistici o pubblicistici fra i rispettivi titolari.

Configurandosi un diritto soggettivo al rispetto dell’obbligo di osservare i termini per provvedere, si hanno le seguenti implicazioni: la facoltà dei titolari del diritto stesso di affrancare la P.A. dal vincolo di rispettare i termini in questione e l’inesistenza di quel dovere in capo alla P.A. tutte le volte che, in concreto, il futuro destinatario del provvedimento non tragga alcun vantaggio dal rispetto dei termini per provvedere.

L’eventualità che il destinatario del provvedimento non sia portatore di un interesse alla tempestiva definizione del procedimento amministrativo, ma addirittura di un interesse di segno opposto, costituisce un caso tutt’altro che scolastico. Si pensi al privato che, avendo chiesto l’emanazione di un provvedimento ampliativo della propria sfera giuridica, ha interesse a ritardare il momento della conclusione del procedimento giacché non si sono ancora realizzate certe condizioni necessarie per l’adozione del provvedimento richiesto o perché non dispone ancora di certi documenti indispensabili a comprovare il possesso dei requisiti occorrenti per l’adottato l’atto ampliativo. Si faccia anche il caso del soggetto che, invece, è in predicato di subire una modificazione in senso restrittivo della propria sfera giuridica, il quale, quando il termine non è ancora decorso, non sia in grado di opporre alla P.A. una data situazione che impedirebbe l’emanazione del provvedimento restrittivo, la quale situazione si verificherà o potrà verificarsi solo dopo lo scadere del termine stesso.

Se l’art. 2 L.241/1990 intende proteggere l’interesse del destinatario del provvedimento alla certezza dei tempi di durata del procedimento, nei casi come quelli poc’anzi esemplificati la durata del procedimento amministrativo non è soggetta a termini, giacché il rispetto di questi non è vantaggioso ma pregiudizievole a coloro a protezione dei quali i termini stessi debbono essere rispettati dalla P.A.. Diversamente ritenendo, l’obbligo di osservanza dei termini non sarebbe specificamente ordinato a proteggere esigenze del destinatario del provvedimento, ma altre esigenze, che si sovrappongono a quelle di costui fino a sacrificare il suo possibile interesse al non rispetto degli stessi.

Vero è che l’ordinamento conosce i diritti indisponibili, categoria di diritti soggettivi che sono oggetto di un’ipertutela, giacché all’esigenza di protezione del bene della vita appartenente al singolo è agganciato anche un interesse pubblico talmente intenso che al titolare del bene non è consentito disporne validamente, dato che i suoi atti di disposizione sono sanzionati dalla legge con la nullità. Ma è altrettanto vero che la categoria dei diritti indisponibili assume rilevanza nell’habitat del diritto privato, o meglio, del diritto comune, dove il fenomeno della coesistenza sopra uno stesso bene giuridico di interessi che fanno capo al titolare del bene stesso e allo Stato-comunità non può che dare corpo alla sopra descritta protezione rinforzata onde garantire la tutela dell’interesse generale quando il singolo titolare del bene agisca contro il suo interesse alla preservazione del bene medesimo. Ma nei rapporti di diritto amministrativo, dove c’è un soggetto pubblico che deve agire per definizione sempre e solo nel pubblico interesse, non avrebbe senso parlare di un privato titolare verso il soggetto pubblico di un diritto che la P.A. dovrebbe tutelare anche contro la volontà e l’interesse del titolare stesso, dato che nel rapporto gius-amministrativo l’esistenza di un interesse pubblico a che la P.A. tenga un dato comportamento è fenomeno che, tipicamente, dà origine a quella situazione giuridica soggettiva, propria del diritto amministrativo, che è l’interesse legittimo.

In altri termini, se di protezione intenzionale di un dato interesse soggettivo si tratta con riferimento a quella che la legge 241/1990 vuole assicurare imponendo alla P.A. di provvedere entro termini predefiniti, tale protezione deve arrestarsi quando nel soggetto garantito manchi l’interesse a che la P.A. provveda nel rispetto dei termini e, a maggior ragione, quando quello stesso soggetto sia pregiudicato anziché avvantaggiato dall’osservanza di un tale obbligo da parte della P.A. Perché, se invece i termini debbono essere rispettati perfino in danno a tale soggetto, ciò significa che non è quel soggetto lo specifico destinatario della protezione e che quegli è tutelato solo indirettamente dalla norma, ossia se e nella misura in cui il suo interesse coincide con quello che fa capo al diverso soggetto che, invece, la norma vuol proteggere specificamente con l’imporre l’obbligo alla P.A.

Quindi, per comprendere se realmente la legge 241/1990 protegga in modo diretto il destinatario del provvedimento, è necessario verificare se, nel complessivo sistema da essa impiantato, si rinvengano elementi che autorizzino l’interprete a ritenere che la P.A. è esonerata dall’osservare i termini di conclusione del procedimento quando il destinatario del provvedimento finale non ne tragga alcuna utilità.

 

2. L’interesse protetto per come emerge dall’analisi della legge 241/1990.

Dalla disamina della legge 241/1990 sembra emergere che P.A. non è mai esonerata dall’obbligo di concludere i procedimenti nei termini prestabiliti.

La legge fondamentale sul procedimento amministrativo assoggetta ad un regime rigorosamente legale ogni possibile deroga all’obbligo della P.A. di rispettare i termini per provvedere.

Essa stabilisce, con portata tassativa, i casi in cui è ammesso il superamento dei termini, sottraendo totalmente al potere discrezionale della P.A. e ad ogni facoltà dispositiva dei privati coinvolti nel procedimento finanche la possibilità di incidere sulla durata dello “slittamento” in avanti del procedimento quando la legge stessa tale slittamento permette.

Le deroghe legali al dovere di concludere i procedimenti nei termini prefissati coincidono con i casi in cui la citata legge stabilisce che i termini restino sospesi per un certo tempo. Ciò può accadere (solo) quando la P.A. necessita di acquisire informazioni o certificazioni relative a fatti, stati o qualità non attestati in documenti già in suo possesso o non direttamente acquisibili presso altre pubbliche amministrazioni (art. 2, comma 7), quando la P.A. deve acquisire il parere facoltativo o obbligatorio di organi consultivi ovvero le valutazioni di organi tecnici (artt..16 e 17.) o, ancora, per dare modo al soggetto che ha chiesto l’emissione di un provvedimento ampliativo della propria sfera giuridica di persuadere la P.A. ad emettere il provvedimento dopo che questa gli abbia comunicato l’intenzione di non emetterlo (art.10-bis).

Eventuali esigenze di protrazione ultra termines del procedimento avvertite dai relativi partecipanti, quindi, possono trovare soddisfazione nei casi ed entro i limiti massimi di tempo in cui la legge dispone che i termini possano restare sospesi.

Dunque, nessuna incidenza sull’obbligo della P.A. di rispettare i termini di durata del procedimento ha il fatto che il destinatario del provvedimento abbia interesse al rispetto oppure al non rispetto dei termini stessi: la P.A. deve chiudere il procedimento entro il termine assegnatole (o nel maggior termine ammesso in presenza delle cause di sospensione tassativamente previste) e, tanto meno, si ha riscontro di una concessa possibilità della P.A. di ritenersi esentata, nell’interesse proprio o dei soggetti coinvolti nel procedimento, dal dovere di emettere il provvedimento di chiusura del procedimento entro i termini stabiliti.

Tutto ciò sembra attestare, in modo incontrovertibile, che l’obbligo della P.A. di concludere il procedimento nei tempi stabiliti non è asservito ad un corrispondente interesse dei soggetti partecipati dall’azione amministrativa: l’obbligo non viene mai meno, perfino quando i titolari del preteso diritto ad esso correlato siano latori di un interesse diametralmente opposto ad una definizione del procedimento nel rispetto dei tempi di durata massima.

Il dovere di concludere il procedimento nel termine prestabilito si atteggia alla stregua di un vincolo assoluto dell’azione amministrativa. Assoluto, giacché sottratto ad ogni discrezionalità del soggetto titolare della medesima azione amministrativa e alla disponibilità di quelli che in qualsiasi modo sono coinvolti da essa.

L’assolutezza del dovere di rispettare i termini considerati sembra testimoniare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che l’art. 2 L.241/1990 non presidia in modo diretto o privilegiato interessi individuali, ma un interesse generale, quello alla certezza dei tempi di svolgimento dell’attività amministrativa, il quale, trascendendo i contingibili e mutevoli interessi dei singoli individui che entrano di volta in volta in rapporto con la P.A., trova i propri diretti referenti costituzionali nei principi di imparzialità e di buon andamento dell’azione amministrativa, consacrati nell’art. 97 Cost..

 

3. La situazione giuridica soggettiva del privato inciso dal provvedimento tardivo.

Naturalmente, il fatto che la norma considerata protegga in modo specifico l’interesse generale e non quello particolare di questo o di quel soggetto non implica che il privato coinvolto dall’esercizio del potere amministrativo non riceva protezione giuridica in rapporto al mancato rispetto dei termini considerati da parte della P.A., ma che tale protezione, lungi dal sostanziarsi in qualcosa di assimilabile alla tutela di un diritto soggettivo, delinea la tipica figura dell’interesse legittimo, che, in quanto tale, è riconosciuto e protetto nella misura in cui chi se ne affermi titolare tragga un giovamento per così dire parallelo a quello che trae la collettività, nel suo indifferenziato insieme, dal fatto che la P.A. agisca secondo le regole dettate, per l’appunto, a specifica protezione della collettività medesima.

Il destinatario del futuro provvedimento, se interessato alla pronuncia del provvedimento entro il termine assegnato alla P.A. per emetterlo, vanta sicuramente un interesse legittimo, perché quel suo interesse egoistico coincide con l’interesse generale, specificamente protetto dall’art. 2 L.241/1990, a che la P.A. pronunci la decisione provvedimentale – positiva o negativa che sia – nei tempi concessi. Al contrario, ove quello stesso soggetto sia di fatto interessato a una maggior durata del procedimento, nessuna tutela giuridica è data ad una sua ipotetica aspettativa di prosecuzione del procedimento, visto che una simile aspettativa si contrappone all’interesse generale a che il procedimento si chiuda sempre nei termini stabiliti.

 

4. La questione della invalidità-annullabilità del provvedimento intervenuto “fuori tempo massimo”.

Dall’assolutezza dell’obbligo di osservare i termini di conclusione del procedimento, derivante dalla diretta e specifica correlazione dello stesso ad un interesse pubblico immanente, statico e immutabile, dovrebbe discendere una rilevantissima implicazione, il cui riconoscimento da parte della giurisprudenza amministrativa, però, incontra una coriacea e radicatissima resistenza.

Si tratta della possibilità di qualificare il provvedimento emesso tardivamente in termini di illegittimità–invalidità–annullabilità.

Il Consiglio di Stato è fermo nell’escludere l’illegittimità–invalidità del provvedimento emesso oltre il termine di conclusione del procedimento. Ciò, sull’assunto che i termini di conclusione del procedimento hanno natura ordinatoria e non perentoria, dal momento che nessuna norma sancisce la decadenza del potere della P.A. di emettere la determinazione conclusiva del procedimento dopo lo spirare dei termini per emetterla. Non decadendo il potere della P.A. di provvedere dopo lo scadere dei termini, il provvedimento tardivo promana da un potere esistente e non può considerarsi viziato solo perché intervenuto “ultra termines” (fra le varie, Cons. Stato, Sez. VI, n. 3215/2008; n.140/2009; n.2110/2009).

Questa giurisprudenza sembra non tenere conto di quello che è il postulato dell’intero sistema della Giustizia Amministrativa italiana e di ciò che lo stesso Consiglio di Stato professa da tempo pressoché immemorabile (in contrapposizione all’antitetico indirizzo seguito dalla Corte di cassazione), ossia che, qualora il potere di emettere quel determinato provvedimento è attribuito dalla legge a quella determinata Amministrazione, il fatto che quel potere sia esercitato da quella Amministrazione in difformità alle regole che ne disciplinano e delimitano le modalità di esplicazione non rende nullo-inesistente il provvedimento nel quale quel potere si è espresso. Seppure è innegabile che il potere di provvedere alla cura degli interessi pubblici è dato alla P.A. perché sia esercitato nel rispetto dei principi e dei precetti che debbono dirigerne l’estrinsecarsi nel pubblico e privato interesse, un suo esercizio difforme da quei principi e precetti non è esercizio di un potere di cui il soggetto pubblico non è o non è più titolare (c.d. carenza assoluta di potere), ma è impiego scorretto di un potere sempre esistente in capo alla P.A.. Il provvedimento rientrante nelle attribuzioni di quella data P.A. ma da questa assunto in carenza o in difformità delle condizioni stabilite dalla legge per la sua adozione è espressione di un potere di cui quella P.A. dispone, ma il cui risultato utile – l’atto provvedimentale – può essere reso vano dalla stessa P.A. o dal giudice amministrativo attraverso l’eliminazione dell’atto stesso dal mondo giuridico e la rimozione dei relativi effetti.

Del resto, che il provvedimento manifestazione di un potere scorrettamente esercitato non possa essere giudicato nullo-inesistente non è l’approdo di perspicue ma sempre opinabili fatiche interpretative di giudici e giuristi, ma l’assioma sul quale si regge la ripartizione fra giudice ordinario e amministrativo della giurisdizione sulle controversie in cui è parte la Pubblica Amministrazione. Secondo tale sistema ripartitorio, consacrato dalla Carta costituzionale e ribadito e puntualizzato dalla legge ordinaria, al giudice ordinario spetta conoscere delle controversie con la P.A. in cui si fa questione di diritti soggettivi, ossia delle liti inerenti a rapporti in cui la P.A. abbia agito senza esercitare alcun pubblico potere, mentre, al contrario, al giudice amministrativo spetta la cognizione delle controversie finalizzate all’annullamento degli atti emessi dalla P.A. nell’esercizio di un pubblico potere, ma viziati da incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge. Se fosse inesistente il potere di emettere il provvedimento per il solo fatto che questo è stato assunto in contrasto alla legge, non avrebbe motivo di esistere un giudice amministrativo e la relativa giurisdizione di annullamento degli atti amministrativi adottati in violazione di legge o nell’inosservanza delle particolari regole legali di ripartizione delle competenze fra organi amministrativi o, ancora, con “eccesso di potere”, vizio comunque riconducibile alla inosservanza di precetti che si ricavano dal sistema legislativo.

Se tanto è, il fatto che nessuna disposizione di legge sanzioni l’inosservanza dei termini per provvedere con una decadenza della P.A. dal potere di provvedere non dovrebbe autorizzare a concludere che il provvedimento adottato in ritardo è pregiudizialmente legittimo e valido.

La constatazione che il termine per provvedere ha natura soltanto ordinatoria implica che il provvedimento adottato dopo il suo scadere non è nullo-inesistente, come lo sarebbe se l’inosservanza del termine fosse sanzionata con la decadenza del potere di provvedere (la quale decadenza realizzerebbe una carenza di potere sopravvenuta, giacché l’attribuzione del potere di provvedere fatta alla P.A. in via generale dalla legge si considererebbe revocata dalla legge stessa una volta scaduto il termine per provvedere). Ma se è vero che la persistenza del potere dopo la scadenza del termine per provvedere esclude che il provvedimento emesso in ritardo sia nullo-inesistente, non è altrettanto vero che lo stesso provvedimento possa essere qualificato legittimo e valido. Ciò perché, come si è visto, l’illegittimità-invalidità dei provvedimenti amministrativi presuppone l’esistere del corrispondente potere di emanarli in capo alla P.A., sicché la perdurante esistenza del potere di provvedere oltre il termine di conclusione del procedimento, dovuta proprio al carattere ordinatorio e non perentorio di quel termine, è perfettamente compatibile con la possibilità di qualificare illegittimo e annullabile, per “violazione di legge”, il provvedimento emesso in violazione di un puntuale precetto di legge che ne imponeva l’adozione entro un tempo già trascorso.

 

5. L’azione contro il silenzio amministrativo come ostacolo alla possibilità di ritenere invalido e annullabile il provvedimento emesso in ritardo.

Se la constatazione della natura non perentoria dei termini per provvedere non è intrinsecamente idonea ad escludere l’invalidità-annullabilità del provvedimento intervenuto dopo la scadenza dei termini medesimi, il vero ostacolo alla possibilità di qualificare invalido-annullabile quel provvedimento è dato dalla possibilità, concessa a chi abbia interesse alla pronuncia del provvedimento, di ricorrere al giudice amministrativo perche ingiunga alla P.A. di emettere la determinazione provvedimentale qualora non sia stata ancora emessa nonostante lo spirare del termine per provvedere.

La possibilità data al privato di intraprendere quella iniziativa processuale, oggi prevista dall’art. 31 del Codice del Processo Amministrativo ma introdotta sin dall’anno 2000 in altro testo legislativo, è figlia delle pressanti spinte all’implementazione delle tutele dei cittadini verso le pubbliche amministrazioni provenienti da un diritto transnazionale, quello comunitario, che ignora l’interesse legittimo quale caposaldo strutturale del nostro sistema delle garanzie tutorie nei confronti dell’azione autoritativa della P.A.

Se è data azione al privato perché provochi una pronuncia tardiva del provvedimento, allora il potere di provvedere della P.A. non può considerarsi esercitato contra legem dopo lo scadere del termine per provvedere; anzi, l’azione contro il silenzio postula che la pronuncia della decisione conclusiva del procedimento è atto doveroso per la P.A., indipendentemente dalla circostanza che non sia intervenuta entro i termini in cui doveva intervenire secondo l’art. 2 della legge 241/1990.

L’azione contro il silenzio amministrativo dimostra che il bene protetto attraverso l’imposizione alla P.A. dell’obbligo di concludere il procedimento nel rispetto dei termini all’uopo previsti non è la certezza dei tempi di durata della azione amministrativa, ma la possibilità di provocare in modo coercitivo l’emanazione dell’atto al quale quell’azione è preordinata quando sia trascorso un certo lasso temporale senza che la P.A. abbia spontaneamente provveduto ad emanarlo.

Non c’è, dunque, un intento protettivo dell’interesse generale alla certezza dei tempi di svolgimento dell’azione amministrativa; tutt’al più, l’interesse generale si appunta sulla necessità che la P.A. adotti sempre una determinazione sull’esito dei procedimenti da essa avviati, interesse la cui tutela è comunque subordinata alla volontà del privato di attivarsi affinché, trascorso il termine per provvedere, la P.A. chiuda il singolo procedimento con una determinazione provvedimentale.

Se l’istanza dello Stato-comunità è che la P.A. porti a compimento i procedimenti amministrativi una volta incardinati, la posizione del privato che reagisce al silenzio amministrativo esperendo l’apposita azione è senza dubbio quella del titolare di un interesse legittimo, il quale, però, non mira in questo caso alla demolizione di un atto amministrativo, bensì alla sua edificazione. Tale edificazione, tuttavia, non deve avvenire necessariamente secondo il progetto di atto prefigurato dal privato che aggredisce il silenzio amministrativo, poiché la tutela concessagli contro l’inerzia della P.A. mira soltanto a fare assumere alla stessa P.A. una qualsivoglia determinazione conclusiva del procedimento e non quella che specificamente il promotore dell’azione auspica nel proprio interesse.

Si è voluto, in sostanza, innestare nel rapporto di diritto amministrativo fra il soggetto pubblico e quello privato coinvolto dall’azione autoritativa del primo un concetto tradizionalmente alieno a quel rapporto, quello – tipicamente civilistico – di “adempimento” di una prestazione che la P.A., similmente al debitore nel rapporto obbligatorio di diritto privato, è tenuta a rendere al privato, con la differenza fondamentale, però, che la P.A. ed il privato non sono debitore e creditore l’una verso l’altro, poiché l’obbligo di adempiere gravante sulla prima non è a specifica soddisfazione dell’interesse egoistico del secondo, ma del superiore interesse pubblico a che, in ossequio al principio costituzionale del buon andamento dell’azione amministrativa, ogni procedimento amministrativo sfoci sempre e comunque in una determinazione conclusiva.

Il termine per provvedere, quindi, ha natura dilatoria e non acceleratoria, poiché delimita il periodo temporale entro il quale non si può ancora pretendere dalla P.A. lo “adempimento” dell’obbligo di assumere la decisione conclusiva del procedimento.

Quali le conseguenze di questa operazione di innesto di un obbligo para-civilistico della P.A. nell’ambito di un rapporto giudico in cui questa agisce in posizione autoritativa?

La maggiore ricaduta si traduce nel fatto che, ove il provvedimento tardivamente emesso abbia effetti restrittivi della sfera giuridica del destinatario, costui non è legittimato a domandarne l’annullamento, né la stessa P.A. può annullarlo d’ufficio, non potendosi logicamente giudicare illegittimo-invalido-annullabile un “atto dovuto” dalla P.A.

Così, il soggetto pregiudicato dal provvedimento restrittivo intervenuto a termini scaduti non ha alcuna tutela contro la violazione di legge perpetrata dalla P.A. col non osservare il precetto, rivoltole dall’art. 2 L.241/1990, di adottare quel provvedimento entro precisi termini.

A quello stesso soggetto si riconosce, invece, la possibilità di reagire nell’ipotesi opposta, ossia quando nessuna decisione amministrativa sia intervenuta entro il termine nel quale doveva intervenire; grazie all’azione contro il silenzio amministrativo, il destinatario di un possibile provvedimento ad effetti pregiudizievoli può chiedere al giudice di costringere la P.A. a definire il procedimento che lo riguarda o con l’emettere il provvedimento gravatorio contro di lui oppure con una declaratorio di non luogo ad emettere il provvedimento stesso.

 

6. Il recente orientamento che propugna l’annullabilità “a senso unico” dei provvedimenti tardivamente emessi solo quando abbiano contenuto restrittivo della sfera giuridica del destinatario.

Le considerazioni e conclusioni che precedono dovrebbero rendere ragione della insostenibilità di quel nuovo indirizzo dottrinal-giurisprudenziale che vuole viziati ed annullabili i provvedimenti tardivi solo se a contenuto pregiudizievole per il destinatario.

La premessa (mai apertamente esplicitata) su cui poggia tale teoria non può che essere questa: l’art. 2 L.241/1990 protegge l’interesse generale al rispetto dei tempi di durata massima del procedimento solo quando il procedimento è preordinato all’emanazione di un provvedimento afflittivo, mentre non protegge più quell’interesse generale le volte che il procedimento è diretto all’adozione di un provvedimento ad effetti benefici per il suo destinatario. Nel primo caso, il destinatario del provvedimento pregiudizievole tardivamente emesso si avvantaggia del fatto che la norma protegge l’interesse pubblico alla certezza dei tempi dell’azione amministrativa, divenendo egli titolare di un interesse legittimo che gli consente di provocare l’annullamento dell’atto pregiudizievole. Nel secondo caso, poiché il soggetto beneficiato dal provvedimento tardivamente emesso riceve nocumento dal fatto che la norma tutela l’interesse pubblico (giacché questa tutela qualifica illegittimo-annullabile il provvedimento, esponendolo all’annullamento d’ufficio da parte della stessa P.A. o su iniziativa dell’eventuale controinteressato), la stessa norma cessa di proteggere l’interesse pubblico tutelando direttamente e specificamente la posizione del destinatario del provvedimento ampliativo alla conservazione di questo.

Sennonché, una simile posizione teorica è inaccettabile.

E’ certamente possibile che una norma di diritto amministrativo protegga assieme l’interesse pubblico e quello privato, ma non che protegga ora l’uno e ora l’altro allo scopo di assicurare sempre e solo tutela al privato coinvolto nell’azione autoritativa. Una simile volontà normativa è un inaudito “non sense”, poiché dovrebbe ammettersi l’esistenza di norme giuridiche animate dall’intento di proteggere fittiziamente l’interesse pubblico nei casi in cui tale protezione è indispensabile a tutelare l’interesse del privato e di fare scomparire dalla scena quello stesso interesse pubblico nei casi in cui, al contrario, la sua protezione è di nocumento alla protezione dell’interesse del privato.

Se un dato modo d’agire è imposto alla P.A. nel pubblico interesse, la norma che opera quell’imposizione garantisce il pubblico interesse sempre e non a seconda che l’interesse egoistico del soggetto privato coinvolto dall’azione autoritativa della P.A. sia in conflitto o in sintonia con esso.

Quindi, ammesso (e non concesso) che l’art. 2 L.241/1990 intenda proteggere l’interesse generale alla certezza dei tempi di svolgimento del procedimento amministrativo, sarebbero illegittimi-invalidi-annullabili tutti i provvedimenti intervenuti tardivamente e non solo quelli che producono un nocumento al privato. Ne segue che, se quanto è stato osservato nel precedente paragrafo ha un fondamento di verità, i provvedimenti tardivi ad incidenza sia negativa che positiva per il destinatario non possono qualificarsi illegittimi ed annullabili in mera ragione della loro tardività, giacchè l’interesse pubblico presidiato dall’art. 2 L.241/1990 non è quello alla certezza della durata dell’azione amministrativa, bensì quello alla definizione dei procedimenti con una determinazione espressa della P.A.

Concludendo e riepilogando:

  • i termini per provvedere rispondono ad un’esigenza generale non di tipo acceleratorio, ma dilatorio, nel senso che l’interesse pubblico si appunta sulla necessità che sia lasciato alla P.A. un lasso temporale prima del cui compiersi non è possibile pretendere che la P.A. concluda il procedimento con una determinazione espressa;

  • il privato destinatario di un provvedimento restrittivo della propria sfera giuridica non vanta un interesse legittimo all’annullamento della determinazione conclusiva del procedimento per il fatto che questa è intervenuta oltre il termine per provvedere, dal momento che tale aspettativa non può agganciarsi ad un interesse pubblico tutelato dalla legge a che la P.A. emetta i propri provvedimenti entro il termine per provvedere; per la stessa ragione, il privato destinatario di un provvedimento ampliativo della sfera giuridica non può vedersi annullare tale provvedimento in via di autotutela amministrativa o su ricorso del soggetto controinteressato al provvedimento stesso a motivo della sua intempestività;

  • il destinatario tanto del provvedimento restrittivo quanto di quello ampliativo è invece titolare di un interesse legittimo per così dire opposto a quello all’annullamento del provvedimento tardivamente intervenuto, essendo egli legittimato a reagire non ad un provvedimento tardivamente emesso, ma alla non adozione di un provvedimento dopo lo spirato del termine (dilatorio) per provvedere.

 

7. …E, in tutto questo, cos’è il “danno da ritardo”?

Da tutto quanto precede, discende che il c.d. danno da ritardo nell’emanazione del provvedimento conclusivo del procedimento non ha alcun collegamento con la lesione di un interesse legittimo al rispetto dei termini per provvedere, posto che, come si è cercato di dimostrare, un simile interesse legittimo (oppositivo all’avvenuta adozione del provvedimento tardivo) non si prospetta, prospettandosi, invece, il contrario interesse legittimo (pretensivo) a che la P.A. emetta il provvedimento conclusivo del procedimento nonostante lo scadere del termine per provvedere.

Il danno da ritardo, dunque, è risarcibile solo in quanto ne è espressamente contemplato il diritto al risarcimento dall’art. 2-bis della legge 241/1990.

La ristorabilità del pregiudizio sofferto dal soggetto interessato al provvedimento intervenuto solo dopo lo spirare dei termini per provvedere risponde ad una logica acceleratoria di tali termini che abbiano visto non essere quella (dilatoria) che scaturisce dalla interpretazione sistematico-teleologica della norma che impone alla P.A. di concludere i procedimenti entro i termini stessi.

Questo conduce ad affermare che il risarcimento del danno in questione trova la propria legittimazione sul piano dell’ammissibilità giuridica nel fatto che il Legislatore ha inteso attribuire un diritto ad hoc al soggetto leso dall’intempestiva assunzione del provvedimento.

Quel diritto è stato riconosciuto non solo per ragioni di equità sostanziale facilmente immaginabili, ma anche allo scopo “tecnico” di munire i suddetti termini, anche se per le vie traverse del riconoscimento di un potere privato di far “sanzionare” il ritardo, di un qualche carattere acceleratorio che, altrimenti, mancherebbe loro totalmente.

Proprio perché pretesa del privato protetta in modo pieno ed esclusivo (diritto soggettivo), molto opportunamente l’art. 2-bis sopra ricordato, nella sua originaria stesura, rimetteva alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo la cognizione delle questioni attinenti al risarcimento del danno da ritardo, disposizione poi soppressa dal D.Lgs. 104/2010 non si sa con quanta cognizione di causa.

Addì 25 luglio 2012

Silvis Claudio

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