(Normativa di riferimento: C.p.p., art. 603)
Il fatto
Con sentenza del 14 dicembre 2007 il Tribunale di Reggio Emilia assolveva per non aver commesso il fatto P. D., dai reati di rapina pluriaggravata in danno di un istituto bancario, ricettazione di un’autovettura e porto di oggetto atto ad offendere.
Il Tribunale, dopo avere premesso che gli elementi a carico dell’imputato erano costituiti da un telefono cellulare e da un filmato estratto dal sistema di videosorveglianza della banca rapinata, osservava come si trattasse di elementi incerti che non consentivano di superare la soglia dell’al di là di ogni ragionevole dubbio posto che la circostanza che la scheda telefonica, intestata all’imputato, avesse agganciato celle contigue ai luoghi teatro degli eventi, nelle ore di interesse, non poteva considerarsi elemento esaustivo della sua compartecipazione all’azione criminosa in quanto la suddetta utenza avrebbe potuto essere utilizzata da altra persona; quanto al filmato, mentre il consulente tecnico del pubblico ministero – sentito all’udienza del 10/11/2006 – «ha creduto di vederci ritratto proprio l’imputato», il perito, nominato nel corso del dibattimento e la cui relazione era stata letta sull’accordo delle parti, di contro, era giunto alla conclusione che le somiglianze, pur esistenti, «attengono a caratteri generali che non consentono di pervenire ad un giudizio di identificazione, in quanto gli stessi possono essere riscontrati anche in più soggetti».
A seguito di impugnazione del pubblico ministero, con sentenza del 29 novembre 2016, la Corte d’appello di Bologna, in riforma della pronuncia di primo grado, dichiarava l’imputato colpevole del solo delitto di rapina pluriaggravata, rubricata al capo L) e, esclusa la recidiva, lo condannava alla pena ritenuta di giustizia dichiarando non doversi procedere in ordine ai residui reati contestati ai capi I) e M), perché estinti per prescrizione.
La Corte territoriale poneva a fondamento dell’affermazione di responsabilità i seguenti indizi, ritenuti gravi, precisi e concordanti: la presenza del cellulare dell’imputato – residente a Padova – il 25/02/2000 alle ore 02.12′.12″, a pochi chilometri dal luogo ove avvenne il furto la notte fra il 24 ed il 25/02/2000 dell’autovettura, poi utilizzata per la rapina; la presenza del cellulare dell’imputato nei pressi del luogo della rapina (alle ore 14.58’13”), in perfetta coincidenza temporale con essa (alle ore 15).
La Corte, quindi, osservava come, dall’esame dei tabulati telefonici, si evidenziasse che l’utilizzatore del cellulare in questione, dopo il furto dell’auto, era rientrato nel Veneto; il giorno della rapina era tornato a Correggio (luogo della rapina) e, subito dopo, era nuovamente rientrato nel Veneto.
La Corte, pertanto, concludeva per la colpevolezza dell’imputato in quanto: «l’utilizzatore dell’utenza telefonica in esame non era soggetto stabilmente presente nella zona dei fatti (il che avrebbe potuto fare ipotizzare la sfortunata coincidenza di chi, abitando in quei luoghi, si fosse venuto a trovare in quei due punti e momenti sensibili per pura e malaugurata coincidenza)»; lo stesso imputato non aveva fornito alcuna spiegazione idonea a chiarire la presenza del cellulare nei luoghi suddetti; l’imputato somigliava, in modo rilevantissimo, ad uno dei tre rapinatori come si poteva desumere dalle conclusioni cui erano pervenuti il consulente tecnico del pubblico ministero e il perito avendo affermato il primo che “molto probabilmente” uno dei rapinatori e l’imputato erano la stessa persona e il secondo che esisteva compatibilità tra il rapinatore e l’imputato anche se non poteva affermarsi con certezza che si trattasse della stessa persona.
I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Contro la sentenza d’appello proponeva ricorso per cassazione il difensore dell’imputato deducendo i seguenti motivi: a) carenza e manifesta illogicità della motivazione in relazione al capo L) della rubrica di imputazione nonché violazione del principio di oralità – immediatezza di cui all’art. 6 Cedu atteso che la Corte d’appello, nel riformare la pronuncia assolutoria di primo grado, non avrebbe fornito una compiuta giustificazione logica della pretesa non condivisibilità del ragionamento svolto dal Tribunale e, soprattutto, contrariamente a quanto richiesto dai più recenti arresti della giurisprudenza nazionale ed europea, non avrebbe rinnovato le decisive prove assunte nel corso del dibattimento ossia le dichiarazioni del perito e del consulente tecnico del pubblico ministero assimilabili alla testimonianza e, quindi, rientranti nel perimetro concettuale delle prove dichiarative. La Corte di merito, inoltre, ad avviso del ricorrente, da un lato, avrebbe reso una motivazione manifestamente illogica e contraddittoria anche in relazione al preteso apporto conoscitivo, fornito dall’analisi del traffico telefonico dell’utenza intestata all’imputato, sotto il duplice profilo dell’impossibilità di attribuire univoco significato indiziante a tali risultanze e dell’indimostrata disponibilità in capo all’imputato della medesima, al momento della rapina, dall’altro, avrebbe ritenuto sufficiente, per la riforma della decisione di primo grado, la sommatoria di due elementi indizianti ciascuno dei quali, di per sé, caratterizzato da intrinseca vaghezza e inconcludenza epistemica, da un altro lato ancora, non avrebbe raffrontato il dato temporale, ricavato dai fotogrammi estrapolati dal sistema di videosorveglianza dell’istituto bancario, con quello emergente dai riscontri operati sul traffico telefonico sviluppato dall’utenza intestata al ricorrente in orario prossimo all’uscita dei rapinatori dalla banca; b) violazione degli artt. 62-bis e 133 cod. pen. nonché vizi di motivazione in ordine alle modalità di commisurazione della sanzione irrogata e al diniego delle attenuanti generiche stante il fatto che la Corte territoriale avrebbe utilizzato una mera clausola di stile facendo riferimento alla determinazione criminosa mostrata dai rapinatori e avrebbe richiamato la mancata resipiscenza di questi ultimi smentita dal successivo richiamo al mutamento della condotta di vita dell’imputato il quale non si era reso autore di ulteriori delitti negli anni successivi alla rapina contestata.
La questione prospettata nell’ordinanza di rimessione
La Seconda Sezione Penale, assegnataria del ricorso, lo rimetteva alle Sezioni Unite avendo ravvisato nella censura dedotta con il primo motivo (omessa rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in appello relativamente alle dichiarazioni del consulente tecnico e del perito) il seguente contrasto giurisprudenziale.
Secondo una prima tesi, il giudice di appello ove intenda pervenire, in riforma della sentenza assolutoria di primo grado, ad una sentenza di condanna sulla base di una diversa valutazione dei risultati delle indagini tecniche – siano esse effettuate da un perito o da un consulente di parte – eseguite nel corso del giudizio di primo grado, deve rinnovare l’istruttoria dibattimentale ex art. 603 cod. proc. pen. e procedere, quindi, all’esame del perito e del consulente di parte proprio perché anch’essi vanno considerati testi sicchè, vertendosi nell’ambito di una prova dichiarativa, vige l’obbligo di sentirli nuovamente secondo il principio di diritto stabilito dalla giurisprudenza comunitaria (ex plurimis, Corte EDU 05/7/2011 Dan c. Moldavia) e da quella nazionale (Sez. U., n. 27620 del 28/04/2016, omissis, Rv 267487; Sez. U., n. 18620 del 19/01/2017, omissis, Rv 269785; Sez. U., n. 14800 del 2017, dep. 2018, omissis, Rv 272430) ed ora recepito al comma 3-bis dell’art. 603 cod. proc. pen.: Sez. 4, n. 36736 del 27/04/2018, omissis, Rv 273872; Sez. 4, n. 14654 del 28/02/2018, omissis, Rv 273908; Sez. 4, n. 14649 del 21/02/2018, omissis, Rv 273907; Sez. 4, n. 9400 del 25/01/2017, omissis; Sez. 4, n. 6366 del 06/12/2016, dep. 2017, omissis, Rv 269035; Sez. 2, n. 34843 del 01/07/2015, omissis, Rv 264542.
Ad opposta conclusione, perviene, invece, una diversa tesi (Sez. 3, n. 57863 del 18/10/2017, omissis, Rv 271812; Sez. 5, n. 1691 del 14/09/2016, dep. 2017, omissis, Rv 269529) la quale, parte dal presupposto secondo il quale la prova scientifica non può essere assimilata alla prova dichiarativa dato che, nel caso di prova tecnica, «non si tratta di stabilire l’attendibilità del dichiarante e la credibilità del racconto sotto il profilo della congruenza, linearità e assenza di elementi perturbatori dell’attendibilità, ma di valutare la deposizione del perito alla luce dell’indirizzo ermeneutico in tema di valutazione della prova scientifica, secondo cui, in virtù dei principi del libero convincimento del giudice e di insussistenza di una prova legale o di una graduazione delle prove, il giudice ha la possibilità di scegliere, fra le varie tesi scientifiche prospettate da differenti periti di ufficio e consulenti di parte, quella che ritiene condivisibile, purché dia conto, con motivazione accurata ed approfondita delle ragioni del suo dissenso o della scelta operata e dimostri di essersi soffermato sulle tesi che ha ritenuto di disattendere, confutando in modo specifico le deduzioni contrarie delle parti, sicché una simile valutazione, ove sia stata effettuata in maniera congrua in sede di merito, non è sindacabile dal giudice di legittimità».
Da questo argomento si traeva il corollario secondo il quale le figure del testimone e quella del perito e del consulente di parte non sono sovrapponibili anche perché la loro relazione viene acquisita e diventa parte integrante della deposizione concludendosi nel senso che, non vertendosi nell’ambito delle prove dichiarative, la Corte di Appello, che intenda riformare la sentenza assolutoria di primo grado, non ha l’obbligo di procedere alla rinnovazione dibattimentale della dichiarazione resa dal perito o dal consulente tecnico fermo l’obbligo di motivare in modo rafforzato e cioè di delineare le linee portanti del proprio alternativo ragionamento probatorio e di confutare specificamente gli argomenti rilevanti della motivazione della prima sentenza dando conto delle ragioni dell’incompletezza o incoerenza tali da giustificare la riforma del provvedimento.
Le valutazioni giuridiche formulate dalle Sezioni Unite
Le Sezioni Unite, una volta delimitata la questione di diritto da doversi esaminare ossia se “la dichiarazione resa dal perito o dal consulente tecnico costituisca o meno prova dichiarativa assimilabile a quella del testimone, rispetto alla quale, se decisiva, il giudice di appello avrebbe l’obbligo di procedere alla rinnovazione dibattimentale, nel caso di riforma della sentenza di assoluzione sulla base di un diverso apprezzamento di essa”, osservavano prima di tutto come siffatta questione avesse per oggetto la modalità processuale con la quale si deve garantire il diritto di difesa e del contraddittorio nell’ipotesi in cui l’imputato – assolto in primo grado sulla base di una prova dichiarativa ritenuta decisiva – sia condannato in appello, su impugnazione del pubblico ministero, sulla base del medesimo materiale probatorio.
Premesso ciò, gli ermellini ritenevano come il dato processuale dal quale partire, per una corretta impostazione della problematica, consistesse nel fatto che, nel caso di specie, si era verificata una situazione di ontologica contraddittorietà della decisione sulla colpevolezza dell’imputato derivante da due sentenze dal contenuto antitetico pur essendo entrambe fondate sulle medesime prove.
Orbene, in relazione a ciò, i giudici di piazza Cavour facevano presente come, rispetto a questa evenienza potenzialmente contraddittoria, la giurisprudenza elaborata in sede nomofilattica avesse rimediato, a livello interpretativo, con l’introduzione di due principi, vale a dire i seguenti: a) il principio del contraddittorio cartolare per effetto del quale l’imputato assolto – a fronte di un appello del pubblico ministero in grado, potenzialmente, di determinare, la riforma della sentenza di assoluzione – «ha il diritto di riproporre ogni questione sostanziale e processuale già posta e disattesa in primo grado nonchè di chiedere con memorie o istanze l’acquisizione di altre e diverse prove favorevoli e decisive, pretermesse dal primo giudice, con la conseguenza che il giudice di appello ha l’obbligo di argomentare al riguardo e, in caso di omissione, l’imputato può dedurre con ricorso per cassazione la relativa mancanza di motivazione» (Sez. U., n. 33748 del 12/07/2005, omissis, Rv. 231674 che, sul punto, ribadirono, quanto già statuito da Sez. U., n. 45276 del 30/10/2003, omissis, Rv. 226093); b) il principio della motivazione rafforzata secondo il quale «il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l’obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato» (Sez. U., omissis, Rv. 231679).
Precisato ciò, pur evidenziandosi come la combinazione di questi due principi avesse consentito alla giurisprudenza della Cassazione di ritenere «che le fondamentali garanzie di cui agli artt. 24, comma secondo, e 111 Cost. attinenti al pieno esercizio delle facoltà difensive, anche per i profili della formazione della prova nel contraddittorio fra le parti e dell’obbligo di valutazione della stessa nel rispetto dei canoni di legalità e razionalità, siano riconosciute ed assicurate nel giudizio di appello instaurato a seguito dell’impugnazione del pubblico ministero contro la sentenza assolutoria di primo grado» (Sez. U, Mannino), si sottolineava però come il punto di svolta sull’interpretazione degli artt. 111 Cost. e 6 CEDU si ebbe con le sentenze della Corte Cost. nn. 348-349 (cd. “sentenze gemelle”) del 22/10/2007 e n. 49 del 14/01/2015 con le quali fu stabilito che: a) le norme della CEDU hanno, nella gerarchia delle fonti rango “subcostituzionale” – in quanto sono subordinate alla Costituzione, ma sopraordinate alla legge ordinaria – applicabili nel diritto interno per effetto dell’art. 117, comma 1, Cost.: (Corte Cost. n. 349); b) alla Corte EDU, ai sensi dell’art. 32 paragrafo 1 della Convenzione, è affidata la funzione di interpretare le norme della Convenzione stessa: (Corte Cost., n. 349). c) è «solo un “diritto consolidato“, generato dalla giurisprudenza europea, che il giudice interno è tenuto a porre a fondamento del proprio processo interpretativo, mentre nessun obbligo esiste in tal senso, a fronte di pronunce che non siano espressive di un orientamento oramai divenuto definitivo» (Corte Cost. n. 49).
Da ciò se ne faceva discendere come, alla luce delle suddette sentenze, la problematica della rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale del giudizio di appello – ove il giudice dell’impugnazione, su appello del pubblico ministero, condanni l’imputato in riforma della sentenza assolutoria di primo grado – fosse stata completamente ripensata a seguito della sentenza Dan c. Moldavia del 5 luglio 2011 con la quale la Corte EDU aveva ribadito il seguente consolidato principio: «Se una Corte d’Appello è chiamata ad esaminare un caso in fatto e in diritto e a compiere una valutazione completa della questione della colpevolezza o dell’innocenza del ricorrente, essa non può, per una questione di equo processo, determinare correttamente tali questioni senza una valutazione diretta delle prove [….] La Corte ritiene che coloro che hanno la responsabilità di decidere la colpevolezza o l’innocenza di un imputato dovrebbero, in linea di massima, poter udire i testimoni personalmente e valutare la loro attendibilità. La valutazione dell’attendibilità di un testimone è un compito complesso che generalmente non può essere eseguito mediante una semplice lettura delle sue parole verbalizzate [….]».
Dunque, osservava la Cassazione nella pronuncia in commento, il vulnus individuato dalla Corte EDU al principio del giusto processo consiste nella violazione del principio di oralità ed immediatezza il solo che può consentire al giudice di valutare direttamente e correttamente una prova dichiarativa: di conseguenza, ove il giudice di appello intenda riformare in pejus una sentenza di assoluzione, costui deve attivare il contraddittorio e sentire nuovamente i testi al fine di dissipare i dubbi sorti su quelle dichiarazioni (sempre che, ovviamente, siano rilevanti ai fini del giudizio) non potendo rivalutarle, in contrasto con la valutazione datane dal primo giudice, solo sulla base di quanto risulti verbalizzato.
Si sottolineava oltre tutto come, in linea con il suddetto principio di diritto, si fosse posta la sentenza delle Sezioni Unite Dasgupta che, dopo avere fatto propria la motivazione della Corte EDU, in merito ai principi di “contraddittorio“, “oralità” ed “immediatezza” e, valorizzando, altresì, da una parte, il principio della motivazione rafforzata e, dall’altra, quello dell’al di là di ogni ragionevole dubbio, aveva concluso affermando che «il giudice di appello, investito dalla impugnazione del pubblico ministero che si dolga dell’esito assolutorio di primo grado adducendo una erronea valutazione sulla concludenza delle prove dichiarative, non può riformare la sentenza impugnata nel senso dell’affermazione della responsabilità penale dell’imputato senza avere proceduto, anche d’ufficio, a norma dell’art. 603 c.p.p., comma 3, c.p.p., a rinnovare l’istruzione dibattimentale attraverso l’esame dei soggetti che abbiano reso dichiarazioni sui fatti del processo, ritenute decisive ai fini del giudizio assolutorio di primo grado».
Terminato questo excursus della giurisprudenza europea elaborata in subiecta materia, i giudici di legittimità ordinaria denotavano come sulla suddetta problematica fosse successivamente intervenuto il legislatore che, con l’art. 1 comma 58 della legge n. 103 del 23/06/2017, ha, con decorrenza dal 03/08/2017, introdotto all’art. 603 cod. proc. pen. il comma 3-bis a norma del quale, nel «caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale».
Orbene, in ordine a quanto previsto da questa normativa, si metteva in risalto il fatto che, dalla lettura sia dei lavori parlamentari, che della Relazione governativa, si desumeva, in modo pacifico, come il legislatore avesse inteso recepire, normandolo, il consolidato principio di diritto enunciato dalla Corte EDU con la sentenza Dan c. Moldavia alla quale fecero seguito le citate Sezioni Unite Dasgupta e Patalano e si era quindi data una soluzione ex lege alla problematica della modalità con la quale si deve tutelare il contraddittorio nell’ipotesi in cui sia appellata una sentenza di assoluzione essendo stato stabilito che, relativamente a questa ristretta ipotesi, il contraddittorio dev’essere implementato con il principio dell’oralità anche in appello perché questo è il metodo epistemologico più corretto ed idoneo a superare l’intrinseca contraddittorietà fra due sentenze che, pur sulla base dello stesso materiale probatorio, giungano ad opposte conclusioni.
La ratio legis, ad avviso della Corte, andava rinvenuta, pertanto, nella tutela del contraddittorio posto che, «dal lato dell’imputato assolto in primo grado, la mancata rinnovazione della prova dichiarativa precedentemente assunta sacrifica un’efficace confutazione delle argomentazioni svolte nell’appello del pubblico ministero che possa trarre argomenti dall’interlocuzione diretta con la fonte le cui affermazioni siano poste a sostegno della tesi di accusa» (Sez. U. Dasgupta).
Detto questo, gli ermellini, una volta dedotto che, sebbene l’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen. non fosse ancora in vigore al momento del fatto per cui è processo, la nuova regola non potesse non costituire l’ineludibile punto di riferimento per la soluzione dei casi controversi – come quello in esame – tanto più ove si consideri che era stata “anticipata“, a livello interpretativo, dalle sentenze Dasgupta e Patalano, osservavano come la norma – avendo evidente natura eccezionale rispetto alle previsioni di cui ai precedenti commi, ed essendo, quindi, di stretta interpretazione – avesse sì introdotto una nuova ipotesi di ammissione d’ufficio delle prove (art. 190, comma 2, cod. proc. pen.), ma l’avesse disciplinata limitando l’obbligo (“dispone“) di rinnovazione dell’istruttoria alle seguenti condizioni: a) che il soggetto impugnante sia il pubblico ministero (non, quindi, la parte civile); b) che oggetto dell’impugnazione sia una sentenza di condanna che il giudice di appello riformi in pejus (e non viceversa); c) che i motivi di appello siano “attinenti alla valutazione della prova dichiarativa“: dal che si desume, ad opinione della Corte, che la regola implicita secondo la quale il giudice di appello ha l’obbligo di rinnovare l’istruttoria solo nel caso in cui intenda riformare in pejus la sentenza impugnata basandosi esclusivamente su una diversa valutazione – rispetto a quella effettuata dal primo giudice – della prova dichiarativa che abbia carattere di decisività.
Tal che se ne faceva conseguire come – fermo il principio della motivazione rafforzata – si fosse passati, gradualmente, dalla soluzione prospettata dalle Sez. U. Andreotti e Mannino, fondata sull’interpretazione evolutiva del diritto interno, a quella delle Sez. U. Dasgupta, basata sul diritto comunitario, a quella, infine, sancita da una espressa norma di legge che aveva recepito il consolidato principio di diritto enunciato dalla Corte EDU nella sentenza Dan c. Moldavia.
Conclusa anche la disamina di tale precetto normativo, il Supremo Consesso rilevava come il contrasto derivasse da un diverso approccio alla questione dell’applicabilità anche al perito e al consulente tecnico della regola ora codificata nel comma 3-bis dell’art. 603 cod. proc. pen..
A tal proposito si faceva presente, per un verso, che la tesi favorevole alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale parte dal presupposto che le dichiarazioni dei periti e dei consulenti – assimilabili alle dichiarazioni testimoniali – abbiano natura dichiarativa e, quindi, come tali, siano soggette, in caso di divergente valutazione da parte dei giudici di merito, all’obbligo di rinnovazione del dibattimento in appello ove la Corte intenda riformare in pejus la sentenza assolutoria di primo grado, per altro verso, che la tesi opposta, invece, pur non negando la qualità di teste del perito (e del consulente tecnico), ne enfatizza, però, il ruolo peculiare di soggetto processuale del quale il giudice è chiamato a valutare non l’attendibilità e la credibilità – come per i testimoni “puri“, “assistiti” o “connessi” – ma il diverso profilo dell’affidabilità scientifica del metodo seguito e, quindi, le ragioni per cui ritiene preferibile la tesi del perito piuttosto che un’altra e dunque quest’ultima tesi, a parere della Cassazione, costituisce il corollario di quella giurisprudenza secondo la quale la perizia è una prova “neutra” e, quindi, non potendo avere, per assioma, valenza decisiva, non può essere impugnata con il ricorso per cassazione neppure nei ristretti limiti di cui all’art. 606, comma 1, lett. d) cod. proc. pen. ma solo sotto il profilo motivazionale nel senso che la Corte di cassazione – non potendo interloquire sulla maggiore o minore attendibilità scientifica degli apporti scientifici esaminati dal giudice, ossia stabilire se la tesi accolta dal giudice di merito sia esatta o meno – deve limitarsi solo a verificare se la soluzione prospettata sia spiegata in modo razionale e logico (in terminis, Sez. 4, n. 22022 del 22/02/2018, omissis, Rv. 273586; Sez. 4, n. 15493 del 10/03/2016, omissis, Rv. 266787; Sez. 5, n. 6754 del 07/10/2014, dep. 2015, C., Rv 262722).
Chiarito ciò, si evidenziava inoltre che, se il sintagma il “prova dichiarativa” di cui al comma 3-bis dell’art. 603 cod. proc. pen. era stato introdotto, per la prima volta, nel codice di procedura penale dall’art. 1 comma 58 della legge 23 giugno 2017 n. 107, la legge non specifica né chiarisce cosa si debba intendere per “prova dichiarativa” e, di conseguenza, poiché la nuova norma ruota sul suddetto sintagma, la Corte reputava opportuno darne una definizione e stabilire, quindi, quale sia il suo campo di applicazione.
Si faceva presente a tal riguardo che alle prove il codice di procedura penale dedica l’intero libro terzo nell’ambito del quale è possibile individuare, ai fini della problematica in esame, i seguenti tre elementi essenziali: 1) l’oggetto della prova: l’art. 187 cod. proc. pen., a tal proposito, stabilisce che oggetto della prova sono, fra gli altri, “i fatti che si riferiscono all’imputazione“: quindi, elemento di prova diventa quel fatto che, una volta veicolato legittimamente nel processo (art. 191 cod. proc. pen.), può essere utilizzato dal giudice per la decisione (art. 546 lett. e) cod. proc. pen.); 2) la fonte della prova: è il soggetto o l’oggetto da cui l’elemento di prova deriva; 3) i mezzi di prova (artt. 194-243 cod. proc. pen.) che «si caratterizzano per l’attitudine ad offrire al giudice risultanze direttamente utilizzabili per la decisione» mentre al contrario i mezzi di ricerca prova (artt. 244-271 cod. proc. pen.) «non sono di per sé fonte di convincimento ma rendono possibile acquisire cose materiali, tracce o dichiarazioni dotate di attitudine probatoria [….]» (Relazione al Progetto preliminare del codice di procedura penale, 81).
Viceversa, per quel che riguarda le modalità di assunzione e per la fonte da cui provengono, i mezzi di prova possono distinguersi in: a) prova proveniente da un soggetto le cui informazioni – nel contraddittorio delle parti – vengono trasmesse attraverso il linguaggio verbale (testimonianza; esame delle parti; confronti; ricognizioni); b) prova proveniente da «scritti o altri documenti che rappresentano fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografie, la fonografia o qualsiasi altro mezzo» (art. 234 cod. proc. pen.); c) prova finalizzata a ricostruire un fatto (esperimenti giudiziali) o “a svolgere indagini o acquisire dati o valutazioni” (perizia); d) prova acquisita al dibattimento o attraverso il linguaggio verbale (mezzi di prova sub a) o attraverso segni non verbali (scrittura: mezzi di prova sub b) o attraverso entrambe le modalità (perizia e consulenza).
Una volta spiegati questi concetti generali, la Suprema Corte postulava come la nozione di “prova dichiarativa” non potesse che essere data dopo avere chiarito quali siano la funzione e la modalità di espletamento dei singoli istituti oggetto del presente procedimento e cioè della perizia e della consulenza.
Di conseguenza, gli ermellini consideravano come l’art. 220 cod. proc. pen., disponga che la perizia può avere ad oggetto alternativamente: a) indagini; b) acquisizioni di dati; c) valutazioni.
A sua volta il presupposto, perché il giudice possa ordinare una perizia, è che le suddette operazioni richiedano “specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche” mentre, quanto alle modalità con le quali il perito deve rispondere al quesito – previo l’impegno, ex art. 226, comma 1, cod. proc. pen., che deve prestare al momento del conferimento dell’incarico – l’art. 227 cod. proc. pen. prevede due possibilità: a) la risposta orale immediata a norma del primo comma; b) la risposta a mezzo di una relazione scritta – da depositarsi entro il termine stabilito dal giudice – nel solo caso di “accertamenti di particolare complessità” (commi quarto e quinto): il che, però, ad avviso della Corte, non significa omissione del contraddittorio ma solo differimento del medesimo in quanto, a norma del combinato disposto degli artt. 501-511 cod. proc. pen., la relazione è letta ed acquisita agli atti dell’istruttoria dibattimentale solo dopo che il perito sia stato esaminato nel contraddittorio delle parti (Sez. 4, n. 36613 del 03/10/2006, omissis, Rv 235374).
Per l’esame del perito, l’art. 501 cod. proc. pen. a sua volta dispone che «si osservano le disposizioni sull’esame dei testimoni in quanto applicabili»: il che consente di affermare, sempre a detta della Corte, che la disciplina codicistica ha assimilato – nel suo nucleo essenziale – il perito al testimone, come si può desumere: I) dalla sedes materiae, ossia dalla circostanza che sia la testimonianza che la perizia sono considerate “mezzi di prova“; II) dall’impegno che sia il perito (art. 226 cod. proc. pen.) che il testimone (art. 497 cod. proc. pen.) devono assumere, impegni che si differenziano solo per la diversità dell’oggetto su cui deve vertere il narrato; III) dalle conseguenze penali in caso di falsa testimonianza (art. 372 cod. pen.) o di falsa perizia o interpretazione (art. 373 cod. pen.); IV) dalle modalità dell’esame per le quali l’art. 501 cod. proc. pen. rinvia alle “disposizioni sull’esame dei testimoni in quanto applicabili“: quindi, esame incrociato ex art 498 cod. proc. pen. posto che l’art. 468, comma 1, cod. proc. pen. stabilisce che le parti che intendano chiedere l’esame dei periti devono inserirli nelle proprie liste testi; possibilità di un confronto, ex art. 211 cod. proc. pen. fra perito e consulenti di parte (in terminis, Sez. 1, n. 34947 del 24/05/2006, omissis, Rv. 235253); contestazioni ex art. 500 cod. proc. pen. ove siano intese a stigmatizzare contraddizioni o lacune espositive di natura fattuale e valutative sia rispetto a quanto affermato nel corso dell’esame sia rispetto a quanto scritto nella relazione previamente depositata.
Posto ciò, una volta asserito che il perito, in ambito processuale, può rivestire ruoli polivalenti potendo essere chiamato a svolgere sia accertamenti (indagini; acquisizione di dati probatori: cd attività percipiente) che valutazioni (cd. attività deducente): ed è per questa sua peculiarità che viene denominato – in linea con la tradizione dei paesi di common law – anche “testimone esperto” (expert witness) perché, come il testimone, ha l’obbligo di riferire sui fatti sui quali viene esaminato, ma “esperto” perché, nel rispondere, si avvale delle sue competenze specialistiche, si denotava come fosse però, proprio per la centralità che spesso la perizia assume ai fini della decisione, che il legislatore ha congegnato lo svolgimento della perizia in modo che venga assicurata la garanzia del contraddittorio sia nella fase dello svolgimento dell’incarico peritale – concedendo alle parti la possibilità di nominare propri consulenti ex art. 225 cod. proc. perì. – sia nella fase dell’illustrazione dell’esito delle indagini laddove il perito sia sottoposto all’esame ex art. 501 cod. proc. pen. e quindi
è la garanzia del contraddittorio che, così come per l’esame del teste (artt. 498-500-514 cod. proc. pen.), costituisce l’elemento che caratterizza, dal punto di vista processuale, l’istituto della perizia e che depotenzia l’affermazione secondo la quale il perito – poiché esprime valutazioni “neutre” – non potrebbe essere assimilato al testimone.
Si considerava oltre tutto, in merito alla “neutralità” della perizia, come andasse, innanzitutto, osservato che la suddetta affermazione diventa problematica nei casi in cui al perito sia conferito l’incarico di “svolgere indagini o acquisire dati” e cioè quando deve compiere un’attività avente natura percettiva sulla quale, poi, ben può essere esaminato nel corso del dibattimento (in terminis, Sez. 4, n. 36736 del 27/04/2018, omissis) fermo restando che, anche ove al perito sia conferito l’incarico di effettuare solo “valutazioni“, secondo la Corte, sarebbe pur sempre arduo fissare una rigida linea di demarcazione fra il momento valutativo (che sarebbe caratteristica esclusiva della prova cd. critico-indiziaria) e quello rappresentativo (tipico della prova dichiarativa testimoniale) proprio perché la “valutazione” viene pur sempre richiesta su fatti che, spesso, il perito ha percepito nell’ambito dell’incarico affidatogli così come ritagliare alla perizia un limitato spazio processuale, facendo leva solo sulla sua supposta “neutralità“, sempre ad avviso della Corte, sarebbe inconferente laddove si consideri che nessuna prova è di per sé neutra (perché altrimenti sarebbe irrilevante) ma lo è solo nel momento in cui ne viene chiesta l’ammissione non potendosi in quella fase conoscersene l’esito, nel mentre diventa a favore o contro, una volta che sia espletata.
Tal che se ne faceva conseguire come considerare la perizia un’attività “neutra” fosse il frutto della sovrapposizione di diverse problematiche ossia, da una parte, l’idea che alcuni fenomeni possano essere indagati e trovare una risposta “certa” rivolgendosi al parere di un esperto e, dall’altra, che costui, in quanto “terzo” (artt. 222-223 cod. proc. pen.) – sia perché nominato dal giudice, sia perché, avendo anche assunto l’obbligo morale e giuridico di adempiere al suo ufficio “senza altro scopo che quello di far conoscere la verità” – non possa che rispondere in modo “neutro” al quesito demandatogli.
La Corte, in questa pronuncia, all’opposto, evidenziava che una cosa è la terzietà del perito, un’altra cosa sono le conclusioni alle quali egli perviene, vale a dire le norme che presidiano, da una parte, la “terzietà” del perito e, dall’altra, l’obbligo di rispettare l’impegno assunto, vanno rinvenute rispettivamente negli artt. 222-223-226 cod. proc. pen. e negli artt. 373-374-375 cod. pen. che, sul versante del diritto sostanziale, sanzionano tutte quelle condotte contrarie all’impegno assunto al momento del conferimento dell’incarico, e ciò proprio in ragione del fatto che tutta questa congerie di norme, che attiene al lato patologico della condotta del perito, si pone su un piano diverso rispetto a quello dell’attendibilità o opinabilità della tesi che il perito, in perfetta buona fede, ritenga di dovere sostenere e che può essere non solo contestata dalle parti nel corso dell’esame, ma anche motivatamente disattesa dal giudice all’esito del giudizio.
Da ciò se ne ricavava la considerazione alla stregua della quale se è vero che nessun metodo scientifico – per la sua intrinseca fallibilità – può dimostrare la verità di una legge scientifica, ne consegue, inevitabilmente, che anche la perizia non può essere considerata portatrice di una verità assoluta (e, quindi, “neutra“) tanto più in quei casi in cui il perito – del tutto legittimamente – sia fautore di una tesi scientifica piuttosto che di un’altra.
Ma se è così, non può non assumere un ruolo decisivo il contraddittorio orale attraverso il quale si verifica, nel dibattimento, l’attendibilità del perito, l’affidabilità del metodo scientifico utilizzato e la sua corretta applicazione alla concreta fattispecie processuale (in terminis, sentenze Cozzini e Cantore), operazioni tutte che consentono anche di distinguere le irrilevanti o false opinioni del perito (cd. junk science) dai pareri motivati sulla base di leggi e metodiche scientificamente sperimentate ed accreditate dalla comunità scientifica (in terminis, Sez. 5, n. 3552 del 09/02/1999, omissis, Rv. 213363 – 213366; Sez. 1, n. 45373 del 10/06/2013, omissis, Rv. 257895).
Precisato ciò, si denotava come tra l’altro la tesi della “neutralità” della perizia non potesse essere sostenuta neppure facendo leva sul principio giurisprudenziale secondo il quale «la mancata effettuazione di un accertamento peritale (nella specie sulla capacità a testimoniare di un minore vittima di violenza sessuale) non può costituire motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. d), cod. proc. pen. in quanto la perizia non può farsi rientrare nel concetto di prova decisiva trattandosi di un mezzo di prova “neutro” sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità del giudice laddove l’articolo citato, attraverso il richiamo all’art. 495, comma 2, cod. proc. pen., si riferisce esclusivamente alle prove a discarico che abbiano carattere di decisività» (ex plurimis, Sez. U., n. 39746 del 23/03/2017, A., Rv 270936) tanto più se si considera, come faceva presente la Cassazione in questo arresto giurisprudenziale, il quesito di diritto oggetto del presente giudizio non riguarda la questione se l’imputato abbia o meno il diritto alla controprova a mezzo di una perizia ma il diverso problema se, in grado di appello, debba essere rinnovata l’istruttoria e, quindi, garantito il contraddittorio limitatamente ad una perizia, già ammessa ed espletata nel giudizio di primo grado e ritenuta decisiva per l’assoluzione dell’imputato, ma che il giudice di appello valuta, all’opposto, in senso accusatorio.
Chiarito ciò, i giudici di legittimità ordinaria sottolineavano come, pure secondo la giurisprudenza europea, il perito è equiparabile al testimone posto che, da un lato, la Corte EDU ha costantemente affermato che al perito – pur rivestendo un ruolo diverso da quello del testimone, dovendo qualificarsi come “testimone esperto” – si applicano le regole del giusto processo (ex plurimis, Poletan e Azirovik c. Macedonia del 12/05/2016; Matytsina c. Russia, 27/03/2014; Sara Lind c. Islanda del 05/07/2007; Stoimenov c. Macedonia del 05/04/2007; G.B. c. Francia del 02/01/2002; Mantovanelli c. Francia del 18/03/1997; Doorson c. Paesi bassi del 26/03/2006; Brandstetter c. Austria del 28/08/1991; Bónisch c. Austria del 06/05/1985), dall’altro, se l’art. 6.3 lett. d) della Convenzione si riferisce, testualmente, ai soli “testimoni” e non anche ai periti, la Corte EDU – dopo essersi posta expressis verbis la questione – ha avuto tuttavia cura di precisare che «[…] in ogni caso le garanzie di cui al paragrafo 3 (articolo 6.3.) sono elementi costitutivi, tra gli altri, del concetto di giusto processo di cui al paragrafo 1 (art. 6.1.)»: Brandstetter c. Austria § 42; principio questo già affermato nella sentenza Bónisch c. Austria (§§ 31-32) e ribadito, poi, con la sentenza Poletan e Azirovik c. Macedonia (§ 94) secondo la quale «[…] Ciò che è decisivo, tuttavia, è la posizione occupata dagli esperti nel corso del procedimento, il modo in cui hanno svolto le loro funzioni e il modo in cui i giudici hanno valutato il parere degli esperti. Nell’accertare la posizione procedurale degli esperti e il loro ruolo nel procedimento, non si deve perdere di vista il fatto che il parere di un esperto nominato dal tribunale può avere un peso significativo nella valutazione da parte del tribunale delle questioni nell’ambito della competenza di tale esperto (vedi Shulepova c. Russia, n. 34449/03, § 62, 11 dicembre 2008)».
Quindi, secondo l’interpretazione che la Corte EDU ha dato dell’art. 6.3, lett. d), CEDU, le garanzie previste per i “testimoni” vanno estese e si applicano anche agli “esperti” e, in particolare, ad avviso della Corte EDU, il principio della parità delle armi comporta, relativamente ai “testimoni esperti“: I) il diritto di partecipare alla formazione della prova in tutte le sue fasi; l’audizione di persone che possono essere chiamate, a qualsiasi titolo, dalla parte che vi abbia interesse a sostenere la propria tesi (Doorson c. Paesi Bassi §§ 81-82; II) la possibilità di nominare un “contro-esperto“: Bónisch c. Austria); III) la possibilità di partecipare all’esame delle persone (cross examination) sentite dal perito; il diritto di prendere cognizione tempestivamente dei documenti utilizzati dal perito al fine di poterli valutare (Mantovanelli c. Francia); IV) il diritto di esaminare direttamente i periti (Matytsina c. Russia; Poletan e Azirovik c. Macedonia); V) la violazione del diritto di difesa e, quindi del giusto processo nel caso in cui: il giudice neghi immotivatamente il diritto della parte di chiedere una controperizia, quando il perito, in sede dibattimentale, muti radicalmente l’opinione che aveva espresso nella relazione scritta; il Collegio peritale sia formato in maggioranza da professionisti dipendenti dalla struttura chiamata a rispondere dei danni subiti dalla persona offesa (G.B. c. Francia).
Tal che se ne faceva discendere come la giurisprudenza europea abbia confermato che le regole del “giusto processo” si applicano anche ai “testimoni esperti” laddove costoro, come i testimoni “comuni“, abbiano un “peso significativo” nella decisione assunta dal giudice (Poletan e Azirovik c. Macedonia).
Ad avviso della Corte, dunque, l’avere appurato che il perito dev’essere assimilato, sia pure cum grano salis, al testimone, consentiva di risolvere il quesito centrale e cioè se nel concetto di “prova dichiarativa” potesse essere ricompresa anche la perizia.
Si notava al riguardo come la dottrina distingua la testimonianza dalla perizia sotto il profilo contenutistico nel senso che il testimone espone un fatto che ha percepito mentre il perito valuta un fatto e dà di esso una spiegazione avvalendosi delle sue competenze tecniche, scientifiche o artistiche e, sulla base di questa distinzione, per un verso, la prova avente ad oggetto la testimonianza è stata catalogata come rappresentativa-dichiarativa, per altro verso, la perizia è stata classificata come prova critica-tecnica.
Detto ciò, i giudici di piazza Cavour mettevano in evidenza il fatto che, proprio partendo da questa suddivisione di natura dottrinaria, una parte della giurisprudenza della Cassazione (Sez. 5, n. 1691 del 14/09/2016, omissis, cit.; Sez. 3, n. 57863 del 18/10/2017, omissis) dubita che anche la perizia possa essere fatta rientrare nell’ambito della prova dichiarativa.
Orbene, la Suprema Corte, nella decisione in commento, stimava non condivisibile la suddetta opinione per le seguenti ragioni.
Si rilevava prima di tutto come, a livello normativo, andasse, innanzitutto, osservato che la testimonianza e la perizia sono classificate entrambe come “mezzi di prova” ed il perito è assimilabile al testimone deducendosi al contempo, una volta dedotto che il dato oggettivo, che accomuna i due mezzi di prova, è la circostanza che sia il testimone che il perito trasmettono le informazioni di cui sono a conoscenza nel corso del dibattimento davanti ad un giudice nel contraddittorio delle parti avvalendosi del linguaggio verbale ossia di quel mezzo di comunicazione che attua e garantisce i principi di oralità ed immediatezza che sono alla base dell’introduzione del comma 3-bis dell’art. 603 cod. proc. pen., che per l’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen., l’ulteriore requisito qualificante, ai fini della rinnovazione dell’istruttoria, non è il contenuto delle dichiarazioni (e cioè se abbiano natura percettiva o valutativa) quanto che quelle dichiarazioni siano decisive ai fini dell’assoluzione dell’imputato all’esito del giudizio di primo grado: ma, la decisività – come ritenuto anche dalla Corte EDU nella sentenza Poletan – non è una prerogativa della sola testimonianza (prova percettiva) ma anche della perizia (prova valutativa) a nulla rilevando la considerazione secondo la quale la posizione del perito (e dei consulenti tecnici) «non è totalmente assimilabile al concetto di “prova dichiarativa” espresso nella sentenza Dasgupta» perché «la relazione forma parte integrante della deposizione ed inoltre essi sono chiamati a formulare un parere tecnico» (Sez. 5, n. 1691 del 14/09/2016, omissis) che il giudice può motivatamente accogliere o disattendere confutando, contestualmente, la tesi opposta (Sez. 3, n. 57863 del 18/10/2017, omissis) essendo stato osservato, in senso contrario, come sia irrilevante che il perito abbia depositato una relazione scritta che, all’esito dell’esame – essendo acquisita agli atti – diventa utilizzabile a tutti gli effetti posto che quella relazione, benché scritta, resta convalidata dalle dichiarazioni rese dal perito nel corso del dibattimento sicchè, essendo a lui riconducibile, diventa parte integrante dell’esame al quale è stato sottoposto (in terminis, Sez. 4, n. 36736 del 27/04/2018, omissis).
In altri termini, ad avviso della Corte, ai ristretti fini di cui all’art. 603, comma 3 bis, cod. proc. pen. (rinnovazione dell’istruttoria), l’attenzione va focalizzata non tanto sul contenuto, quanto sull’effetto che le dichiarazioni del perito hanno sulla decisione sicchè, ove siano ritenute decisive ai fini dell’assoluzione dell’imputato, esse vanno considerate come una prova dichiarativa a tutti gli effetti e, quindi, anche ad esse va applicato il principio secondo il quale il giudice di appello non può, sulla base di una diversa valutazione, porle a fondamento di una sentenza di riforma in pejus.
Tal che se ne faceva discendere come dovesse ritenersi confutabile e confutato il nucleo centrale della motivazione con la quale la tesi, qui non condivisa, ha sostenuto che «non si tratta di stabilire l’attendibilità del dichiarante e la credibilità del racconto sotto il profilo della congruenza, linearità e assenza di elementi perturbatori dell’attendibilità, ma di valutare la deposizione del perito alla luce dell’indirizzo ermeneutico in tema di valutazione della prova scientifica secondo cui, in virtù dei principi del libero convincimento del giudice e di insussistenza di una prova legale o di una graduazione delle prove, il giudice ha la possibilità di scegliere, fra le varie tesi scientifiche prospettate da differenti periti di ufficio e consulenti di parte, quella che ritiene condivisibile, purchè dia conto, con motivazione accurata ed approfondita delle ragioni del suo dissenso o della scelta operata e dimostri di essersi soffermato sulle tesi che ha ritenuto di disattendere e confuti in modo specifico le deduzioni contrarie delle parti, sicchè, ove una simile valutazione sia stata effettuata in maniera congrua in sede di merito, non è sindacabile dal giudice di legittimità» (Sez. 3, n. 57863 del 18/10/2017, omissis) visto che l’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen. non mette in discussione né il principio del libero convincimento, né quello della insindacabilità, in sede di cassazione, della suddetta decisione limitandosi solo a stabilire la modalità con la quale il giudice di appello può giungere ad una diversa valutazione della prova dichiarativa dalla quale consegua la riforma dell’assoluzione di primo grado: per il nuovo comma 3-bis, dunque, ciò che è essenziale è che il giudice di appello, ove ritenga di dare una lettura diversa della suddetta prova, abbia l’obbligo (non più la facoltà) di rinnovare l’istruttoria perché solo tale metodo è stato ritenuto idoneo a dissipare i dubbi e le incertezze insorti sulla colpevolezza dell’imputato: libero, poi, il giudice di appello, una volta rinnovata l’istruttoria, anche di andare in contrario avviso del giudice di primo grado e, quindi, di condannare l’imputato fornendo una motivazione (rafforzata) che, ove sia congrua e coerente con la prova espletata, resta incensurabile in sede di legittimità.
La Corte di Cassazione, pertanto, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, giungeva a postulare come la prova dichiarativa, agli effetti di cui all’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen., debba avere le seguenti caratteristiche: a) deve trattarsi di prova che può avere ad oggetto sia dichiarazioni percettive che valutative perché la norma non consente interpretazioni restrittive di alcun genere; b) dev’essere espletata a mezzo del linguaggio orale (testimonianza; esame delle parti; confronti; ricognizioni), perché questo è l’unico mezzo che garantisce ed attua i principi di oralità ed immediatezza: di conseguenza, in essa non possono essere ricompresi quei mezzi di prova che si limitano a veicolare l’informazione nel processo attraverso scritti o altri documenti (art. 234 cod. proc. pen.); c) dev’essere decisiva essendo stata posta dal giudice di primo grado a fondamento dell’assoluzione precisandosi al contempo che, relativamente al concetto di decisività, non restasse che ribadire quanto, sul punto, già affermato da Sez. U. Dasgupta, secondo le quali «[….] ai fini della valutazione del giudice di appello investito di una impugnazione del pubblico ministero avverso una sentenza di assoluzione, devono ritenersi prove dichiarative “decisive” quelle che, sulla base della sentenza di primo grado, hanno determinato o anche soltanto contribuito a determinare un esito liberatorio, e che, pur in presenza di altre fonti probatorie di diversa natura, se espunte dal complesso del materiale probatorio, si rivelano potenzialmente idonee a incidere sull’esito del giudizio di appello, nell’alternativa “proscioglimento-condanna”. Appaiono parimenti “decisive” quelle prove dichiarative che, ritenute di scarso o nullo valore probatorio dal primo giudice, siano, nella prospettiva dell’appellante, rilevanti, da sole o insieme ad altri elementi di prova, ai fini dell’esito di condanna. Non potrebbe invece ritenersi “decisivo” un apporto dichiarativo il cui valore probatorio, che in sè considerato non possa formare oggetto di diversificate valutazioni tra primo e secondo grado, si combini con fonti di prova di diversa natura non adeguatamente valorizzate o erroneamente considerate o addirittura pretermesse dal primo giudice, ricevendo soltanto da queste, nella valutazione del giudice di appello, un significato risolutivo ai fini dell’affermazione della responsabilità [….]»; d) di essa il giudice di appello deve dare una diversa valutazione.
Da ciò se ne faceva discendere la conclusione secondo la quale solo ove sussistano, congiuntamente, tutte le suddette condizioni, il giudice di appello ha l’obbligo di rinnovare l’istruttoria e quindi, per prova dichiarativa, deve intendersi quell’atto comunicativo con il quale un emittente trasmette, attraverso il linguaggio verbale, fatti percettivi o valutazioni di cui sia a conoscenza e che siano rilevanti ai fini della decisione e di conseguenza, ove risulti decisiva, il giudice di appello – nel caso di riforma della sentenza di assoluzione sulla base di un diverso apprezzamento della medesima – ha l’obbligo di procedere alla rinnovazione dibattimentale tramite l’esame del suddetto emittente.
La definizione di prova dichiarativa, fornita in questa pronuncia, comporta, sempre ad avviso della Corte, una ulteriore conseguenza ossia l’applicabilità dell’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen. non solo alla testimonianza ma anche all’esame del perito.
Si evidenziava a tal riguardo come il testo legislativo, nella sua asettica onnicomprensività, non consenta un’interpretazione che restringa l’obbligo di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale alle sole dichiarazioni testimoniali con esclusione di quelle del perito tanto più ove si consideri che non vi è alcuna ragione per cui la ratio sottostante all’implementazione del principio del contraddittorio (di cui sono espressione l’oralità e l’immediatezza) non debba valere per entrambe le ipotesi poichè entrambe sono prove espletate a mezzo del linguaggio verbale ed entrambe si possono prestare ad essere diversamente valutate nei diversi gradi del giudizio di merito così come esse possono essere decisive per assolvere o condannare l’imputato precisandosi però al contempo che la rinnovazione dell’istruttoria in appello non significa la rinnovazione sempre e comunque anche della perizia ma comporta solo che il giudice di appello, individuati i punti critici della relazione peritale, ha l’obbligo di convocare il perito ed esaminarlo, nel contraddittorio orale delle parti, su quei punti secondo le stesse modalità previste nel giudizio di primo grado dall’art. 501 cod. proc. pen..
A fronte di ciò, si osservava però come la relazione peritale possa essere semplicemente letta – senza che il perito sia esaminato – ove vi sia l’accordo delle parti in base al combinato disposto degli artt. 495, comma 4-bis, e 511, comma 2, cod. proc. pen. (in terminis, Sez. 1, n. 3491 del 31/01/2000, omissis, Rv. 215515) ovvero quando di essa sia data lettura senza il consenso delle parti le quali, non avendo tempestivamente eccepito la nullità, ne determinino la sanatoria ex art. 183, comma 1, lett. a) cod. proc. pen. (ex plurimis, Sez. 3, n. 35497 del 10/05/2016, omissis, Rv. 267637) fermo restando che tale metodo di acquisizione ed utilizzazione della prova trova, innanzitutto, copertura costituzionale nell’art. 111, comma quinto, Cost. a norma del quale «la legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell’imputato [….1» ed è legittimo anche alla stregua della giurisprudenza europea che, con decisioni costanti, ritiene che la parte possa rinunciare al diritto fondamentale del contraddittorio (Corte EDU, 26/04/2007, Vozhigov c. Russia § 57), ove la rinuncia (espressa o implicita purchè, in questo caso, “inequivoca“: Corte EDU Gr. Ch. 17/09/2009, Scoppola c. Italia § 135) sia volontaria e consapevole e cioè ove la parte sia stata adeguatamente informata sugli effetti giuridici derivante dall’atto abdicativo (Corte EDU, 24/04/2012, Sibgatullin c. Russia § 48), e questo non si ponga in contrasto con un “interesse pubblico” (Corte EDU Scoppola c. Italia; Corte EDU Kashlev c. Estonia, 26/04/2016; Corte EDU, 26/09/2017 Fornataro c. Italia; Corte EDU 23/11/1993, Poitrimol c. Francia § 35).
Pertanto, alla luce di ciò, il dato processuale rilevante – nella suddetta ipotesi – andava, quindi, rinvenuto, a opinione del Supremo Consesso, nella circostanza che la relazione peritale è veicolata nel processo attraverso la sola scrittura: di conseguenza, poiché il contraddittorio, per volontà delle stesse parti, si attua nella sola forma cartolare, deve ritenersi non applicabile la regola della rinnovazione obbligatoria del dibattimento di cui all’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen. in quanto – costituendo un’eccezione alla regola stabilita nel precedente comma 3 – è riservata, in modo tassativo, alle sole prove dichiarative ossia a quelle prove in cui l’informazione è veicolata nel processo attraverso il linguaggio verbale.
Tale diversità di soluzione, inoltre, sempre secondo la Corte, ha una sua razionalità nel senso che, se è comprensibile la ragione per cui il legislatore ha stabilito l’obbligo di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, obbligando il giudice di appello, prima di condannare l’imputato assolto, a ripetere la prova dichiarativa (l’esame del perito) al fine di chiarire e dissipare i dubbi insorti sulla diversa valutazione di quella prova, uguale ragione non è rinvenibile nell’ipotesi in cui ci si trovi di fronte all’acquisizione di un semplice atto scritto (la relazione peritale) su cui non vi è mai stato alcun contraddittorio orale atteso che, in quest’ultima ipotesi, non si tratterebbe più di rinnovare il medesimo atto istruttorio svolto nel giudizio di primo grado ma di compiere, ex novo, un diverso atto istruttorio (esame del perito) al quale le parti avevano rinunciato fermo restando che nulla impedisce al giudice di appello, ove lo ritenga “assolutamente necessario“, di citare d’ufficio il perito al fine di sottoporlo ad esame: ma si tratta, non di un obbligo, ex art. 603, comma 3-bis, c.p.p. ma di una facoltà esercitabile nei limiti di cui all’art. 603, comma 3, cod. proc. pen. tenuto conto altresì del fatto che una soluzione di tal genere non si pone in contrasto con il principio di diritto affermato con la sentenza Patalano secondo cui «è affetta da vizio di motivazione, per mancato rispetto del canone di giudizio “al di là di ogni ragionevole dubbio”, la sentenza di appello che, su impugnazione del pubblico ministero, affermi la responsabilità dell’imputato, in riforma di una sentenza assolutoria emessa all’esito di un giudizio abbreviato non condizionato, operando una diversa valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, senza che nel giudizio di appello si sia proceduto all’esame delle persone che abbiano reso tali dichiarazioni» dato che, nella suddetta fattispecie, la rinnovazione ha ad oggetto la verbalizzazione di dichiarazioni rese da persone informate sui fatti nel corso delle indagini preliminari e, quindi, sostanzialmente, di informazioni veicolate nel processo pur sempre a mezzo del linguaggio verbale e che, al momento della decisione, vengono valutate dal giudice di primo grado in senso assolutorio e, dal giudice di appello, in senso accusatorio.
Diversa è, invece, secondo la Corte, la situazione in esame in cui non vi è alcuna “dichiarazione” del perito ma solo una relazione da questi scritta sui quesiti assegnatigli e, sulla quale il contraddittorio, si attiva solo cartolarmente attraverso il deposito di eventuali memorie tecniche di parte stante il fatto che, in tale situazione, il giudice di appello non può che decidere basandosi su quella prova ab origine cartolare, acquisita come tale nel processo per volontà delle stesse parti e sulla quale il contraddittorio si è svolto solo cartolarmente sia in primo grado che in appello ove, a fronte dell’impugnazione proposta dal pubblico ministero, l’imputato assolto abbia ritenuto di replicare con atti difensivi di natura tecnica.
Si evidenziava oltre tutto che la suddetta regola, d’altra parte, non si ponesse in contrasto neppure con quella della condanna “al di là di ogni ragionevole dubbio” là dove si consideri che la problematica della rinnovazione obbligatoria dell’istruttoria attiene a quella dell’ammissibilità delle prove (non a caso il legislatore l’ha inserita, con il comma 3-bis, nell’art. 603 cod. proc. pen.) nel mentre la regola di cui all’art. 533, comma 1, cod. proc. pen. opera a valle del processo e cioè nel momento della decisione, decisione che non può che essere presa sulla base del materiale probatorio legittimamente acquisito agli atti (nella specie: la sola relazione peritale) ed il cui controllo, in sede di legittimità, non può che avvenire verificando se la motivazione sia o meno affetta da alcuno dei vizi motivazionali di cui all’art. 606, c. 1, lett. e), cod. proc. pen..
Chiarito ciò, non restava per la Cassazione che esaminare la figura del consulente tecnico di parte.
Si faceva a tal proposito presente come, secondo la giurisprudenza elaborata in sede nomofilattica, fosse consolidato il principio di diritto secondo il quale il consulente tecnico va assimilato alla figura del testimone essendo stato ripetutamente affermato che, «in tema di istruzione dibattimentale, il giudice può legittimamente desumere elementi di prova dall’esame del consulente tecnico di cui le parti abbiano chiesto ed ottenuto l’ammissione, stante l’assimilazione della sua posizione a quella del testimone, senza necessità di dover disporre apposita perizia se, con adeguata e logica motivazione, dimostri che essa non è indispensabile per essere gli elementi forniti dall’ausiliario privi di incertezze, scientificamente corretti e basati su argomentazioni logiche e convincenti» (ex plurimis, Sez. 4, n. 25127 del 26/04/2018, omissis, Rv. 273406).
Posto ciò, una volta fatto presente che il consulente tecnico può essere nominato nell’ambito della perizia (cd. consulenza endoperitale) con la funzione di garantire il contraddittorio nella fase delle indagini (art. 230 cod. proc. pen.), oppure può essere nominato anche quando non vi sia stata la nomina di un perito (cd. consulenza extraperitale ex art. 233 cod. proc. pen.) con la funzione di «esporre al giudice il proprio parere anche presentando memorie a norma dell’art. 121», diritto che, in aderenza al principio del “difendersi cercando” (art. 111, comma terzo Cost.), è stato espressamente disciplinato all’art. 327-bis, comma 3, cod. proc. pen. e che dunque costui, così come il perito, può espletare il mandato conferitogli dalla parte, in due modi: a) oralmente, ove venga esaminato sulla base del combinato disposto degli artt. 468, commi 1, 2, e 501 cod. proc. pen.; b) per iscritto, ove si limiti ad esprimere il proprio parere a mezzo di memorie.
Si considerava oltre tutto come, pure per il consulente tecnico, ad avviso della Corte, potesse ripetersi, mutatis mutandis, ciò che era stato già scritto in tale pronuncia in relazione al perito ove il consulente sia esaminato ex art. 501 cod. proc. pen. e la sua dichiarazione sia posta dal giudice di primo grado a fondamento della sentenza assolutoria, nel senso che la suddetta dichiarazione va ritenuta, agli effetti di cui all’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen., “prova dichiarativa” con la conseguenza che, ove il giudice di appello ritenga di rivalutare in senso peggiorativo per l’imputato quelle dichiarazioni, costui ha l’obbligo giuridico di rinnovare l’istruttoria dibattimentale rilevandosi al contempo come tale conclusione non potesse essere contraddetta dalla diversità del ruolo svolto dal perito (nominato dal giudice e, quindi, “terzo“, soggetto a conseguenze anche penali) e dal consulente (nominato dalla parte e, portato, fisiologicamente, a parteggiare per essa, senza peraltro che possa temere conseguenze penali dal suo operato) e, quindi, dalla maggiore “oggettività” della perizia rispetto alla consulenza stante il fatto che, se alla base della sentenza di assoluzione venga posta proprio la consulenza di parte, ogni discussione sulla sua minore “oggettività” resta superata dalla decisione del giudice che evidentemente ha ritenuto l’apporto del consulente obiettivo ed affidabile e, comunque, maggiormente attendibile rispetto alla stessa perizia ove anche questa sia stata disposta.
Di conseguenza, ove la sentenza sia appellata, si ripropone la medesima situazione già illustrata in relazione alla perizia in quanto il giudice di appello si trova di fronte alla seguente alternativa: a) confermare la sentenza assolutoria senza obbligo di rinnovare l’istruttoria perché l’obbligo di rinnovazione è previsto solo ove il giudice di appello intenda riformare in pejus la sentenza di assoluzione; b) condannare l’imputato a fronte della sentenza assolutoria di primo grado: in tal caso, ha l’obbligo di rinnovare l’istruttoria.
Tal che alla stregua delle considerazioni sin qui esposte, gli ermellini addivenivano a formulare i seguenti principi di diritto:
«La dichiarazione resa dal perito nel corso del dibattimento costituisce una prova dichiarativa. Di conseguenza, ove risulti decisiva, il giudice di appello ha l’obbligo di procedere alla rinnovazione dibattimentale, nel caso di riforma della sentenza di assoluzione sulla base di un diverso apprezzamento di essa».
«Ove, nel giudizio di primo grado, della relazione peritale sia stata data la sola lettura senza esame del perito, il giudice di appello che, su impugnazione del pubblico ministero, condanni l’imputato assolto nel giudizio di primo grado, non ha l’obbligo di rinnovare l’istruzione dibattimentale attraverso l’esame del perito».
«Le dichiarazioni rese dal consulente tecnico oralmente, vanno ritenute prove dichiarative, sicchè, ove siano poste a fondamento dal giudice di primo grado della sentenza di assoluzione, il giudice di appello – nel caso di riforma della suddetta sentenza sulla base di un diverso apprezzamento delle medesime – ha l’obbligo di procedere alla rinnovazione dibattimentale tramite l’esame del consulente».
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Conclusioni
La sentenza in commento è sicuramente condivisibile in quanto il frutto di un complesso e ben argomentato ragionamento giuridico.
Posto ciò, alla luce dei principi di diritto enunciati in questo arresto giurisprudenziale, ne discende che: a) il giudice di appello ha l’obbligo di procedere alla rinnovazione dibattimentale, nel caso di riforma della sentenza di assoluzione sulla base di un diverso apprezzamento della dichiarazione resa dal perito nel corso del dibattimento, in quanto essa, costituendo una prova dichiarativa, ben può essere stimata come decisiva; b) il giudice di appello che, su impugnazione del pubblico ministero, condanni l’imputato assolto nel giudizio di primo grado, non ha l’obbligo di rinnovare l’istruzione dibattimentale attraverso l’esame del perito quando, nel giudizio di primo grado, della relazione peritale sia stata data la sola lettura senza esame del perito; c) il giudice di appello, nel caso di riforma della suddetta sentenza sulla base di un diverso apprezzamento delle medesime, ha l’obbligo di procedere alla rinnovazione dibattimentale tramite l’esame del consulente allorchè le dichiarazioni rese dal consulente tecnico siano poste a fondamento dal giudice di primo grado per emettere la sentenza di assoluzione.
Questi principi di diritto, dunque, non potranno non essere presi in considerazione dai giudici di seconde cure quando, in casi analoghi a quelli trattati in siffatta pronuncia, venga chiesta la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale.
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