1) La vicenda processuale.
I coniugi P. A. e Pa. Mi, ciascuno per le proprie ragioni, chiedevano al Tribunale di Belluno emettersi sentenza di separazione con addebito nei confronti dell’altro coniuge. Il Tribunale, con sentenza n. 723 del 18 dicembre 2014, in accoglimento delle reciproche domande di addebito, pronunciava la separazione fra i coniugi disponendo: 1) l’affidamento della figlia minore B. ai Servizi Sociali territorialmente competenti in relazione alla residenza della figlia, fissata presso la madre, regolamentando le visite e le permanenze della bambina con il padre, genitore non convivente; 2) l’assegnazione della casa coniugale al sig. Pa. Mi., imponendo a quest’ultimo un contributo per il mantenimento della figlia pari ad Euro 3.500,00 mensili; 3) l’onere, a carico della madre convivente, di provvedere al mantenimento ordinario e di provvedere, in virtù della coabitazione con la figlia B., all’ ordinaria amministrazione; 4) la ripartizione delle spese straordinarie nella misura del 70% a carico del padre e del 30% a carico della madre convivente, imponendo il preventivo accordo e documentazione per quelle eccedenti l’importo di Euro 100,00; 5) si rigettava la richiesta avanzata dalla moglie P. A. della contribuzione al mantenimento, stante l’addebito e il risarcimento dei danni nonché la restituzione di beni, da fare valere in autonomo giudizio; 6) la corresponsione, a carico del padre, di ulteriori 1.200,00 Euro per l’eventualità del trasferimento presso altra congrua sistemazione abitativa della moglie P. A. e della figlia B., ospitate presso la nonna materna nella casa di proprietà comune indivisa; 7) l’ordine alla madre, di consegnare al padre il libretto sanitario della figlia, ove necessario; 8) la compensazione delle spese processuali, oltre che la ripartizione in quota paritaria degli importi liquidati ai consulenti tecnici di ufficio.
Entrambi i coniugi proponevano appello avverso la sentenza del Tribunale di Belluno.
La Corte d’appello di Venezia, con sentenza n. 917 dell’8 maggio 2017, rigettando l’appello principale della sig.ra P. A. e in accoglimento dell’appello incidentale del sig. Pa. Mi., confermando l’ammonimento di cui all’art. 709 ter, comma 2, n. 1[1], c.p.c., disponeva: 1) la revoca della disposizione dell’obbligo paterno di concorrere alle spese per una nuova abitazione della figlia con il versamento della somma mensile di Euro 1.200,00; 2) la riduzione in via definitiva a Euro 5.000,00 del risarcimento del danno liquidato in favore della figlia B., posto a carico del padre, con lo svincolo dell’eccedenza di Euro 5.000,00 dal deposito vincolato secondo le modalità determinate dal giudice tutelare competente; 3) confermava, per il resto la sentenza impugnata.
A sostegno della decisione impugnata, la Corte territoriale affermava preliminarmente, richiamando quanto osservato dal Tribunale, l’inesistenza di un obbligo giuridico di disporre una consulenza tecnica d’ufficio o di ascolto del minore, dando atto delle condizioni di tensione in cui già viveva la figlia minore B. e degli esiti del monitoraggio dei Servizi Sociali. Di fatti, da una lettura globale dei fatti oggettivi richiamati nelle sentenze penali, collaterali ai giudizi civili, risultava confermata la condotta spesso alterata del marito, non controllata alla presenza della bambina, così come, nel confronto delle rispettive condotte dei coniugi, rilevante era la constatazione che il Pa. Mi. fosse venuto a conoscenza dei reali rapporti esistenti tra la moglie P. A. e tale Pi. Pa. solo dopo l’allontanamento della moglie a crisi coniugale oramai conclamata, mentre per il periodo antecedente egli aveva addotto, a giustificazione della domanda di addebito della separazione, l’abbandono della casa coniugale della moglie insieme alla bambina.
La Corte territoriale constatava da un lato, come soltanto una volta, la figlia avesse assistito ad una lite tra i genitori e che certamente le intemperanze e gli eccessi iracondi del Pa. Mi. avessero indebolito il legame tra le parti, mentre dall’altro sussisteva il ragionevole dubbio che il volontario allontanamento della P. A., in ragione degli esiti delle indagini penali, trovasse fondamento in altri motivi personali della stessa.
Per tali motivi, secondo i Giudici d’appello, era da ritenersi motivata, equilibrata e condivisibile la decisione del Tribunale, di addebitare la separazione ad entrambi i coniugi, atteso che l’atteggiamento pericolosamente conflittuale dei genitori non si era modificato nel corso del giudizio e che la revoca dell’incarico conferito ai Servizi Sociali potesse essere disposta solo quando i genitori avessero instaurato un dialogo appropriato, che ne assicurasse l’autonomia e la maturità. In ordine al diritto di visita, la Corte, riteneva altresì congrua la regolamentazione delle visite e delle permanenze della minore presso il padre, in considerazione del tempo libero dagli impegni scolastici e dell’esigenza paritaria dei genitori, anche se impegnati nel lavoro, di trascorrere fine settimana “ludici” con la bambina.
Sulle ulteriori determinazioni del Tribunale, la Corte statuiva come il risarcimento del danno a favore della minore andasse ridotto a Euro 5.000,00 in rapporto alla condotta del padre, che, in corso di causa e nei rapporti con i Servizi Sociali affidatari, aveva dimostrato, nel tempo, maggiore adesione e disponibilità, anche a fronte della iniziale condotta refrattaria della madre che non aveva favorito i rapporti con il padre.
In ordine al contributo per i pagamenti di un alloggio diverso, in riforma della sentenza del Tribunale con la quale si poneva a carico del marito un contributo di Euro 1.200,00, la Corte, attesa l’assenza di richiesta di assegnazione della casa coniugale da parte della moglie, riteneva come allo stato non vi fosse necessità di provvedervi stante la coabitazione della sig.ra P. A. con la madre B. S. in un appartamento di cui era comproprietaria per la quota di un sesto. A conferma della impugnata sentenza, i Giudici d’appello, ritenevano congrua la somma di Euro 3.500,00 posta a carico del padre in favore della figlia, essendo la stessa adeguata a far fronte alle esigenze della minore e a contribuire per suo conto a un terzo delle utenze e delle spese condominiali, che la P. A. verosimilmente condivideva con la madre – nonna della bambina – comproprietaria convivente.
Avverso la sentenza della Corte d’appello di Venezia la sig.ra P. A. proponeva ricorso per cassazione affidato a quattro motivi a cui resisteva il sig. Pa. Mi., con controricorso e ricorso incidentale fondato su un unico motivo; tale ricorso veniva iscritto a ruolo prima del secondo ricorso, presentato dal sig. Pa. Mi., affidato ad un unico motivo, separatamente contro la stessa sentenza, assumendo, quindi, il valore di ricorso principale, cui resisteva la sig.ra P. A. con controricorso.
Come anticipato, la sig.ra P. A. affidava il proprio ricorso per cassazione a quattro motivi.
Con il primo motivo la ricorrente lamentava la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 143 e 151 c.c.[2], in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3[3] e l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. La Corte territoriale, a detta della ricorrente, aveva affermato in modo contraddittorio, da un lato come vi fosse la prova delle intemperanze caratteriali del Pa. Mi. e dall’altro come fosse addebitabile alla ricorrente stessa, la scelta di aver allontanato sé e la figlia da tale situazione, non avendo considerato come tale scelta fosse maturata quale conseguenza del comportamento violento e prevaricatore del marito. Peraltro, in presenza di tali violazioni gravi dei doveri nascenti dal matrimonio che fondavano, di per sé sole, la dichiarazione di addebitabilità all’autore di esse, il giudice di merito non avrebbe dovuto comparare il comportamento del coniuge vittima delle violenze con quello dell’altro.
Con il secondo motivo la ricorrente lamentava la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 315 bis, 333 e 337 ter c.c.[4], in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, sussistendo il vizio di motivazione apparente non avendo la Corte d’appello tenuto conto dell’interesse della minore, avendo piuttosto messo in evidenza la conflittualità dei genitori, non considerando nemmeno che proprio i comportamenti del sig. Pa. Mi., comunque accertati in sede penale (dove il Pa. Mi. era stato assolto dal reato di cui all’art. 572 c.p.[5], per mancanza di dolo), erano in contrasto con i doveri a lui imposti dall’art. 315 bis c.c., comma 1, ed escludevano invece ogni sua responsabilità.
Con il terzo motivo la sig.ra P. A. lamentava l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 e la violazione dell’art. 115 c.p.c.[6], in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, non avendo la Corte valutato la copiosa documentazione prodotta nel giudizio, il cui esame avrebbe reso impossibile addebitarle la separazione.
Con il quarto ed ultimo motivo, la ricorrente lamentava la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 709 ter c.p.c., comma 2, n. 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in quanto la motivazione della Corte territoriale, in ordine alla non concessa revoca delle sanzioni di natura pecuniaria ad essa inflitte, era avulsa dai fatti processuali, essendo stato omesso l’esame della cospicua documentazione di cui al punto 3 del ricorso.
Con il primo ed unico motivo del ricorso proposto (in via principale, ma successivo a quello presentato da P. A.) e di quello incidentale, il Pa. Mi. lamentava la violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, sub specie artt. 143 e 151 c.c.. A sua detta, la Corte d’appello avrebbe errato nel valorizzare le risultanze emerse dall’assoluzione in sede penale (la cui condanna, nel primo grado, era stata ritenuta sufficiente e addirittura unico elemento probatorio dal Tribunale per ritenere provato l’addebito) e nel concludere come i fatti denunciati costituissero da soli elementi sufficienti a confermare la sentenza di primo grado, alla luce del fatto che il giudicato penale ne aveva attestato l’insussistenza e in assenza di qualsivoglia riscontro probatorio degli stessi; continuava il Pa. Mi., come non fossero emersi, sotto il profilo temporale, entità e cause di precedenti crisi coniugali fonti dell’intollerabilità della prosecuzione della convivenza e né si evinceva, dal punto di vista logico, la presenza del nesso eziologico tra le azioni da lui asseritamente poste in essere e l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza.
In definitiva, il sig. Pa. Mi., si doleva del conflitto motivazionale in cui era incorsa la Corte d’appello che, da un lato, confermava l’addebito sulla base di asseriti comportamenti idonei a determinare la reazione della moglie e dall’altro, escludeva come tale reazione affondasse le proprie radici in tali comportamenti, dei quali peraltro il giudice penale aveva attestato, con vincolo di giudicato, l’inesistenza.
2) Le motivazioni di diritto.
Gli Ermellini, esaminati congiuntamente il primo e il terzo motivo del ricorso principale e l’unico motivo del ricorso incidentale, in quanto riguardanti specificamente le statuizioni di addebito della separazione, li ritenevano tutti inammissibili, in quanto diretti a censurare la ricostruzione delle risultanze probatorie al fine di ottenere, dal giudice di legittimità, l’avallo della diversa prospettazione in fatto in senso favorevole alle domande di entrambe le parti.
Si ribadiva, così, come il giudizio di cassazione fosse un giudizio a critica vincolata, nel quale le censure alla pronuncia di merito devono trovare collocazione entro un elenco tassativo di motivi; ne discendeva come la Corte di Cassazione non potesse mai essere considerata “giudice del fatto in senso sostanziale”, limitandosi essa ad esercitare un controllo sulla legalità e logicità della decisione, non essendo concesso riesaminare e valutare autonomamente il merito della causa[7].
Al contrario di tali princìpi, i motivi in esame contestavano la diversa ricostruzione in fatto che si voleva contenuta in sentenza, proprio in ordine alla sussistenza dei comportamenti posti in essere dai coniugi e della conseguente ritenuta addebitabilità ad entrambi della separazione.
Tanto, a maggior ragione, se si teneva conto delle specifiche motivazioni, addotte a fondamento della statuizione di addebito, dalla Corte territoriale, che lungi dall’essere contraddittorie, applicavano correttamente i princìpi affermati dalla Cassazione, sulla scorta dei quali, ai fini dell’addebitabilità della separazione, l’indagine sull’intollerabilità della convivenza doveva necessariamente svolgersi sulla base della valutazione globale della vita famigliare e sulla comparazione dei comportamenti di entrambi i coniugi, non potendo la condotta dell’uno essere giudicata senza un raffronto con quella dell’altro, permettendo così di accertare “se e quale incidenza esse abbiano riservato, nel loro reciproco interferire, nel verificarsi della crisi matrimoniale”[8].
Le contrapposte richieste dei coniugi di addebitabilità all’altro coniuge della separazione formavano, così, oggetto di domande autonome aventi ciascuna un proprio petitum e una autonoma causa petendi; esse, tuttavia, non potevano essere considerate alternative l’una all’altra, ben potendosi accogliere entrambe con il conseguente addebito della separazione ad ognuno dei coniugi[9].
Si trattava di princìpi, come già detto, che non erano stati affatto violati dalla Corte d’appello, ma puntualmente applicati da essa, la quale aveva preso in esame il comportamento aggressivo e violento del Pa. Mi., denunciato dalla P. A. ai fini dell’addebito e quello contestato dal Pa. Mi. alla moglie, identificato nell’abbandono della casa coniugale di quest’ultima insieme alla figlia, ritenendo, con motivazione congrua e logica e quindi incensurabile in sede di ricorso per cassazione, come ambedue i comportamenti dei coniugi avessero avuto una specifica incidenza nel determinarsi della crisi matrimoniale, avendo rivestito efficacia causale autonoma nella dissoluzione del rapporto tra le parti.
Tanto trovava, peraltro, ulteriore riscontro per entrambi i coniugi, nella sentenza della Corte di Cassazione, Sez. penale, del 9 febbraio 2016, n. 5258[10], resa tra le parti, che aveva rigettato il ricorso proposto dalla P. A. avverso la sentenza della Corte d’appello di Venezia del 17 febbraio 2015, che aveva assolto il Pa. Mi. dai reati di maltrattamenti in famiglia e di violenza privata. In particolare, i giudici di legittimità in sede penale, dopo avere sottolineato la professione di entrambi i coniugi e il loro livello di formazione professionale, cultura, condizioni sociali ed economiche ben superiori alla media, evidenziavano il rapporto di accesa conflittualità, di tensione e di radicata contrapposizione esistente fra di loro, nonché, da un lato, i comportamenti di particolare veemenza e spesso trasmodanti nella maleducazione del Pa. Mi. e, dall’altra, l’assenza di un supino atteggiamento di rispetto alle intemperanze anche verbali del marito, nel quadro di un rapporto protrattosi per anni e connotato da continui diverbi, incomprensioni e litigi maturati in ambito familiare, tra persone dotate entrambe di un carattere molto passionale e ricavandone “l’impossibilità di configurare un comportamento caratterizzato di abituale e sistematica prevaricazione, basato su una posizione di passiva soggezione dell’una nei confronti dell’altro“[11].
Le argomentazioni esposte permettevano alla Corte di Cassazione, Sez. penale, di confermare, da un lato la sussistenza dei comportamenti posti in essere dal Pa. Mi. tali da rendere intollerabile la convivenza e configurare uno stato di crisi matrimoniale (anche se non tali da configurare le condotte criminose contestate) mentre dall’altro di escludere ogni consequenzialità diretta tra detti comportamenti e l’abbandono della casa da parte della moglie P.A., riconducibile, come affermato dai giudici di merito sulla base del riscontro dei tabulati telefonici intercorsi tra la P. A. e il marito Pi. Mi., ad epoca anteriore e per altri motivi personali.
Anche il secondo motivo di ricorso veniva ritenuto infondato.
La Suprema Corte di Cassazione, richiamando la sua precedente giurisprudenza[12], in ordine al motivo di doglianza attinente il vizio di apparente motivazione della sentenza, osservava come esso ricorresse allorché la motivazione, pur essendo graficamente e, quindi, materialmente esistente – come parte del documento in cui consiste la sentenza – non rendesse tuttavia percepibili le ragioni della decisione, in quanto esibiva argomentazioni obiettivamente inidonee a far riconoscere l’iter logico seguito per la formazione del convincimento, non consentendo alcun controllo sull’esattezza e la logicità del ragionamento del giudice.
Nel caso di specie, la motivazione dettata dalla Corte territoriale a fondamento della decisione impugnata appariva non solo esistente ma anche articolata, in modo tale da permettere di ricostruirne e comprenderne agevolmente il percorso logico, integrando gli estremi di un discorso giustificativo logicamente lineare e comprensibile, elaborato nel pieno rispetto dei canoni di correttezza giuridica e di congruità logica, come tale del tutto idoneo a sottrarsi alle censure illustrate dalla ricorrente nel motivo di ricorso.
A tal proposito gli Ermellini osservavano come nel quadro della nuova disciplina relativa ai “provvedimenti riguardo ai figli” dei coniugi separati, improntata alla tutela del diritto del minore alla cd. “bigenitorialità“, ovvero al diritto dei figli di continuare ad avere un rapporto equilibrato con il padre e con la madre anche dopo la separazione, l’affidamento “condiviso“, che comportava l’esercizio della “potestà” genitoriale da parte di entrambi ed una condivisione, appunto, delle decisioni di maggior importanza attinenti alla sfera personale e patrimoniale del minore, si poneva non più come eccezione, bensì come regola, rispetto alla quale costituisce, invece, ora accezione la soluzione dell’affidamento esclusivo: alla regola dell’affidamento condiviso poteva, dunque derogarsi solo ove la sua applicazione risultasse pregiudizievole per l’interesse del minore[13].
Ne discendeva come la mera conflittualità esistente tra i coniugi non potesse essere ritenuta ostativa all’affido condiviso necessitando invece, ai fini dell’affido esclusivo, una indagine nei confronti di uno dei coniugi, dalla quale emergesse una sua condizione di manifesta carenza o inidoneità educativa tale da rendere quell’affidamento, in concreto pregiudizievole per il minore[14].
Su tale assunto, la Cassazione riteneva come non avendo il legislatore ritenuto di tipizzare le circostanze ostative all’affidamento condiviso, la loro individuazione doveva ritenersi rimessa al giudice; ne discendeva su quest’ultimo, il compito di giustificare, con provvedimento motivato in relazione alla peculiarità della fattispecie, l’affidamento esclusivo, in via di eccezione. A tal proposito, la Suprema Corte chiariva come tale motivazione dovesse essere sorretta da una indagine non solo in positivo, sulla idoneità del genitore affidatario, ma anche in negativo, sulla sua inidoneità educativa, non rispondendo, così, al preminente interesse del figlio l’adozione del modello prioritario di affidamento condiviso.
Nel caso di specie, la Corte territoriale non si era affatto discostata da tali princìpi, avendo preso atto dei comportamenti posti in essere da entrambi i genitori, profondamente indicativi della loro carenza educativa ed aveva correttamente valutato tali comportamenti in termini non di mera conflittualità tra i coniugi, ma di “oggettiva inidoneità” della madre e del padre alla condivisione dell’esercizio della “potestà” genitoriale in termini compatibili con la tutela dell’interesse primario della figlia minore.
I giudici di merito, nella sostanza, ponevano in evidenza la scarsa maturità dei genitori nell’affrontare le maggiori responsabilità derivanti dall’affido condiviso e come il rapporto tra i genitori e la figlia risultasse, in modo significativo, intaccato dalla forte conflittualità esistente tra padre e madre, ponendosi la loro inidoneità educativa, in contrasto con l’interesse della figlia minore all’affido condiviso.
Dalla ritenuta inammissibilità dei primi tre motivi del ricorso principale, la Suprema Corte faceva scaturire l’assorbimento del quarto motivo sulla mancata revoca delle sanzioni di natura pecuniaria inflitte ai sensi dell’art. 709 ter c.p.c., comma 2, n. 2., dichiarando altresì inammissibile anche il ricorso incidentale.
3) Commento.
Forte di una impostazione gerarchica ed autoritaria della famiglia, la formulazione originaria dell’art. 151 c.c. postulava una separazione giudiziale per colpa quale conseguenza delle gravi e tassative violazioni degli obblighi matrimoniali[15]. La separazione giudiziale assumeva le fattezze di una vera e propria sanzione, derivante dalle violazioni tipizzate dal codice, in assenza delle quali il giudice non poteva pronunziarla[16].
L’evoluzione sociale degli anni Settanta del secolo scorso, diede spinta propulsiva ad un ripensamento sostanziale dell’istituto famigliare e di conseguenza dell’istituto matrimoniale, confluente nella legge sul divorzio del 1970, nella riforma della disciplina del diritto di famiglia del 1975 ed in ultimo nella legge sull’interruzione di gravidanza del 1978.
I princìpi di uguaglianza tra uomo e donna, la cancellazione della contrapposizione tra figlio legittimo e naturale, mutarono i contorni e la sostanza della famiglia, intesa sino ad allora, come istituzione gerarchicamente organizzata in cui vi era un capo – il padre – e dei soggetti ad esso sottoposti, in una società fondata sul consenso ma soprattutto di individui uguali nei ruoli e nelle responsabilità. Il centro del legame famigliare diventava, come anticipato, il consenso ossia la libera determinazione dei coniugi di costituire per sé, con un atto di autonomia privata fondato sull’affectio coniugalis, il vincolo matrimoniale.
Tanto segnava il passo da una concezione pubblicistica dell’istituto famigliare ad una lettura privatisticamente orientata, laddove, la natura contrattuale del vincolo emergeva prepotentemente, nella manifestazione del consenso dei nubendi nel voler costituire un legame.
Una siffatta concezione della famiglia fondata sul consenso, ripulita da quell’alone pubblicistico, non poteva che riflettersi anche sulla fase patologica dell’unione. La separazione cambiava pelle, proprio come la società italiana degli anni Settanta, trasformandosi da sanzione per la violazione degli obblighi famigliari a rimedio per una situazione obiettivamente insopportabile[17].
La nuova formulazione dell’art. 151 c.c. primo comma, ad oggi, si differenzia dalla precedente stesura per l’assenza della elencazione tassativa dei motivi che permettevano, ante riforma, l’ottenimento della separazione giudiziale. Compare una sola ipotesi di carattere generale che focalizza l’attenzione non tanto sulle cause ma sulle conseguenze, consistenti nell’intollerabilità della prosecuzione della convivenza e nel grave pregiudizio per i figli.
Se il primo comma dell’art. 151 c.c. segna il passaggio da una separazione a carattere sanzionatorio a quella di rimedio avverso una situazione patologica del legame, il secondo comma dell’art. 151 c.c., nella nuova formulazione[18], conferisce al giudice qualora investito della questione, il compito di individuare a quale dei due coniugi o, come nel caso in esame ad entrambi, sia addebitabile la separazione.
Il passaggio prospettico da una separazione quale sanzione ad una nuova e moderna idea di separazione quale rimedio, passa anche attraverso una mutazione del lessico: non è più usato il termine “colpa” ma “addebito”, proprio a marcare la distanza tra la ormai superata impostazione e quella moderna. A differenza della colpa, intesa ante riforma, quale elemento essenziale per la domanda di separazione, l’addebito diventa una ipotesi a carattere eccezionale, un argomento eventuale[19] del giudizio di separazione giudiziale, valutabile dal giudice solo nel caso in cui “sia richiesto” dai coniugi e “ove ne ricorrano le circostanze”.
In definitiva, la domanda di addebito avanzata ai sensi dell’art. 1512 c.c., dalla parte attrice con l’atto introduttivo o dalla parte convenuta in via riconvenzionale, ha natura di domanda autonoma, ampliando il tema dell’indagine su fatti ulteriori ed indipendenti da quelli giustificativi del regime di separazione e determinando una statuizione aggiuntiva, dotata di propri effetti di natura patrimoniale; è quindi conseguente la scindibilità della pronuncia sulla domanda di separazione e la consolidabilità della stessa, ove non impugnata, nel giudicato che autorizza la proposizione della successiva domanda di divorzio, nonostante la prosecuzione del giudizio in ordine alla domanda di addebito della separazione[20].
Appare dunque evidente come la richiesta di addebito non si ponga quale elemento fondante della pronuncia di separazione personale, restando sempre e comunque giustificata solo dall’intollerabilità della vita coniugale o dal grave pregiudizio per l’educazione della prole[21].
Il carattere di eccezionalità e di accessorietà dell’addebito è altresì confermato dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 3356 del 2007 con la quale, la Corte riteneva di ampliare l’originaria interpretazione, di stampo strettamente oggettivistico, dell’art. 151 c.c.[22], per dare, alla medesima norma, una lettura aperta anche alla valorizzazione di “elementi di carattere soggettivo, costituendo la intollerabilità un fatto psicologico squisitamente individuale, riferibile alla formazione culturale, alla sensibilità e al contesto interno alla vita dei coniugi“. la Suprema Corte, ribadita l’originaria impostazione oggettivistica quanto al (solo) profilo del controllo giurisdizionale sulla intollerabilità della prosecuzione della convivenza, nel senso che le situazioni di intollerabilità della convivenza devono essere oggettivamente apprezzabili e giudizialmente controllabili – puntualizzato che la frattura può dipendere, dalla condizione di disaffezione e di distacco spirituale anche di uno solo dei coniugi (Cass. 7148/1992) – concludeva affermando che in una doverosa “visione evolutiva del rapporto coniugale – ritenuto, nello stadio attuale della società, incoercibile e collegato al perdurante consenso di ciascun coniuge – (…) ciò significa che il giudice, per pronunciare la separazione, deve verificare, in base ai fatti obiettivi emersi, ivi compreso il comportamento processuale delle parti, con particolare riferimento alle risultanze del tentativo di conciliazione ed a prescindere da qualsivoglia elemento di addebitabilità, l’esistenza, anche in un solo coniuge, di una condizione di disaffezione al matrimonio tale da rendere incompatibile, allo stato, pur a prescindere da elementi di addebitabilità da parte dell’altro, la convivenza. Ove tale situazione d’intollerabilità si verifichi, anche rispetto ad un solo coniuge, deve ritenersi che questi abbia diritto di chiedere la separazione: con la conseguenza che la relativa domanda, costituendo esercizio di un suo diritto, non può costituire ragione di addebito“.
Sulla finalità dell’addebito, parte della dottrina riconosce ad esso il compito di evitare al coniuge “che ha patito una convivenza non solo fallita, ma travagliata da una condotta dell’altro contraria agli impegni assunti con il matrimonio, di restare legato a quest’ultimo da obblighi di assistenza e vincoli di carattere ereditario”[23] successivamente alla intervenuta separazione, in modo da riconoscere, al soggetto non colpevole, la propria correttezza in ordine all’assolvimento dei doveri coniugali.
In questo modo, secondo gli intendimenti del legislatore, si impedisce al coniuge responsabile dei comportamenti contrari agli obblighi matrimoniali, di lucrare sull’altro attraverso la dazione dell’assegno di mantenimento, escluso proprio nell’ipotesi di addebito ai sensi dell’art. 156 c.c.[24]. In tal modo residua a vantaggio del coniuge a cui viene dato l’addebito, il solo diritto agli alimenti oppure, ai sensi dell’art. 548 c.c.[25], il diritto ad un assegno vitalizio se, al momento dell’apertura della successione, godeva degli alimenti legali a carico del coniuge deceduto.
L’indagine sull’addebito coinvolge, per forza di cose, l’intera vicenda matrimoniale con notevoli problemi di natura pratica, primo tra tutti quello di riuscire ad isolare i singoli episodi di quella particolare comunità famigliare in un contesto, così peculiare, quale quello della vita in comune.
Di certo, racchiudere l’intera storia matrimoniale all’interno della fase istruttoria non è semplice, se non proprio impossibile; decenni di convivenza o solo pochi anni rappresentano a tutti gli effetti un labirinto di episodi in cui il giudice deve trovare una via d’uscita, anzi di fuga, per evitare di essere travolto dalle ragioni contrapposte[26].
Diviene così impossibile accertare con certezza se determinati fatti siano addebitabili al comportamento di un soggetto o dell’altro, come anche comprendere se quel determinato comportamento sia la causa o l’effetto.
Il rischio, in una situazione di questo tipo, è che il giudicante si lasci trasportare da valutazioni soggettive, “avventurandosi in ambiti della vita personale e familiare talvolta imperscrutabili anche agli stessi protagonisti della vicenda” diventando “anch’egli portatore dei propri pregiudizi mentali e culturali”[27].
Venendo alla sentenza in commento, questa consolida una ben nota pratica giurisprudenziale quale eredità della precedente formulazione dell’art. 151 c.c., allorquando, come anticipato, la separazione poteva essere pronunziata anche per colpa di entrambi essendo inscindibilmente legata a cause tipizzate dal legislatore, ciascuna autonoma ed in grado di determinare lo scioglimento del vincolo matrimoniale. A dimostrazione di ciò, secondo parte della recente dottrina[28], soccorre l’utilizzo nella nuova formulazione dell’art. 151 c.c., della forma singolare (“il giudice dichiara… a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione”). La valutazione discrezionale del giudice in ordine all’addebitabilità della violazione dei doveri matrimoniali, deve necessariamente considerare il comportamento dei coniugi nella sua globalità, essendo come già ribadito, un giudizio complessivo sulla qualità del rapporto coniugale[29].
L’accesa conflittualità, quale “oggettiva inidoneità” dei coniugi alla condivisione dell’esercizio della responsabilità genitoriale, derivante dal reciproco addebito, comporta come nel caso in esame, delle evidenti ricadute sulla genitorialità stessa, giustificando l’attivazione del meccanismo di salvaguardia e tutela del minore, così come previsto dal nostro ordinamento.
Di fatto gli Ermellini, confermando quanto statuito dai giudici di merito, avvallano la scelta del giudice di prime cure di affidare, ex officio, la figlia minore ai Servizi Sociali, territorialmente competenti, atteso l’avvenuto accertamento, sia in positivo che in negativo, della inidoneità di entrambi i coniugi ad assolvere al meglio il delicato ministero genitoriale, nell’interesse preminente della minore[30].
Ai sensi dell’art. 337 ter c.c., l’affidamento ai Servizi Sociali, con tutte le varianti che i giudici di merito reputano adottare nell’interesse del minore, è ormai prassi ricorrente. Esso non deve essere considerato come una sanzione ma bensì come uno strumento temporaneo di monitoraggio e supporto, posto a sostegno della famiglia in un momento così delicato quale proprio quello della sua fase patologica[31].
Il provvedimento di affidamento ai Servizi Sociali ha, quindi, l’evidente finalità di precostituire, se possibile, le condizioni per il ripristino di una condivisa bigenitorialità tutelando, da subito e nel modo più penetrante, il minore. Di qui le varie disposizioni poste in essere nell’immediatezza, intese ad attribuire ai Servizi Sociali un ruolo di supplenza e di garanzia, finalizzate a far intraprendere ai genitori un percorso terapeutico di superamento del conflitto per la realizzazione di “una relazione basata sul rispetto reciproco nella relazione con il figlio”[32].
Nell’affidamento ai Servizi Sociali, oltre alla finalità positiva sopra esposta, è possibile intravedere una ulteriore finalità, questa volta negativa, di depotenziamento del genitore dominante che assolve al suo ruolo in modo del tutto arbitrario[33].
In conclusione, l’affidamento ai Servizi Sociali oltre a supportare e sostenere la coppia in crisi, incapace, per l’accesa ed accecante conflittualità, di guardare a cosa sia meglio per il proprio figlio, ha il fondamentale compito di disinnescare il conflitto attraverso la sospensione del potere decisionale dei genitori, eliminando così, le occasioni di contrasto. In questo modo si ha la certezza di garantire al minore, nella quasi totalità delle situazioni collocato presso uno dei due genitori, la continuità affettiva e relazionale in assenza di contrasti e dissidi, evitando traumi irreversibili che si potrebbero verificare allorquando esso dovesse ritenere, erroneamente, di essere la causa stessa del conflitto[34].
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Note
[1] “Per la soluzione delle controversie insorte tra i genitori in ordine all’esercizio della responsabilità genitoriale o delle modalità dell’affidamento è competente il giudice del procedimento in corso. Per i procedimenti di cui all’articolo 710 è competente il tribunale del luogo di residenza del minore. A seguito del ricorso, il giudice convoca le parti e adotta i provvedimenti opportuni. In caso di gravi inadempienze o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento, può modificare i provvedimenti in vigore e può, anche congiuntamente: 1) ammonire il genitore inadempiente; 2) disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti del minore; 3) disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti dell’altro; 4) condannare il genitore inadempiente al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria, da un minimo di 75 euro a un massimo di 5.000 euro a favore della Cassa delle ammende. I provvedimenti assunti dal giudice del procedimento sono impugnabili nei modi ordinari”, art. 709 ter c.p.c.
[2] “Con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri. Dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia e alla coabitazione. Entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia”, art. 143 c.c.; “La separazione può essere chiesta quando si verificano, anche indipendentemente dalla volontà di uno o di entrambi i coniugi, fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza o da recare grave pregiudizio alla educazione della prole. Il giudice pronunziando la separazione, dichiara, ove ne ricorrano le circostanze e ne sia richiesto, a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio”, art. 151 c.c.
[3] “Le sentenze pronunciate in grado d’appello o in unico grado, possono essere impugnate con ricorso per cassazione: 1) per motivi attinenti alla giurisdizione; 2) per violazione delle norme sulla competenza, quando non è prescritto il regolamento di competenza ; 3) per violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro; 4) per nullità della sentenza o del procedimento ; 5) per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Può inoltre essere impugnata con ricorso per cassazione una sentenza appellabile del tribunale, se le parti sono d’accordo per omettere l’appello; ma in tale caso l’impugnazione può proporsi soltanto a norma del primo comma, n. 3. Non sono immediatamente impugnabili con ricorso per cassazione le sentenze che decidono di questioni insorte senza definire, neppure parzialmente, il giudizio. Il ricorso per cassazione avverso tali sentenze può essere proposto, senza necessità di riserva, allorché sia impugnata la sentenza che definisce, anche parzialmente, il giudizio. Le disposizioni di cui al primo comma e terzo comma si applicano alle sentenze ed ai provvedimenti diversi dalla sentenza contro i quali è ammesso il ricorso per cassazione per violazione di legge”, art. 360 c.p.c.
[4] “Il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni. Il figlio ha diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti. Il figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici, e anche di età inferiore ove capace di discernimento, ha diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano. Il figlio deve rispettare i genitori e deve contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con essa”, art. 315 bis c.c.; “Quando la condotta di uno o di entrambi i genitori non è tale da dare luogo alla pronuncia di decadenza prevista dall’articolo 330, ma appare comunque pregiudizievole al figlio, il giudice, secondo le circostanze, può adottare i provvedimenti convenienti e può anche disporre l’allontanamento di lui dalla residenza familiare ovvero l’allontanamento del genitore o convivente che maltratta o abusa del minore. Tali provvedimenti sono revocabili in qualsiasi momento”, art. 333 c.c.; “Il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale. Per realizzare la finalità indicata dal primo comma, nei procedimenti di cui all’articolo 337-bis, il giudice adotta i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa. Valuta prioritariamente la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori oppure stabilisce a quale di essi i figli sono affidati, determina i tempi e le modalità della loro presenza presso ciascun genitore, fissando altresì la misura e il modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione e all’educazione dei figli. Prende atto, se non contrari all’interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori. Adotta ogni altro provvedimento relativo alla prole, ivi compreso, in caso di temporanea impossibilità di affidare il minore ad uno dei genitori, l’affidamento familiare. All’attuazione dei provvedimenti relativi all’affidamento della prole provvede il giudice del merito e, nel caso di affidamento familiare, anche d’ufficio. A tal fine copia del provvedimento di affidamento è trasmessa, a cura del pubblico ministero, al giudice tutelare. La responsabilità genitoriale è esercitata da entrambi i genitori. Le decisioni di maggiore interesse per i figli relative all’istruzione, all’educazione, alla salute e alla scelta della residenza abituale del minore sono assunte di comune accordo tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli. In caso di disaccordo la decisione è rimessa al giudice. Limitatamente alle decisioni su questioni di ordinaria amministrazione, il giudice può stabilire che i genitori esercitino la responsabilità genitoriale separatamente. Qualora il genitore non si attenga alle condizioni dettate, il giudice valuterà detto comportamento anche al fine della modifica delle modalità di affidamento. Salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito; il giudice stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità, da determinare considerando: 1) le attuali esigenze del figlio. 2) il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori. 3) i tempi di permanenza presso ciascun genitore. 4) le risorse economiche di entrambi i genitori. 5) la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore. L’assegno è automaticamente adeguato agli indici ISTAT in difetto di altro parametro indicato dalle parti o dal giudice. Ove le informazioni di carattere economico fornite dai genitori non risultino sufficientemente documentate, il giudice dispone un accertamento della polizia tributaria sui redditi e sui beni oggetto della contestazione, anche se intestati a soggetti diversi”, art. 337 ter c.c.
[5] “Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da tre a sette anni. La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso in presenza o in danno di persona minore, di donna in stato di gravidanza o di persona con disabilità come definita ai sensi dell’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero se il fatto è commesso con armi. Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a ventiquattro anni. Il minore di anni diciotto che assiste ai maltrattamenti di cui al presente articolo si considera persona offesa dal reato”, art. 572 c.p.
[6] “Salvi i casi previsti dalla legge il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero, nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita. Il giudice può tuttavia, senza bisogno di prova, porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza”, art. 115 c.p.c.
[7] Cass. civ., 3 ottobre 2019, n. 24738; Cass. civ., 28 novembre 2014, n. 25332.
[8] Cass. civ., 14 novembre 2001, n. 14162; Cass. civ., 12 gennaio 2000, n. 279; Cass. civ., 18 marzo 1999, n. 2444.
[9] Cass., 18 marzo 1999, n. 2444, cit.
[10] “In un contesto familiare di continua conflittualità, ove alla veemenza verbale ed alla collera del marito la moglie risponde con capacità reattiva e non con un supino atteggiamento, non può configurarsi il delitto di maltrattamenti in famiglia”, Cass. pen. Sez. VI, 13/11/2015, n. 5258.
[11] “…l’episodio violento del 9 maggio 2010, in cui l’imputato schiaffeggiò la moglie, ovvero la decisione di installare un impianto di videosorveglianza presso la residenza familiare – le cui modalità operative, peraltro, ne hanno comprovato l’impossibilità di controllo dei movimenti interni – o, ancora, l’atteggiamento dall’imputato mostrato a fronte dell’intenzione della moglie di riprendere l’esercizio dell’attività professionale in un luogo diverso da quello della residenza familiare, ecc.) i Giudici di merito hanno posto in rilievo, da un lato, il temperamento irascibile e non incline alla moderazione dell’imputato, i suoi accessi di collera anche a fronte del più banale contrattempo, il ricorso a toni di particolare veemenza ed i comportamenti spesso trasmodanti nella maleducazione, dall’altro lato la costante capacità reattiva della moglie e l’assenza di un supino atteggiamento rispetto alle intemperanze anche verbali del marito, nel quadro di un rapporto protrattosi per anni e connotato da continui diverbi, incomprensioni e litigi maturati in ambito familiare, tra persone dotate entrambe di un carattere molto passionale, per inferirne logicamente l’impossibilità di configurare un comportamento obiettivamente caratterizzato da tratti di abituale e sistematica prevaricazione, basato su una posizione di passiva soggezione dell’una nei confronti dell’altro…”, Cass. pen., Sez. VI, 13/11/2015, n. 5258.
[12] “La motivazione del provvedimento impugnato con ricorso per cassazione deve ritenersi apparente quando pur se graficamente esistente ed, eventualmente sovrabbondante nella descrizione astratta delle norme che regola la fattispecie dedotta in giudizio, non consente alcun controllo sull’esattezza e la logicità del ragionamento decisorio, così da non attingere la soglia del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 comma 6 Cost.”, Cass. civ., 30 giugno 2020, n. 13248; conformi Cass. civ., 5 agosto 2019, n. 20921; Cass. civ., 7 aprile 2017, n. 9105; Cass., Sez. U. 22 settembre 2014, n. 19881; Cass. Sez. U., 7 aprile 2014, n. 8053.
[13] “Il grave conflitto tra i genitori, di per sé solo, non è tale da escludere l’affidamento condiviso, né è sufficiente, a tal fine, il riferimento a generiche difficoltà relazionali tra padre e figlio: è dunque da reputarsi insufficiente, per addivenire all’affidamento monogenitoriale, la motivazione che – facendo unicamente menzione della conflittualità tra i genitori, dello scarso interesse del padre nei confronti della figlia ed al di lei rifiuto nei confronti del padre – disponga l’affidamento esclusivo alla madre”, Cass. civ., 8 febbraio 2012, n. 1777, su Fam. Pers. Succ., 2012, 10, 676 con nota di Astiggiano e su Famiglia e Diritto, 2012, 7, 705 con nota di Arceri.
[14]“ L’affidamento condiviso dei figli si pone come regola generale dell’ordinamento, non può dunque ritenersi precluso, di per sé, dalla mera conflittualità esistente tra i genitori, in quanto, affinché la prole venga affidata esclusivamente ad uno di essi, è necessario che l’affidamento condiviso sia valutato pregiudizievole per il minore o risulti nei confronti dell’altro una condizione di manifesta carenza o inidoneità educativa (come nel caso, ad es., di una sua anomala condizione di vita, di insanabile contrasto con i figli o di obiettiva lontananza). Ad ogni modo, il giudizio di esclusione della modalità dell’affidamento condiviso dovrà essere motivato non solo “in positivo”, attraverso l’idoneità del genitore affidatario, ma anche “in negativo”, descrivendo l’inidoneità educativa del genitore affinché venga escluso dalla bigenitorialità”, Cass. civ., 18 giugno 2008, n. 16593 su Famiglia e Diritto, 2008, 12, 1106 con nota di Amram.
[15] “La separazione può essere chiesta per causa di adulterio, di volontario abbandono, eccessi, sevizie, minacce o ingiurie gravi”, art. 151 c.c. vigente sino al 20/09/1975.
[16] A. Tarroni – A. Baravelli, Dalla separazione per colpa alla separazione con addebito: percorso storico attraverso i mutamenti del concetto di famiglia nella società italiana degli anni ’70, su Studiolegaleterroni.it
[17] G. Cattaneo, Corso di diritto civile. Effetti del matrimonio, regime patrimoniale, separazione e divorzio, Milano, 1988, pag. 116.
[18] La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 127/68, dichiarava l’illegittimità costituzionale del secondo comma dell’art. 151 c.c., il quale stabiliva che “Non è ammessa l’azione di separazione per adulterio del marito, se non quando concorrono circostanze tali che il fatto costituisca un’ingiuria grave alla moglie”.
[19] M. Dogliotti, La separazione giudiziale, in Tratt. Bonilini, Cattaneo, I, 2a ed., Torino, 2007, pag. 480.
[20] Cass. civ. Sez. I Sent., 30/03/2012, n. 5173; in dottrina F. Danovi, Via libera delle sezioni unite alla scissione tra separazione e addebito, in GI, 2002; Id., Separazione e addebito tra inscindibilità e autonomia, in RDP, 1999, pag. 921 in M. Sala, Commento all’art. 151 c.c., cit.
[21] “La dichiarazione di separazione personale dei coniugi presuppone l’accertamento dell’esistenza di fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della vita coniugale o da recare grave pregiudizio all’educazione della prole e ciò anche indipendentemente dalla volontà di uno o entrambi i coniugi. In tale ottica, la richiesta di addebito non si pone come elemento fondante della pronuncia di separazione personale, che resta sempre e comunque giustificata solo dall’intollerabilità della vita coniugale o dal grave pregiudizio per l’educazione della prole; circostanze, queste, da valutarsi, nell’ipotesi di richiesta di addebito, anche sotto il profilo della responsabilità di uno o di entrambi i coniugi”, Cass. civ. Sez. I, 14/06/2000, n. 8106.
[22] Secondo tale interpretazione, il diritto alla separazione si basa su fatti che, nella coscienza sociale e nella comune percezione, rendono intollerabile il proseguimento della vita coniugale.
[23] P. Zatti, Persone e famiglia, in Trattato di diritto privato, a cura di P. Rescigno, II, pp. 175 e ss.
[24] “Il giudice, pronunziando la separazione, stabilisce a vantaggio del coniuge cui non sia addebitabile la separazione il diritto di ricevere dall’altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri. L’entità di tale somministrazione è determinata in relazione alle circostanze e ai redditi dell’obbligato. Resta fermo l’obbligo di prestare gli alimenti di cui agli articoli 433 e seguenti. Il giudice che pronunzia la separazione può imporre al coniuge di prestare idonea garanzia reale o personale se esiste il pericolo che egli possa sottrarsi all’adempimento degli obblighi previsti dai precedenti commi e dall’articolo 155. La sentenza costituisce titolo per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale ai sensi dell’articolo 2818. In caso di inadempienza, su richiesta dell’avente diritto, il giudice può disporre il sequestro di parte dei beni del coniuge obbligato e ordinare ai terzi, tenuti a corrispondere anche periodicamente somme di danaro all’obbligato, che una parte di esse venga versata direttamente agli aventi diritto. Qualora sopravvengano giustificati motivi il giudice, su istanza di parte, può disporre la revoca o la modifica dei provvedimenti di cui ai commi precedenti”, art. 156 c.c.
[25] “Il coniuge cui non è stata addebitata la separazione con sentenza passata in giudicato, ai sensi del secondo comma dell’articolo 151, ha gli stessi diritti successori del coniuge non separato. Il coniuge cui è stata addebitata la separazione con sentenza passata in giudicato ha diritto soltanto ad un assegno vitalizio se al momento dell’apertura della successione godeva degli alimenti a carico del coniuge deceduto. L’assegno è commisurato alle sostanze ereditarie e alla qualità e al numero degli eredi legittimi, e non è comunque di entità superiore a quella della prestazione alimentare goduta. La medesima disposizione si applica nel caso in cui la separazione sia stata addebitata ad entrambi i coniugi”, art. 548 c.c.
[26] P. Perlingieri, in atti del convegno Diritto di famiglia: casi e questioni. Incontro sul nuovo diritto di famiglia, Camerino 25-27 febbraio 1982, Napoli, 1983, pag. 126.
[27] M. Meliti, B. Capicotto, A. Lanza, L’addebito della separazione. Attualità dell’istituto e profili applicativi tra la giurisprudenza di legittimità e quella di merito, ed. Ordine Avvocati Roma, pp. 60 e ss.
[28] B. Filippis, Doppio addebito separazione: le conseguenze sulla figlia minore, su Quotidiano giuridico, ed. Wolters Kluwer, 2021.
[29] F. Finocchiaro, Del matrimonio, II, 2a ed., in Comm. Scialoja, Branca, sub artt. 84-158, Bologna-Roma, 1993, pag. 364; sul tema M. Sala, aggiornato da T. Bonamini, Commento all’art. 151 c.c., su Leggi d’Italia, ed. Wolters Kluwer, 2021.
[30] “Sin dagli albori dello studio della condizione del minore, la normativa transnazionale in uno a quella nazionale ha posto al centro di ogni intervento l’attenzione verso la condizione dello stesso impegnandosi affinché vi fosse una piena realizzazione dei suoi diritti. In tutti gli interventi può riscontrarsi sia da un punto di vista concettuale che terminologico un comune denominatore: ”l’interesse del minore”. Tale nuovo concetto ha da subito indotto l’interprete a chiedersi cosa dovesse intendersi per “interesse del minore” attesa l’evidente natura di “clausola generale, nozione a contenuto variabile o porta aperta alla discrezionalità del giudice” trattandosi di un “concetto di difficile ma non impossibile determinazione”. In effetti in nessun passaggio della legislazione ordinaria vi è una vera e propria definizione di “interesse del minore” dovendosi iniziare a caratterizzare tale nuovo concetto partendo da richiami indiretti come quelli di cui all’art. 333 c.c. e 147 c.c. laddove al minore si offre protezione dal rischio di pregiudizi di natura fisica o psichica oppure si offrono criteri valutativi dell’interesse del minore a vedere realizzati i suoi interessi sulla scorta di una valutazione della sua inclinazione naturale o psichica. Da qui la necessità di una lettura proiettata al divenire, proprio in considerazione della situazione potenziale in cui, per sua stessa natura, si trova il minore potendosi intendere “l’interesse” anche come la possibilità di maggiori chance da offrire allo stesso sulla base di una valutazione delle sue inclinazioni e aspirazioni. L’indagine in ordine alle potenzialità del minore, al fine di circoscrivere quale possa essere “l’interesse” di quel minore in quel determinato contesto storico e sociale, non può prescindere da un passaggio fondamentale consistente nell’audizione del minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore sempre che abbia, come anticipato innanzi, capacita di discernimento”, N. Barbuzzi, L’interesse del minore: nuove frontiere interpretative, in Gazzetta Forense, 4/2020, pag. 524.
[31] N. Barbuzzi, L’ascolto del minore nei giudizi relativi alla frammentazione del nucleo famigliare. Nota a Cass. Sez. I Civ. sentenza n. 1191 del 21/01/2020, in Gazzetta Forense, 3/2020, pag. 371.
[32] Cass. civ. Sez. I, Ord. 12-11-2018, n. 28998.
[33] R. Rossi, Affidamento dei minori ai Servizi Sociali nella separazione dei genitori, su studiolegalerossi.it
[34] N. Barbuzzi, L’adozione “MITE” ex art. 44 lett. d della Legge n. 184/83 nei casi di “SEMI-ABBANDONO” del minore. Nota a Corte Cass., Sez. I Civ., ordinanza n. 1476 del 25/11/2020, in Gazzetta Forense, 1/2021, pag. 50.
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