1. Inquadramento generale della fattispecie di cui all’art. 416bis c.p.
Il delitto di associazione mafiosa, disciplinato ai sensi dell’art. 416bis c.p., è considerato il caposaldo del nostro sistema penale atto alla repressione della forma più grave di criminalità organizzata.
Ponendo l’accento sul dato normativo, il comma 1, si limita a prevedere la punibilità di chiunque faccia parte di un’associazione di tipo mafioso, facendo con ciò desumere che la mera partecipazione è condizione necessaria e sufficiente ai fini dell’integrazione del reato di cui all’art. 416bis c.p.
Tuttavia, tale formulazione non può rimanere scevra di conseguenze ermeneutiche pregiudizievoli.
La mancanza di tipizzazione della condotta partecipativa all’associazione finisce per allontanare la fattispecie dal modello di legalità formale costituzionalmente garantito, dando vita ad un modello di tipicità incompiuta o tipicità atipica. Tale conseguenza porta con sé il rischio di configurare il reato non come reato di azione, bensì come un reato di status, incentrato su una valutazione riferibile al reo piuttosto che all’associazione in quanto tale.
Sul punto è intervenuta, in un primo momento, la giurisprudenza con la sentenza Mannino. In tale sede, i giudici di legittimità hanno delineato i confini del concetto di partecipazione, inserendolo in un ambito dinamico-funzionalistico e, definendola come l’inserimento stabile e organico del soggetto all’interno della struttura associativa.
Orbene, successivi dubbi interpretativi sono sorti a causa della mancanza di relativi indici rivelatori della sussistenza della partecipazione effettiva al consorzio. Sul punto si delineano due diverse posizioni ermeneutiche: da un lato, si ritiene che ai fini della configurazione del reato di associazione di tipo mafioso, sia sufficiente l’affiliazione con modalità rituali. Tale posizione parte dall’assunto secondo il quale il reato di cui all’art. 416bis c.p. è un reato di pericolo presunto, con la conseguenza che si fini della realizzazione della lesione del bene giuridico tutelato, ossia l’ordine pubblico, è sufficiente la mera adesione al consorzio associativo; secondo un’altra prospettiva, l’affiliazione non è sufficiente di per sé a fondare un giudizio di responsabilità, ma occorre il compimento di specifici atti esecutivi del programma criminoso, ossia un riscontro concreto del ruolo attivo del soggetto all’interno dell’associazione.
Tal contrasto giurisprudenziale non appare ancora risolto, tuttavia sembrerebbe maggiormente condivisibile il primo orientamento, dal momento che l’affiliazione rappresenta di per sé un comportamento concludente, indice della volontà di adesione del soggetto alle dinamiche criminali, nonché idoneo ad accrescere le potenzialità intimidatorie del sodalizio.
2. Il metodo mafioso
Il nucleo fondamentale della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 416 bis c.p. si rinviene nel terzo comma, laddove il legislatore scolpisce metodo e finalità dell’associazione mafiosa, delineando così un reato associativo del tutto peculiare nel nostro panorama ordinamentale. Tale formulazione consente di collocare l’art. 416bis c.p. nei reati associativi a struttura mista, in contrapposizione ai reati associativi cd. puri, nel cui ambito ricade la fattispecie di cui all’art. 416 c.p. che disciplina l’associazione per delinquere di tipo comune. Invero, quest’ultima forma di reato associativo richiede, ai fini del suo perfezionamento, l’organizzazione plurisoggettiva e il programma criminoso, prescindendo dal metodo mafioso caratterizzante, invece, la tipologia di reati associativi a struttura mista.
Lungi dal rispondere ad esigenze meramente classificatorie, l’inquadramento dell’associazione di tipo mafioso in tale tipologia di reati è frutto di una non scontata interpretazione del dato letterale. Invero, l’accento posto sull’avvalimento della forza intimidatrice del vincolo associativo comporta la diretta conseguenza secondo la quale per integrare il tipo occorre riscontrare empiricamente che il sodalizio abbia dato effettivamente prova di possedere tale forza di essersene avvalso.
Sul piano costituzionalistico, il concepire il delitto associativo come reato a struttura mista grazie al riconoscimento di un quid pluris oggettivo che si aggiunge alla plurisoggettività organizzativa e al programma criminale, fa emergere con maggior fermezza i principi di offensività e di proporzione.
Un rigore punitivo come quello riservato agli autori dai quadri edittali previsti dall’art. 416 bis c.p. può trovare, infatti, una convincente giustificazione se oggetto del rimprovero penalistico è la responsabilità di alimentare un sodalizio che indipendentemente dalla realizzazione del programma associativo genera di per sé, per il sol fatto di esistere e operare, un danno per i cittadini che vi si imbattono, comprimendone la libertà morale a causa appunto dell’avvalimento della forza di intimidazione.
Dunque, è opportuno rilevare che sul versante dell’offensività, e quindi dell’individuazione dei beni giuridici tutelati, in giurisprudenza ricorre frequentemente un equivoco, non privo di ricadute concrete. Infatti, il delitto di associazione di tipo mafioso viene inserito nel novero dei reati di pericolo. In una simile ottica, il danno temuto e non necessariamente prodottosi per traguardare la soglia della punibilità, è riferito ai beni giuridici messi a repentaglio dalla futura realizzazione delle finalità programmatiche del sodalizio tipizzate dalla norma quali: l’ordine pubblico, la libertà di iniziativa economica in relazione all’acquisizione delle attività imprenditoriali, l’imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione con riferimento all’accaparramento di appalti e concessioni, la libertà di voto in ordine al condizionamento elettorale.
3. Reato di pericolo o reato di danno?
Ebbene, che le finalità programmatiche perseguite dal sodalizio criminale costituiscano la fonte di un pericolo incombente per la collettività, e che da questo punto di vista il delitto di associazione mafiosa va considerato un reato di pericolo, sono rilievi in sé non censurabili, ma l’equivoco è un altro: la giurisprudenza, enfatizzando la natura di reato di pericolo dell’associazione mafiosa, finisce per ignorare o addirittura escludere la dimensione del danno, attuale ed effettivo, connesso proprio al requisito di fattispecie oggettivamente inteso e incarnato nel metodo mafioso. Il che comporta il rischio che nella prassi applicativa il metodo mafioso perda di consistenza quale requisito oggettivo probatoriamente verificabile, per essere esplicitamente ricondotto nell’alveo delle ipotesi non riscontrabili empiricamente di quel modo di argomentare proprio delle fattispecie di pericolo che si snoda mediante prospettazioni prognostiche più che diagnostiche.
Alla luce di queste circostanze si deduce la necessità, alla luce dei principi di materialità e legalità ex art 25 Cost., del riscontro empirico della esteriorizzazione del metodo mafioso, senza che tale riscontro vada ad incidere sulla natura del reato. Occorre, dunque, ai fini dell’operatività della disposizione in esame, l’effettivo esercizio della forza di intimidazione e l’esistenza di una effettiva capacità di intimidazione oggetto di necessaria esteriorizzazione.
Orbene, l’esteriorizzazione del metodo mafioso non presuppone necessariamente il ricorso alla violenza o alla minaccia sicchè il legame del consorzio si presuppone essere solido, sì da rendere superfluo il compimento di atti violenti. Invero, trattasi di un reato a forma libera e come tale non richiede particolari modalità di esteriorizzazione, di tal che l’interprete dovrà effettuare una valutazione sul caso concreto ai fini della sussistenza del metodo mafioso.
4. Le nuove mafie
Gli schemi interpretativi sin qui delineati, con riferimento all’individuazione degli elementi integranti la fattispecie di cui all’art. 416bis c.p., sono stati messi indubbiamente in crisi nell’epoca contemporanea a causa del propagarsi del nuovo fenomeno delle cd. nuove mafie.
La questio iuris che interessa, riguarda, in particolare, la possibilità di ampliare o meno i limiti di applicabilità della norma incriminatrice, senza sfociare in un intervento analogico in malam partem, in violazione dell’art. 25 Cost., nonché del principio di uguaglianza ex art. 3 Cost.
Come noto, l’art. 416bis c.p. è stato introdotto quale strumento di contrasto delle mafie cd. storiche, fondanti le proprie radici in contesti territoriali propri di realtà ben definite, nelle quali il semplice richiamo alla nozione di mafia provoca una diretta reazione di intimidazione ed assoggettamento. Tuttavia, è da rilevare che l’ultimo comma dell’articolo in questione opera una estensione di punibilità anche ad altre associazioni, qualora si avvalgano del medesimo metodo.
Occorre fare riferimento all’espressione “nuove mafie”, con la quale si suole indicare associazioni criminose di recente genesi, non connesse alle tradizionali mafie presenti sul territorio nazionale.
Da tale espressione è necessario tenere ben distinta quella di mafie delocalizzate, la quale indica quelle cellule di associazioni mafiose operanti in contesti territoriali, culturali ed economici storicamente estranei al fenomeno mafioso. Le associazioni in questione si inseriscono nell’ambito del fenomeno di occupazione di territori una volta immuni da forme di manifestazione delinquenziale mafiosa, ad opera di sodalizi già ben consolidati in diverse realtà territoriali. Tali nuove realtà restano strettamente legate alla casa madre, da cui mutuano le stesse regole organizzative.
Nel fenomeno delle nuove mafie sono comprese le mafie straniere e le mafie autoctone. Il discrimine rispetto alle mafie storiche si ravvisa nella circostanza per cui, queste ultime, operano un controllo del territorio e delle attività economiche dello stesso, criteri insiti nel fenomeno della mafia tradizionale ma non richiesti come elementi essenziali ai fini dell’integrazione della fattispecie. Ciò che è necessario per qualificare il consorzio associativo ai sensi dell’art. 416bis c.p. è la forza di intimidazione che lo stesso esercita, anche solo potenzialmente, su un numero non determinato di soggetti. Sono queste le considerazioni che hanno condotto la giurisprudenza di legittimità ad estendere l’ambito di applicazione dell’art. 416bis c.p. anche alle nuove tipologie di mafia. La mafia nigeriana, la mafia cinese, la brigata romena, pur non avendo un’organizzazione tentacolare in grado di controllare le attività economiche sul territorio, godono di una capacità di intimidazione tale da condizionare, attraverso il metodo mafioso, un numero non determinato di soggetti, pur in un luogo territorialmente limitato.
L’operazione compiuta dalla giurisprudenza è della riduzione in scala del reato di cui all’art. 416bis c.p., concependo una forma di metodo mafioso in scala ridotta, ma pur sempre idonea a qualificarsi come tale.
5. Le mafie delocalizzate e considerazioni de iure condendo
Maggiormente annosa è la questione relativa alle mafie delocalizzate, intendendosi come tali le organizzazioni di ‘ndrangheta insediatesi al di fuori dei confini della Calabria, in particolare nel tessuto economico lombardo.
Vengono definite “mafie delocalizzate” poiché ciò che le caratterizza è lo spostamento del sodalizio il quale si radica attraverso un’articolazione periferica, cd. organizzazione satellite, in un’area territoriale diversa da quella in cui opera l’organizzazione madre, cd. cellula madre.
Il problema che si intende portare alla luce è se occorre verificare che l’associazione mafiosa abbia conseguito una capacità di intimidazione reale ed effettiva nel nuovo ambiente in cui opera, oppure se possa bastare anche soltanto che l’associazione in questione abbia conservato la forza di intimidazione già acquisita dalla cellula madre, ai fini della integrazione del reato di cui all’art. 416 bis c.p.. Sul punto si sono a lungo fronteggiati due diversi orientamenti.
Un primo orientamento sancisce la trasformazione del delitto di associazione mafiosa in reato associativo puro, in quanto ritiene sufficiente dimostrare il collegamento tra il gruppo criminale e la cellulare madre, senza quindi un riscontro effettivo dell’avvalimento della forza di intimidazione e del conseguente assoggettamento e omertà negli specifici contesti di insediamento. In tale prospettiva, tuttavia, si finisce per rendere del tutto irrilevante l’esteriorizzazione del metodo mafioso e ci si accontenta della potenziale capacità di intimidazione.
Il delitto andrebbe, dunque, a qualificarsi come “fattispecie dalla geometria variabile”, i cui elementi costituivi verrebbero ritenuti ora necessari, ora contingenti, a seconda della natura del sodalizio preso in considerazione.
Una siffatta concezione, inoltre, andrebbe ad equiparare ingiustificatamente, con precipuo riguardo alla dosimetria della pena, vicende criminali fortemente eterogenee, come le storiche consorterie attuanti il metodo mafioso per la realizzazione del loro programma criminale, a sodalizi criminali ricavanti la loro caratura mafiosa da un mero processo per relationem, non essendo ancora operative nel contesto di nuovo insediamento con le metodologie di cui all’art. 416 bis, comma 3, c.p.
Un secondo orientamento, mantenendosi fedele al modello di reato associativo a struttura mista, sostiene l’imprescindibilità dell’esteriorizzazione del metodo mafioso. In altri termini, affinché si configuri il reato di associazione di tipo mafioso, occorrerebbe necessariamente una manifestazione concreta della forma con cui si esteriorizza il metodo mafioso. Inizialmente la Cassazione, affrontando il problema, si era convinta che per la configurazione del reato di associazione mafiosa occorresse come requisito la prova del radicamento della struttura delocalizzata nel tessuto sociale di riferimento, secondo quanto previsto dalla definizione letterale della norma ex art. 416 bis c.p.
Di conseguenza, si doveva escludere la sussistenza di un metodo mafioso allorquando questo non fosse percepito o quantomeno non risultasse obiettivamente percepibile da una pluralità di soggetti posti paritariamente in condizione di avvertirne il peso nel tessuto sociale di riferimento.
Tuttavia, l’affermazione in forza della quale è sempre richiesta una capacità intimidatrice effettiva e concretamente riscontrabile ai fini del riconoscimento della natura mafiosa di una qualunque articolazione del sodalizio risulta ineccepibile. Non è, difatti, possibile immaginare una fattispecie associativa mafiosa in cui la consistenza del metodo di cui al comma 3 dell’art. 416 bis c.p. muti a seconda delle caratteristiche delle realtà criminali a cui deve essere applicato.
Anche qualora la natura dell’associazione sia quella di sodalizio delocalizzato, resta sempre imprescindibile la dimostrazione della effettiva sussistenza del metodo mafioso.
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