Agli inizi del XX secolo, inizialmente in ambito neopositivistico, è stata posta la questione inerente al rapporto tra la verità delle proposizioni normative (d’ora innanzi: (PN)) e la loro significanza. In altri termini, i vari autori si sono chiesti se vi fosse una differenza teoricamente apprezzabile tra il valore di verità che una (PN) può assumere e il suo significato. La letteratura specialistica s’è chiesta nell’ordine: 1) quale fosse lo statuto logico del significato posto da ciascuna (PN); e, 2) quale fosse la natura razionale della funzione di verità svolta da ciascuna (PN). Ora, che una proposizione abbia un significato mi pare cosa abbastanza pacifica; assai meno pacifico è, invece, asserire che una (PN) abbia un valore di verità. Addirittura, è controversa la possibilità stessa di poter stabilire, per ciascuna (PN), un valore di verità. Il punto è che sebbene ciascuna (PN) abbia certamente un significato, non è affatto detto che possa assumere uno dei due valori di verità, rispettivamente il vero e il falso. Secondo Cremaschi, la novità concettuale, a cavallo dei primi anni ’40 del secolo scorso, è consistita nel discutere proprio questa difficoltà1, anche a costo di mettere in discussione la metodica limitazione neopositivista alle proposizioni descrittive (d’ora innanzi (PD)), quelle per le quali ha senso chiedersi se siano vere o false; per le quali, cioè, è possibile stabilire con esattezza il corrispettivo valore di verità. Il problema affrontato appare, dunque, il seguente: mentre per le (PD) di stati di cose, il rapporto tra significato e valore di verità è definito e non problematico, lo stesso non può dirsi nel caso delle (PN) per le quali, infatti, una cosa appare essere il significato e un’altra cosa il valore di verità.
Com’è noto, proprio nel corso di questo intenso e, talvolta anche, feroce, dibattito sono individuabili i prodromi di due distinte ricerche: a) la prima, che condusse alla nascita della logica deontica; e, b) la seconda, che condusse alla critica del (divieto di) passaggio dall’Is all’Ought2. Qualunque sia la specifica ottica a partire dalla quale si prendano in considerazione le due ricerche, a parer mio, si dovrebbe riconoscere come si tratti di due facce della stessa medaglia: la messa in discussione del collegamento, unico ed esclusivo, tra significato e verità di una stessa proposizione. É un idolo polemico tanto caro ai neopositivisti, credo per il loro attaccamento metodico al paradigma empirista secondo il quale, detto in estrema sintesi, è razionale qualcosa se, e solo se, è dimostrabile previa verifica empirica. Durante gli anni ’40 del secolo scorso, appunto, questa stessa fiducia, apparentemente incrollabile, nei confronti della limitazione alle sole enunciazioni descrittive di stati di cose, a causa della loro disponibilità al controllo empirico, comincia a sgretolarsi, mostrando più di una perplessità. Come rammenta Celano, infatti,
è noto che lo sviluppo della filosofia analitica successivo alla sua fase strettamente neopositivistica ha portato all’ampliamento di significanza del discorso, riconoscendo la sensatezza di diverse forme di enunciazione non dichiarativa. L’analisi del discorso prescrittivo costituisce, insieme alla logica deontica, il risultato principale di questo allargamento del campo di indagine3
Le proposizioni non descrittive, e segnatamente quelle normative, dunque, oltre ad avere un significato, sono anche razionali. Il discorso umano, dunque, non è razionale sino a quando si limita ad enunciare (PD), ossia delle proposizioni empiricamente verificabili, ma si arricchisce di ulteriori sfumature e possibilità, allargando, se così può dirsi, il reame della significanza logica oltre il limite del valore di verità.
Questo, però, non vuole affatto significare, come magari si potrebbe pensare, che non rimangano delle questioni aperte, delle difficoltà di varia natura. Infatti, è sicuramente vero che le (PN) siano razionali. Ma è altrettanto vero che possano giovarsi del medesimo trattamento vero – funzionali di cui godono le “sorelle” descrittive? Per Prior era ancora vero negare nel 1949 ogni possibilità a inferenze con (PN)4, vale a dire mandare ad effetto un passaggio dall’«essere» al «dovere», poter cioè adoperare (PN) come parti costitutive di un ragionamento. Ma, a ben guardare, si trattava di uno degli ultimi canti del cigno se è vero che nel giro di pochi anni l’argomento sarebbe stato definitivamente liberato con la monumentale opera di Hare Il linguaggio della morale. Tuttavia, non è a quel momento della ricerca che desidero volgere lo sguardo in questa sede. Piuttosto, vorrei prendere in considerazione uno di quei momenti iniziali che inverano la posizione di Rescher secondo il quale, e a differenza di quanto asserito da Cremaschi, lo svolgimento del discorso presente andrebbe retrodatato agli anni ’30, quando cioè gli stessi neopositivisti cominciarono a chiedersi quale potesse essere il trattamento logico adeguato per le (PN), le quali presentano senza dubbio un significato, ma non appaiono capaci di usufruire del medesimo trattamento vero – funzionale di cui usufruiscono, al contrario, le (PD) di stati di cose5.
È il danese Jorgen Jørgensen a cogliere esattamente, dal mio modesto punto di vista, la sostanza del problema:
according to a generally accepted definition of logical inference only sentences which are capable of being true or false can function as premises or conclusions in an inference; nevertheless it seems evident that a conclusion in the imperative mood may be drawn from two premises one of which or both of which are in the imperative mood6
Come detto in precedenza, le (PD) di stati di cose mostrano in maniera chiara l’identità tra il significato che assumono e il corrispettivo trattamento logico consistente nella loro verifica vero – funzionale, ovviamente a seconda che siano vere o false. La stessa cosa non accade per le (PN) ove significato e vero – funzionalità appaiono distinti e separati. Da questo punto di vista, allora, penso abbia sostanzialmente ragione Schueler quando scrive che gran parte della filosofia (morale) del XX secolo è stata attraversata dal tentativo di comprendere la relazione tra Is e Ought7, tra (PD) di stati di cose e (PN). In radicale sintesi, possiamo dire che intanto le prime descrivono la realtà in quanto le secondo prescrivono quale ordine la stessa realtà dovrebbe avere. Ora, ai presenti fini, mentre le prime possono essere vere e/o false invece non ha alcun senso dire delle seconde che siano vere e/o false.
Il problema, però, non si esaurisce qui poiché la medesima difficoltà si estende al ragionamento. Infatti, mentre è normale adoperare (PD) al fine di costruire inferenze sensate, più complesso appare adoperare (PN) al fine di costruire inferenze normative che possano dirsi sensate. A mio avviso, il problema è più di natura concettuale che pratica, ma ha la sua rilevanza, soprattutto in chiave storiografica. Come sostiene Jørgensen, un ragionamento utilizza normalmente le (PD) di stati di cose per dedurre una conclusione. Ciò significa anche che un ragionamento sensato si serve di sole proposizioni che possano dirsi vere e/o false. Invece, un ragionamento che adoperi proposizioni non vero – funzionali, come quelle normative, non può dirsi sensato alla stessa maniera. Chiosa, però, il Nostro come questa è, in genere, la considerazione che si può avere, a partire da una concezione stretta di inferenza logica. La nostra esperienza quotidiana, comunque, appare differente dato che mostra esempi di inferenze con (PN). Ora, a rigore queste ultime non dovrebbero essere possibili, via la summenzionata concezione stretta, ma in pratica le stesse appaiono fattibili. Com’è possibile? Per Jørgensen, esperiamo un puzzle8, un enigma concettuale: a rigore non dovrebbero avere luogo, eppure sono possibili.
A mio sommesso parere, in buona approssimazione, sembrano scontrarsi due distinte tesi di carattere generale: x) non è ammissibile costruire inferenze che adoperino proposizioni non solamente descrittive; e, xx) è praticamente possibile costruire inferenze che adoperino proposizioni non solamente descrittive. Il discorso di Jørgensen “forza”, in qualche modo, la separazione di marca neopositivista tra Is e Ought, ammettendo la possibilità di inferenze che adoperino (PN). Sostiene, infatti, che «it seems evident that a conclusion in the imperative mood may be drawn from two premises one of which or both of which are in the imperative mood»9. In questo passaggio, il logico danese sta giustificando la possibilità di inferenze miste, specifici ragionamenti per i quali almeno una delle premesse è espressa in forma non descrittiva, ossia normativa. Dunque, par di capire, se è dubbio poter costruire inferenze nativamente normative, ove cioè siano presenti come premesse e conclusione sole (PN), lo stesso non può dirsi delle inferenze miste, ove cioè siano presenti come premesse e conclusione delle (PD) e delle (PN). Secondo Castañeda, con riguardo al tema più vasto dei rapporti tra Is e Ought, rispetto al quale il puzzle di Jørgensen mi appare nei termini limitati di una variante “locale”, possiamo optare per tre distinte tesi: (TP) la Tesi di Poincaré secondo la quale gli imperativi non possono essere derivati da premesse nessuna delle quali sia imperativa; (TH) la Tesi di Hume secondo la quale i giudizi normativi non sono implicati da premesse nessuna delle quali non sia un giudizio normativo; e, (THA) la Tesi di Hare secondo la quale nessun indicativo può essere derivato da premesse contenenti imperativi a meno che non possa essere derivato da sole premesse indicative10. Mentre la (TP) e la (THA) appaiono speculari, pur nella rispettiva specificità, la (TH) apre all’ipotesi formulata appunto da Jørgensen: sebbene ciò contrasti con la convinzione generale al riguardo, sono possibili delle inferenze miste, vale a dire dei ragionamenti ove siano presenti (PD) e (PN) in qualità di premesse e/o conclusione. L’ampliamento del discorso appare notevole se si pone mente alla stessa difficoltà avvertita da Jørgensen secondo la quale una certa concezione limita la logica stessa alle sole (PD), e nega, per conversa, qualsiasi possibilità di trattamento formale alle (PN).
Tuttavia, ad onor del vero, Jørgensen non si limita a questo, ma descrive in maniera compiuta una possibile strategia escapista rispetto alla limitazione presente per la logica alle sole (PD) e che consiste, in estrema sintesi, nel derivare, da ogni singola (PN) una (PD) corrispondente la quale esprima, in forma descrittiva, il contenuto normativo della (PN) di partenza11. In questo modo, dunque, la logica troverebbe facile applicazione, senza complicazioni o difficoltà ulteriori, alle (PD) di (PN). Questa soluzione è giustamente rifiutata da Ross per il quale si tratta non di una nativa logica delle (PN) bensì di una mera logica proposizionale applicata alle (PD)12, le quali, pur venendo derivate da analoghe (PN), cessano di avere rapporti significativi con queste ultime. Per dirla altrimenti, la presente strategia di fuga di Jørgensen è fallace dal momento che sposta il discorso intorno al trattamento formale adeguato alle (PN) da queste ultime alle (PD) rispetto alle quali, infatti, non sono presenti ostacoli di sorta. Il derivare (PD) da (PN) non consente alcun progresso formale degno di questo nome.
Se, dunque, prive di considerazione formale, le (PN) appaiono leggere, ma ciò, ad un’attenza valutazione, non è positivo dal momento che, se così è, nulla consentirebbe di giustificare razionalmente qualsiasi condotta umana, relegando lo stesso pensiero pratico nel dominio dell’irrazionale. Per von Wright, ad esempio, il pensiero pratico, proprio in quanto pensiero, deve essere razionale13, per difficile che sia coprire lo stesso con il medesimo ombrello della logica. E tuttavia nota Marín, «Jørgensen’s dilemma is unavoidable: The classical concept of deduction, traditionally applied only to sentences susceptible of truth or falsity, must be widened, or else, the possibility of a logic of norms, of directive sentences, must be rejected»14.
Mentre Jørgensen abbozza la sua logica degli imperativi, un’estensione della logica delle (PD) alle (PN), la letteratura ha individuato nel suo articolo la prima formulazione di una topica ben precisa, sin da allora chiamata con l’espressione seguente: dilemma di Jørgensen (d’ora innanzi: (DJ)). Per von Wright,
in the late 1930s and early 1940s there was a certain amount of discussion whether a logic of norms or of imperatives is at all possible in view of the fact that imperatives – and presumably norms too – lack truth-value. In the debate two Danes took a prominent part. One was Jørgen Jørgensen, after whom the name “Jørgensen’s Dilemma” was coined. The other was Alf Ross, inventor of the famous paradox. Both the dilemma and the paradox are still active topics of current debate15
Il primo a parlare di (DJ) fu Alf Ross nel 194116. La sequenza evoltutiva appare chiara: nel 1938 Jørgensen scorge la difficoltà che nomina come puzzle mentre nel 1941 Ross parla, riferendosi al problema scorto dal suo connazionale, di dilemma. É chiaro, a parer mio, come non si tratti della stessa cosa e trovo di rilievo osservare anche come d’ora in avanti la topica si sia sviluppata autonomamente e lungo una direzione del tutto originale rispetto alla tematizzazione compiutane da Jørgensen. Questo al punto che trovo ragionevole scorgere una certa tensione tra il puzzle scorto da Jørgensen e il dilemma che in seguito gli è stato attribuito. Dopo aver discusso I luoghi teorici del puzzle, volgiamo adesso lo sguardo alla ricezione dello stesso nei termini del dilemma di Jørgensen (d’ora innanzi: (DJ)). Ritengo si possa sintetizzare quest’ultimo nei termini di una contrapposizione tra due tesi contrarie:
-
è possibile una logica delle norme, a patto che la logica non sia verofunzionale; oppure,
-
non è possibile una logica delle norme, a condizione che la logica sia verofunzionale.
Le due tesi concorrenti esprimono due distinti corni del dilemma. Il corno (1) descrive, anche se brevemente, per chiare ragioni di spazio, quella che, ai miei occhi, costituirebbe una vera e propria svolta nella ricerca logica, vale a dire un’estensione considerevole del suo campo d’indagine. Tuttavia, tale estensione presenta anche un conto caro da pagare, vale a dire per essere capace di trattare le norme, proposizioni del tutto eterogenee ai valori vero – funzionali, la logica dovrebbe cessare di essere vero – funzionale, accettando uno stuatus che, per quanto innovativo, appare non poco problematico. Infatti, una logica non più basata sulla possibilità di rendere conto del significato delle sue enunciazioni in termini di verità e falsità, che garanzia può offrire in merito alla validità dei suoi ragionamenti? É, al contrario, proprio la conformità alla limitazione vero – funzionale la migliore garanzia delle correttezza dei ragionamenti.
Invece, il corno (2) descrive lo stato attuale dei rapporti tra la logica, di per sé vero – funzionale, e le (PN), di per sé aleticamente adiafore. Anche in questo caso, comunque, vi sono degli aspetti negativi. In primo luogo, la mancata copertura logica delle norme, con quel che ciò comporta in merito alla razionalità del discorso normativo in generale. In secondo luogo, la recisa negazione di qualsiasi possibilità per logiche che desiderino occuparsi anche di enunciazioni non descrittive di stati di cose.
A ben vedere, però, a mio parere, i due corni combinano tra di loro ben quattro differenti tesi:
a) la logica può anche applicarsi alle enunciazioni non apofantiche, a condizione però di modificarne la natura verofunzionale;
b) la logica non può applicarsi alle enunciazioni non apofantiche, dato che può trovare applicazione solo ad enunciazioni verofunzionali;
c) è possibile una logica delle norme, a seconda che possa trovare adeguata realizzazione la tesi (a);
d) non è possibile una logica delle norme, a seconda che possa trovare adeguata realizzazione la tesi (b).
Per Coyle, sino a che s’intenderanno i rapporti tra logica e dominio pratico nella stessa maniera in virtù della quale sono stati intesi in passato, vale a dire in maniera dicotomica, con i fatti da una parte e le valutazioni rigorosamente da un’altra parte, e con la tanto semplice quanto radicale limitazione della logica alle (PD) di fatti, non potremo che incappare in varie formulazioni dello stesso (DJ)17. In altri termini, vigendo le condizioni di partenza del discorso, il (DJ) appare inevitabile: da un lato, «logical forms are inapplicable to normative statements because logic is dependent upon the ascription of truth-values which cannot sensibly be attributed to norms»18; e, dall’altro lato, «people are generally convinced by their normative inferences and arguments notwithstanding the semantic difficult»19. La verità sta probabilmente nel mezzo, ma si tratta di una mediazione salata e che non in molti sono disposti ad accettare.
Secondo Marturano, invece, il significato profondo della topica presente va colta in tre differenti, ma non anche irrelati, ragioni che il (DJ) pone, sia pure in maniera tanto sintetica quanto confusa, alla considerazione razionale: (a) bisogna ampliare il concetto classico di inferenza logica; (b) è possibile costruire una logica indiretta tra prescrizioni che salvaguardi il concetto classico di inferenza; e, (c) non si può fare alcun tipo di inferenze tra prescrizioni (il discorso normativo è irrazionale)20. La combinazione tra queste “ragioni”, produce l’impasse mostrata in maniera sciagurata dal (DJ).
In effetti, e rispetto all’esigenza di significanza postneopositivistica, Jørgensen mette in mostra la contrapposizione netta tra due possibilità: 1) è possibile una logica delle (PN), a patto che la logica non sia verofunzionale; e, 2) non è possibile una logica delle (PN), a condizione che la logica sia verofunzionale. La prima possibilità fa il paio con la concezione stretta di logica, limitata alle sole proposizioni vero – funzionali, vale a dire quelle rientranti nell’insieme delle (PD), mentre la seconda incontra il favore di quanti avvertono come l’esperienza ci offra dei controesempi alla limitazione stessa della logica alle (PD). L’alternativa assoluta tra le possibilità (1) e (2), d’altro canto, esprime, in termini stringati, un’alternativa più profonda che Marturano riassume nei termini che seguono: i) è possibile dare luogo ad un trattamento formale adeguato alle (PN), a condizione, però, di estendere l’ambito di applicazione della logica oltre le abituali limitazioni verofunzionali; ii) non è possibile dare luogo ad un trattamento formale adeguato alle (PN), dal momento che si mantiene immutata la natura convenzionale della logica legata esclusivamente alle entità vero – funzionali. Comunque la si intenda le questione, il (DJ) mostra, oltre il più ragionevole dubbio, l’inadeguatezza di due nozioni centrali in logica: z) il concetto di verità; e, zz) il concetto di inferenza.
In considerazione di ciò, una possibile soluzione al (DJ) viene intravista da Marturano nell’abbracciare una prospettiva di filosofia del linguaggio che consenta di separare l’aspetto formale delle enunciazioni, segnatamente di quelle che confluiscono nelle (PN), dall’aspetto linguistico delle stesse. Nel far questo, egli finisce per riproporre, a mio modesto avviso, la medesima strategia indicata da Jørgensen consistente nel distinguere, per ciascuna (PN) due elementi: w) un fattore indicativo (d’ora innanzi: (FI)); e, ww) un fattore imperativo (d’ora innanzi: (FIM)). A mio avviso, Jørgensen sosteneva che, con riguardo alla specifica modalità d’enunciazione linguistica, ciascuna (PN) potesse venir ridotta a due distinti, ma compresenti, elementi, uno indicativo, del tutto analogo alla forma stessa delle (PD), e rispetto al quale, ovviamente, non è presente alcuna difficoltà a sottoporla al giogo della logica vero – funzionale, e uno imperativo, del tutto eterogeneo alla forma assunta dalle (PD), e rispetto al quale, data la sua sostanziale estraneità al discorso formale, nulla può essere detto, nulla ovviamente di sensato. Il che attiva di nuovo la summenzionata strategia escapista, consistente nel “tradurre” ciascuna (PN), estranea all’analisi logica, in un’equivalente (PD), di per sé ricadente entro il dominio logico. Tanto Jørgensen quanto Marturano, dal mio punto di vista, ricalcano la medesima concezione analitica, nel senso di filosofia analitica, che avrebbe condotto di lì a poco all’analisi del linguaggio morale in Hare ove, in maniera del tutto caratteristica, possiamo ritrovare, sia pure con un linguaggio differente, la stessa distinzione tra (FI) e (FIM)21, chiamati rispettivamente frastico e neustico. Questo mi spinge a considerare la ricostruzione compiuta da Marturano come una delle tante formulazioni possibili di (DJ), e comunque non del tutto riconducibile all’originario discorso compiuto da Jørgensen. Detto altrimenti, Marturano s’inscrive nella medesima tradizione che cristallizza una sostanziale opposizione tra l’enigma intravisto da Jørgensen e il dilemma che altri gli hanno cucito addosso.
Marturano guarda all’effetto pratico svolto dal linguaggio e questa specifica prospettiva gli consente di evitare la criticità messa in evidenza dalla topica presente. Tant’è vero che ritiene di poter risolvere in maniera positiva il (DJ) delineando l’orizzonte di possibilità per un’effettiva logica delle (PN). Il fulcro di tale soluzione è una distinzione per una stessa (PN) tra una parte proposizionale e una corrispettiva parte illocutoria22. A questo punto, non importa più lo specifico contenuto enunciato, ma solamente la “forza” dell’enunciazione in virtù della quale l’enunciato stesso viene a svolgere una determinata funzione a partire dalla quale si modifica la realtà.
Se anche Jørgensen appare sensibile ad una considerazione relativa ai differenti scopi dell’enunciazione linguistica, in funzione della quale una singola proposizione può venir annoverata tra le (PD) o le (PN), i due soli insiemi che adoperiamo in questa sede in riferimento alla topica del (DJ) a differenza dei molti tipi possibili di proposizioni, insistere sul modo dell’enunciazione, e, quindi, sulla differenze funzione svolta di volta in volta dalle varie proposizioni, mi pare né più né meno un tentativo di sviare le difficoltà e di cercare altrove strumenti utili per superare il puzzle scorto da Jørgensen.
È vero che per ciascuna (PN) abbiamo due elementi distinti, come il contenuto della proposizione e il senso normativo della stessa, ma, dal mio punto di vista, non è rilevante spostare il discorso dalla eventuale possibile logica per le (PN) all’analisi degli usi linguistici delle proposizioni in generale. A parer mio, quando si pone l’accento sull’indifferenza dittiva nell’enunciazione linguistica si sta cercando di risolvere una ben precisa difficoltà approdando però ad un tipo di considerazione differente. In modo chiaro, Marturano risolve il (DJ) approdando ad una prospettiva analitica in virtù della quale non conta il significato logico delle (PN), ma la specifica, e correlativa, funzione linguistica che si sta mandando ad effetto per loro tramite. Detto in breve, se la proposizione in questione ha la funzione di informare, allora abbiamo una proposizione ricadente nell’insieme delle (PD), mentre se la proposizione in questione ha la funzione di dirigere il comportamento, allora abbiamo una proposizione ricadente nell’insieme delle (PN). Ma questo non ha nulla a che spartire con la logica. Prova ne sia che in nessun caso viene costruita un’effettiva logica delle (PN) e come, piuttosto, si cerchi di bypassare il puzzle di Jørgensen riconducendo, in ogni caso, le (PN) alle (PD), sia sotto la forma di equivalenti proposizioni descriventi sia sotto la forma di modalità enunciativa.
Globalmente considerata, pertanto, la storia del (DJ), a mio sommesso parere, ha questo di caratteristico: in primo luogo, riconosce la problematicità del puzzle jørgensiano; e, in secondo luogo, lo evita insistendo sull’indifferenza del contenuto delle proposizioni rispetto alle loro differenti funzioni; infine, in terzo luogo, nega specificità propria alla logica, prima messa alla porta via la riduzione linguistica alla modalità enunciativa e dopo fatta rientrare dalla finestra quando si avverte il bisogno di tipizzare l’aspetto topologico della specifica filosofia del linguaggio proposta. Come a dire che l’indifferenza dittiva distolga lo sguardo dalla specificità della logica, e, mutatis mutandis, dal problema stesso scorto da Jørgensen, vale a dire lo scollamento tra verità e significanza nel caso particolare delle (PN).
Un problema, dunque, che rimane attuale e che conferma nel tempo la sua natura enigmatica nonostante la tensione generale presente in letteratura specialistica tra il puzzle di Jørgensen e il dilemma che ne porta il nome.
Bibliografia
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1 Cfr. S. Cremaschi, L’etica del novecento. Dopo Nietzsche, Carocci, Roma, 2005, p. 64.
3 Cfr. B. Celano, Per un’analisi del discorso dichiarativo, “Teoria”, 1, 1990, p. 166.
4 Cfr. A. N. Prior, Logic and the Basis of Ethics, Clarendon Press, Oxford, 1949, p. 24.
5 Cfr. N. Rescher, The Logic of Commands, Routledge & Kegan Paul, London, 1966, p. vi.
6 Cfr. J. Jørgensen, Imperatives and Logic, “Erkenntnis”, 7, 1937 – 8, p. 290.
7 Cfr. G. F. Schueler, Why “oughts” are not Facts (or What the Tortoise and Achilles Taught Mrs. Ganderhoot and Me about Practical Reason), “Mind”, 416, 1995, p. 713.
8 Cfr. J. Jørgensen, Imperatives … op. cit., p. 290.
10 Cfr. H. N. Castañeda, Ought, Reason, Motivation, and Unity of the Social Science, in G. Di Bernardo (ed.), Normative Structures of the Social World, Rodopi, Amsterdam, 1988, p. 20 e sgg.
11 Cfr. J. Jørgensen, op. cit., p. 291.
12 Cfr. A. Ross, Imperativi e logica, in A. Ross, Critica del diritto e analisi del linguaggio, Il Mulino, Bologna, 1982, p. 76.
13 Cfr. G. H. von Wright, Introduzione, a: G. Di Bernardo (ed.), Logica deontica e semantica, Il Mulino, Bologna, 1977, p. 37.
14 Cfr. Cfr. R. H. Marín, Practical Logic and the Analysis of Legal Language, “Ratio Juris”, 4, 1991, p. 323.
15 Cfr. G. H. von Wright, Deontic Logic: A Personal View, “Ratio Juris”, 1, 1999, p. 27.
16 Cfr. A. Ross, Imperativi … op. cit., p. 76.
17 Cfr. S. Coyle, The Possibility of Deontic Logic, “Ratio Juris”, 3, 2002, p. 295.
20 Cfr. A. Marturano, Il “dilemma di Jørgensen”, Aracne, Roma, 2012, p. 11.
21 Cfr. R. M. Hare, Il linguaggio della morale, Ubaldini, Roma, 1968, p. 26 e sgg.
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