A distanza di più di tre anni dall’entrata in vigore della L. n. 92/2012 recante “Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita” (c.d. Riforma Fornero), suscitano ancora particolare interesse alcune questioni sin da subito controverse e di non univoca soluzione.
In primo luogo, la questione della legittimazione del datore di lavoro ad adire il giudice con ricorso proposto nelle forme del “rito Fornero”.
A rilevare nuovamente il caso, sebbene soltanto in obiter, è stato il Tribunale di Terni in funzione di Giudice del Lavoro (Ord. 07.10.2015), chiamato a pronunciarsi sulla eccezione di litispendenza sollevata dalla società datrice di lavoro convenuta in giudizio, con ricorso ex art. 1 L. n. 92/12, da una ex dipendente, per l’accertamento dell’illegittimità del licenziamento intimatole.
Nel costituirsi in giudizio la parte datoriale rilevava l’esistenza di un procedimento dalla stessa già incardinato, con rito Fornero, innanzi al Giudice del lavoro di Perugia[1] al quale chiedeva di accertare la legittimità del licenziamento intimato alla lavoratrice che a sua volta si costituiva resistendo con memoria difensiva e formulando contestuale domanda riconvenzionale avente ad oggetto la richiesta di accertamento dell’illegittimità del recesso contrattuale.
Ebbene, il tema della legittimazione all’azione ex art. 18, controverso sin dall’entrata in vigore della riforma, è stato spesso risolto dalla dottrina in senso negativo a partite dal dato letterale dell’art. 1 co. 47 L. 92/2012 che chiaramente legittima alla proposizione di domande aventi ad oggetto l’impugnativa del licenziamento.
Ancora in senso restrittivo si sono espressi autorevoli pareri argomentando a partire dalla carenza di interesse ad agire del datore di lavoro, essendo comunque non molto ampi i termini per l’impugnativa concessi, a pena di decadenza, al lavoratore licenziato[2].
Non sono mancate, peraltro, le obiezioni della dottrina che ha fatto notate come l’art.1 co.47 L. n. 92/12, estendendo il “rito Fornero” alle questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro, consente di contemplare anche le azioni di mero accertamento della legittimità del licenziamento introdotte dal datore di lavoro, il cui interesse sia sorto dall’impugnativa stragiudiziale dello stesso ad opera del lavoratore[3].
In proposito, è da rilevare che la giurisprudenza di merito si sta consolidando, invece, su opposte posizioni[4].
Eloquente il provvedimento del Tribunale di Milano (Ord. n. 5161 del 18 novembre 2014) ove rileva che la ratio sottesa all’intervento legislativo in commento è la volontà del Legislatore di garantire una corsia preferenziale a questo specifico contenzioso.
La suddetta considerazione non è priva di effetti circa la definizione della legittimazione ad agire poiché, se tutte le controversie – che hanno come oggetto l’impugnativa del licenziamento nell’ipotesi regolate dal rinnovato art. 18 Legge 300/1970 – devono essere definite con la procedura di cui al comma 48 e seguenti, sarebbe contrario ai principi di cui agli artt. 3 e 24 Costituzione, limitare l’esperibilità della suddetta azione ad una sola parte del rapporto di lavoro, costringendo l’altra a ricorrere a una tutela oggettivamente differente quale quella ex art. 414 c.p.c.
D’altronde, non vi è modo di affermare che il datore di lavoro non partecipi, seppur per ragioni differenti, del medesimo interesse a una rapida definizione del contenzioso sul licenziamento.
Ed anche il dato letterale, da sempre apparentemente preclusivo di ogni diversa soluzione, sembra effettivamente sostenere la proponibilità dell’azione di accertamento da parte del datore di lavoro: dacché la norma fa genericamente riferimento alle controversie ‘aventi ad oggetto l’impugnativa dei licenziamenti’ senza introdurre distinzioni di alcun tipo sulla base della qualità della parte ricorrente deve ritenersi che la condizione legittimante il ricorso alla suddetta azione sia di natura prettamente oggettiva e consista nell’esistenza di un’impugnazione stragiudiziale del licenziamento (si tratta, in sostanza, della sussistenza di un interesse ad agire ex art. 100 c.p.c.).
E sulla stessa falsariga del Tribunale milanese si pone il giudice di Perugia che non ha dichiarato l’inammissibilità della domanda proposta dalla società ricorrente, accogliendo dunque un orientamento che può dirsi ormai quasi consolidato.
In realtà, la questione non si esaurisce qui ed offre ulteriore spunto di riflessione per le sue implicazioni processuali, considerato che la resistente ha proposto, nel procedimento in cui è convenuta, una domanda riconvenzionale diretta all’accertamento dell’illegittimità del recesso datoriale e, successivamente, un ulteriore ricorso dinnanzi ad altra autorità giudicante.
È lo stesso tribunale di Terni che nella ordinanza in commento rileva, compensando “senz’altro” le spese di giudizio, che “l’iniziativa della lavoratrice – di ricorrere ad autonomo giudizio con domanda identica alla riconvenzionale già proposta dinnanzi al Tribunale di Perugia – non appare ‘velleitaria ed inutile’, bensì ispirata da ragioni di comprensibile prudenza. E ciò tenuto conto degli orientamenti non univoci in ordine all’ammissibilità di una domanda del datore di lavoro, proposta ai sensi della L. 92/2012, tesa a far accertare la legittimità del licenziamento intimato al dipendente (questione non affrontata, in quanto ritenuta, inammissibile, dalle SS.UU. in sede di regolamento di competenza) ed alla opportunità/necessità di evitare eventuali declaratorie di decadenza dell’impugnativa di licenziamento”.
Ed invero, risolto positivamente il problema dell’ammissibilità della domanda di accertamento datoriale, sulla scorta degli stessi principi è possibile colmare la lacuna della L. 92/2012 sulla proponibilità di domanda riconvenzionale già nella prima fase del giudizio.
Si ripropone per chiarezza ed esaustività quanto disposto dal Tribunale di Genova (ord. del 09.01.2013) adito dalla soc. Costa Crociere S.p.a. in veste di datore di lavoro del Comandante Schettino, circa il medesimo problema di diritto: “Dalla obbligatorietà del rito e dalla sua usufruibilità anche da parte del datore di lavoro discende la legittimità della domanda riconvenzionale formulata, dal convenuto […]. Infatti tale domanda null’altro è che una domanda di accertamento della illegittimità del licenziamento con richiesta di essere reintegrato nel posto di lavoro e conseguente pagamento del risarcimento del danno ex art. 18 Statuto lavoratori. Anche se il rito Fornero non disciplina nella fase sommaria la riconvenzionale (cosa che invece fa non ammettendola nella fase di merito, salvo il caso in cui sia fondata su ‘fatti costitutivi identici a quelli posti a base fella domanda principale’, così art.1 comma 56) deve sgombrarsi il campo da ogni possibile equivoco. Il legislatore vuole infatti che con il rito speciale vengano giudicate esclusivamente controversie aventi ad oggetto l’impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall’art.18 della legge 20 maggio 1970 n.300, e successive modificazioni, anche quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro (…). Se la ratio legislativa è quella ora indicata, la domanda riconvenzionale formulata dal convenuto non rientra tecnicamente in quelle previste dall’art.36 c.p.c.”
In altre parole, al di là della prospettazione giuridica della domanda proposta dal convenuto, causa petendi e petitum risultano discriminanti ai fini della valutazione giudiziale di ammissibilità ai sensi del “rito speciale licenziamenti” varato nel 2012.
E ciò vale anche per il caso in cui sia il datore di lavoro a proporre domanda riconvenzionale col medesimo oggetto.
A ciò si aggiungano ulteriori questioni sistematiche non secondarie, circa gli effetti di una declaratoria di inammissibilità di una domanda riconvenzionale di impugnativa del licenziamento da parte del lavoratore che si vedrebbe costretto a riproporre le proprie istanze in fase di opposizione, col rischio di incorrere nei brevi termini decadenziali previsti ex lege (ma della cui natura, tuttavia, qualcuno dubita[5]); di fatti, “diversamente argomentando, dovrebbe ammettersi che agendo in prevenzione, il datore di lavoro possa paralizzare l’azione del lavoratore volta ad ottenere la tutela prevista dall’ordinamento per il licenziamento illegittimo” (cfr. Trib. Milano, ord. n. 5161 del 18 novembre 2014, cit.). Ed ancora ne risulterebbero violati il diritto di difesa, sancito dall’art.24 Cost., e i principi di economicità processuale e parità di trattamento, di cui all’art. 111 Cost.
Da escludersi, poiché palesemente incompatibile con la stessa legge n. 92/2014, la soluzione della separazione delle domande con conseguente trattazione della riconvenzionale (in oggetto, si badi) secondo le forme del processo del lavoro.
Ultima questione processuale aperta dalla concomitanza dei due processi instaurati dinnanzi ai giudici umbri di Perugia e Terni, ed oggetto di commento, è quello del rapporto tra le due cause.
Si legge nell’ordinanza di cancellazione della causa dal ruolo, emessa dal giudice ternano, che l’eccezione di litispendenza è fondata.
Ed invero, come limpidamente disposto nel provvedimento, la combinazione della domanda principale e di quella riconvenzionale poste nel primo giudizio evidenzia in sostanza un petitum ed una causa petendi identici a quelli della causa per ultimo instaurata.
Il percorso argomentativo applicato è lo stesso che ha condotto il Giudice del Lavoro di Torre Annunziata a dichiarare la litispendenza tra il giudizio dinnanzi a sé pendente su ricorso del Comandante Schettino (per l’accertamento dell’illegittimità del licenziamento disposto ai suoi danni dalla soc. Costa Crociere S.p.a.) e quello incardinato dalla società datrice di lavoro dinnanzi al Giudice del Lavoro di Genova per l’accertamento, stavolta, della regolarità della propria determinazione. Anche in tale circostanza il resistente aveva proposto domanda riconvenzionale speculare ed opposta a quella attorea.
La qualificazione del rapporto di litispendenza tra le due cause ebbe poi conferma dalla Corte di Cassazione che, nell’ordinanza n. 17443 del 31.07.2014, emessa a SS.UU, ebbe modo di ribadire che gli elementi richiesti dall’art. 39 del codice di rito ai fini della litispendenza sono l’identità dei soggetti, oltre che del petitum e della causa petendi, a nulla rilevando che un soggetto assuma formalmente in un giudizio la qualità di attore e nell’altro (o negli altri giudizi) quella di convenuto.
Concludiamo, a parere di chi scrive, che non v’è nulla di nuovo sotto il sole per quanto riguarda questa importante conferma, del tutto in linea con un altro precedente (Cass. Sent. n. 1302/04) ove la Consulta ebbe già modo di affermare che la litispendenza, nonché la continenza, si valutano in relazione alla causa e non all’intero procedimento, di guisa che il ricorso proposto dinnanzi al giudice ternano comunque, ed anche in assenza della speculare domanda del convenuto, era in rapporto di litispendenza con la domanda riconvenzionale proposta nel giudizio per primo proposto.
[1] Si precisa che la competenza territoriale dei due Tribunali aditi veniva individuata, dal datore di lavoro (assistito dall’Avv. Prof. Siro Centofanti), con la sede della società (Perugia), e con il luogo di svolgimento del rapporto lavorativo (Terni) da parte della lavoratrice (assistita dagli Avv.ti Vincenzo Iacovino, Valeria Fracasso e Pierpaolo Passarelli).
[2] Cfr. Luiso, in Luiso, Tiscini, Vallebona, La nuova disciplina sostanziale e processuale dei licenziamenti, Torino, 2013, p. 63.
[3] Cfr. De Angelis, Art. 18 dello Statuto dei lavoratori e processo: prime considerazioni, in, Giorn. Dir. Lav. 2012, §4, pp. 763 ss.
[4][4] Ex plurimis, Tribunale di Firenze, verbale di riunione del 17 ottobre 2012, in Guida al Lavoro, n. 46, 2012, p.18.
[5] E. Barraco A. Sitzia, Riforma Fornero e rito speciale: la prima ordinanza di merito, Guida al Lavoro, 2012, n. 42, pp. 27 ss.
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