Tema particolarmente controverso, legato all’amministrazione della giustizia in Italia, è indubbiamente quello del ritardo nella risoluzione delle liti, sintomo di un’inefficienza della giustizia che ha compromesso la certezza del diritto. Inevitabilmente, in un contesto dove il processo non è sempre sinonimo di garanzia del diritto, le aspettative di disservizio convergono, oggi più che in passato, nella direzione di un sostanziale diniego di giustizia, il quale non può che cercare appagamento in servizi alternativi.
La crisi, che ormai da troppi anni incombe sul sistema classico di amministrazione della giustizia, potrebbe forse trovare una valida soluzione nella graduale e significativa affermazione dei sistemi alternativi di risoluzione delle controversie, i quali, rispetto al sistema di giustizia tradizionale, si presentano come strumenti più flessibili, in grado di assicurare più celermente la garanzia dei diritti, salvaguardando allo stesso tempo la certezza, l’effettività e la tassatività del diritto.
Sebbene tali metodi facciano parte della nostra storia, purtroppo sono stati a lungo marginalizzati e sistematicamente ignorati nelle politiche di accesso alla giustizia e nella prassi del diritto e, solo ora, a causa della diffusa insoddisfazione verso i tradizionali metodi aggiudicativi, si assiste al loro recupero.
Ma l’ottimismo è destinato a generare delusioni, se la speranza è solo quella di deflazionare il carico di lavoro dei tribunali. Infatti, le procedure alternative di risoluzione delle controversie, generalmente designate nel linguaggio legale anglosassone con l’acronimo A.D.R. (Alternative Dispute Resolution), sono più efficaci e incontrano il gradimento di cittadini e operatori del diritto proprio laddove la giustizia ordinaria funziona meglio. La procedura informale, rapida e prevalentemente economica, consente alle parti di negoziare direttamente fra di loro la soluzione della controversia con l’assistenza di un terzo neutrale, ma privo di poteri decisori, il quale aiuta le parti ad individuare i loro effettivi interessi e bisogni – anche se non direttamente riconducibili alla materia del contendere – per giungere ad un accordo soddisfacente per entrambe.
Tali metodi non solo forniscono una risposta alle difficoltà che la giustizia classica incontra in molti paesi – rappresentate dal numero sempre crescente delle controversie sottoposte agli organi giurisdizionali, dalla eccessiva durata dei processi, dai costi elevati degli stessi, dalla quantità, complessità e tecnicità dei testi legislativi – ma rivestono anche un ruolo complementare rispetto ai procedimenti giurisdizionali, in quanto spesso sono più adatti alla risoluzione di determinate specie di controversie.
Un dato significativo in favore della preferenza accordata alle procedure alternative anche nel nostro ordinamento potrebbe essere rappresentato dalla percentuale crescente di transazioni. Occorrerebbe approfondire la specificazione quantitativa del numero dei procedimenti che ogni anno vengono statisticamente inseriti nella troppo generica dizione di “cause abbandonate”. Circa l’80% di esse riguarda, infatti, materie attinenti, in maniera più o meno diretta, al campo delle attività economiche (obbligazioni, proprietà, fallimento), con ovvie conseguenze sull’attività imprenditoriale e professionale dei cittadini coinvolti che, nella maggior parte dei casi, si affidano ad una composizione transattiva non sempre conforme agli ideali di giustizia, rappresentando la soluzione imposta dal soggetto economicamente forte contro chi ricopre un ruolo economicamente più debole.
Accade molto spesso che le persone non riescano a superare da sole un conflitto. Il primo aiuto dovrebbe venire proprio dall’avvocato, cui nessuna etica vieta il ruolo del saggio consigliere verso il cliente, a volte “fuori di testa”. Anzi. Un buon difensore dovrebbe sempre consigliare al suo cliente quando osare, quando resistere e quando ripiegare, sapendo che una cattiva amministrazione della giustizia, indipendentemente dalla ragione del petitum, costringe inevitabilmente a mediazioni al ribasso.
Purtroppo, l’opera dei legali italiani in questa direzione non appare abbastanza decisa, soprattutto in provincia, dove l’avvocato tende a campare proprio sui casi minori e l’attività di mediazione non viene quasi mai esperita, danneggiando così non solo i cittadini – clienti ma l’intero meccanismo della giustizia. Ogni avvocato, invece, dovrebbe rendersi conto di rivestire un ruolo pubblicamente rilevante facendosi interprete della società in cui vive, non potendo restare indifferente di fronte all’evoluzione dei fenomeni sociali, in ogni loro aspetto.
Nel dibattito ancora in corso nel nostro Paese, ciò che più allarma gli operatori del diritto e che rappresenta la causa prima di diffidenza verso la media-conciliazione riguarda l’organizzazione istituzionale di queste forme di giustizia stragiudiziarie o paragiudiziarie, per evitare che esse funzionino come dei mercati paralleli o, peggio, siano percepite come modalità degradate di fare giustizia, alle quali potrebbero essere indotte a rivolgersi soprattutto le persone appartenenti ai ceti sociali più vulnerabili.
Tale preoccupazione è, in un certo qual modo giustificata dalla circostanza che, soprattutto nell’ambito della giustizia civile di oggi, si assiste alla progressiva tendenza a dare una soluzione alla crescita della domanda, incentivando la giustizia privata. Questa è una logica abbastanza pericolosa, perchè bisogna assolutamente scongiurare, prima di rischiare la completa paralisi della giustizia nel nostro paese, quello che si sta tristemente verificando nel settore dell’istruzione: l’identica prospettiva potrebbe investire la giustizia, con il perpetuarsi di un sistema pubblico per i poveri e la creazione di un sistema privato per le classi privilegiate.
Il ruolo dell’avvocato, pertanto, vuoi come consulente o come procuratore della parte, vuoi come mediatore, è assai rilevante: gli avvocati hanno da questo punto di vista un ruolo essenziale, alla luce del quotidiano contatto con il contenzioso dei propri assistiti, ed hanno l’opportunità di rendere la media-conciliazione uno strumento di risoluzione delle controversie di primaria importanza ed efficacia nel nostro ordinamento, a prescindere dalla sua obbligatorietà.
Tuttavia, proprio in assenza di una diffusa cultura della mediazione nel nostro Paese e alla resistenza di una parte della classe forense, oggi l’avvocato riveste un ruolo ancora più delicato rispetto al passato, soprattutto dal punto di visto deontologico. Se è vero che la media-conciliazione è vista da molti come strumento per deflazionare il carico giudiziario, è pur vero che deve intendersi anche, e soprattutto, quale chance per un concreto miglioramento delle relazioni sociali e per un diverso approccio ai conflitti, che veda l’accesso alla giurisdizione sussidiario alla media-conciliazione e non il contrario.
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