Il ruolo della buona fede nel diritto dei mercati finanziari: note critiche alle S. U. n. 26724 e 26725 del 2007

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1. Premessa
Il diritto dei mercati finanziari e le recenti sentenze n. 26724 e 26725 del 2007 (“sentenze Rordorf”) offrono lo spunto a dottrina e giurisprudenza per discutere nuovamente del ruolo della buona fede nel diritto dei contratti.
Le pronunce della Suprema Corte (in tema di violazione di obblighi di condotta prescritti a carico dell’intermediario finanziario) hanno invertito l’indirizzo maggioritario secondo cui la violazione di tali prescrizioni si dovrebbe sanzionare con la nullità ex art. 1418, 1 comma, c.c. .
La Corte di Cassazione ha invece stabilito che le norme dell’art. 6 della l. n. 1/91[1] hanno certamente carattere imperativo, ma tale loro natura non implica affatto che la conseguenza della loro violazione sia necessariamente quella della nullità, tanto più nell’assenza di un’espressa scelta normativa in tal senso, pure presente in altri luoghi della stessa disciplina[2].
Secondo la Suprema Corte le regole informative, in quanto espressione della professionalità e della correttezza, vengono più agevolmente ricondotte nella categoria delle regole di condotta anche a dispetto di quella “tendenza evolutiva” in atto (stigmatizzata dal Supremo Collegio) che mette in discussione tali categorie in guisa di “un fenomeno di trascinamento del principio di buona fede sul terreno del giudizio di validità dell’atto[3].
Sempre la Corte sostiene infatti che il dato testuale dell’art. 1418. 1° comma c.c (c.d. nullità virtuali) non può presupporre la violazione di una regola di comportamento perché la contrarietà a norma imperativa prevista è del contratto e non di un comportamento antecedente o successivo alla sua conclusione.
Pertanto il dovere di buona fede ed i doveri di comportamento in generale sono troppo immancabilmente legati alle circostanze del caso concreto, per potere assurgere, in via di principio, a requisiti di validità che la certezza dei rapporti impone di verificare secondo regole predefinite.
La circostanza che il legislatore abbia, in determinati casi, isolato fattispecie comportamentali, elevando la relativa proibizione al rango di norma di validità dell’atto (e di conseguenza l’applicazione del 3° comma e non del 1° comma dell’art. 1418 c.c.) non riguarda casi di norme di comportamento afferenti alle concrete modalità delle trattative prenegoziali o al modo in cui è stata data di volta in volta attuazione agli obblighi contrattuali gravanti su una delle parti, ma bensì al fatto che il contratto è stato stipulato in situazioni che lo avrebbero dovuto impedire.
Secondo la Corte di Cassazione dunque nel settore dell’intermediazione finanziaria non è dato rilevare indici “inequivoci” dell’intendimento del legislatore di trattare sempre e comunque le regole di comportamento, ivi comprese quelle concernenti i doveri di informazione dell’altro contraente, alla stregua di validità degli atti.
La nullità è infatti la massima sanzione prevista dal diritto dei contratti e conseguentemente bisogna comminarla solo nei casi espressamente previsti dal legislatore: nel settore dei mercati finanziari solo in caso di mancanza di forma scritta (ex art. 23 TUF) si può irrogare la nullità[4].
Il mancato rispetto della disciplina in tema di flussi informativi  (antecedenti alla stipulazione del contratto) è invece riconducibile ad una violazione dell’art. 1337 c.c., norma quest’ultima, il cui raggio di azione non si estende esclusivamente alle ipotesi di rottura ingiustificata delle trattativa ma ricomprende altresì il dovere di comportarsi in modo leale, astenendosi da comportamenti maliziosi o anche solo reticenti e fornendo alla controparte ogni dato rilevante, conosciuto o anche solo conoscibile con l’ordinaria diligenza, ai fini della stipulazione del contratto.
 
Da più parti contro queste decisioni si sono levate in dottrina voci critiche[5] incentrate proprio sul ruolo della buona fede all’interno della legislazione post-codicistica.
Per affrontare il tema si deve comunque risalire alle origini della buona fede.
 
2. Origini storiche
La responsabilità precontrattuale è una fattispecie di recente individuazione.
Occorre ricordare che il diritto romano conosceva un concetto di bona fides: la exceptio doli generalis si riferiva non già ad un vero dolo commesso in danno del convenuto nel momento in cui è sorto l’atto giuridico sul quale la domanda giudiziale è fondata, ma bensì ad un dolo impropriamente detto, imputato all’attore allorché chiede una condanna che, sebbene conforme allo stesso diritto, tuttavia, tenuto conto delle varie relazioni ed affidamenti sorti tra le parti, risulterebbe iniqua.
Si deve comunque a Rodolfo Jhering, poco dopo la metà del XIX secolo, nel suo saggio “Culpa in contraendo oder Schadensersartz bei nichtigen oder nicht zur Perfection gelante Vertragen” all’elaborazione dell’istituto della responsabilità precontrattuale: egli si pose il problema se e in quali limiti il soggetto che è stato causa della nullità del contratto debba risarcire il danno sofferto dall’altra parte per aver confidato nella validità del contratto[6].
L’originaria formulazione della responsabilità contrattuale è dunque riconducibile all’art. 1338 c.c.; mentre l’art. 1337 c.c. (rottura ingiustificata delle trattative) è frutto di un elaborazione dei giuristi italiani[7].
La giurisprudenza e la dottrina sul punto avevano inizialmente elaborato una tesi restrittiva secondo cui la responsabilità sorgeva solo quando il contratto era stato concluso invalidamente (l’art. 1338 c.c. era considerato una specifica applicazione del più generale obbligo imposto dall’articolo precedente); successivamente sono passati ad una tesi intermedia secondo cui l’art. 1337 c.c. contiene una massima per cui le parti hanno il dovere di non recedere dalle trattative senza giusta causa, quando queste sono giunte ad un punto tale da creare l’affidamento nella conclusione del contratto futuro; ed infine oggi ad una tesi estensiva secondo cui si applica l’art. 1337 quando un contraente subisce una lesione, dopo aver concluso il contratto, a causa del comportamento scorretto dell’altra parte per danni che non potrebbero considerarsi né contrattuali né extracontrattuali.
Seguendo l’evoluzione della dottrina e della giurisprudenza si deve concludere per ritenere che la buona fede nel nostro ordinamento oggi assurga a clausola generale: una norma di chiusura del sistema, idonea a sanzionare tutti quei comportamenti scorretti di un contraente nei confronti dell’altro e per cui non è applicabile nessun altra norma speciale[8].
In tema di contratti il principio di buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve dunque presiedere all’esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione e, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase[9].
In una recente pronuncia la Suprema Corte ha sostenuto che la buona fede si sostanzi in un generale obbligo di solidarietà (derivante dall’art. 2 Cost.) che impone a ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra a prescindere tanto da specifici obblighi contrattuali, quanto dal dovere extracontrattuale del “neminem laedere”, trovando tale impegno solidaristico il suo limite precipuo unicamente nell’interesse proprio del soggetto, tenuto, pertanto al compimento di tutti gli atti giuridici e/o materiali che si rendano necessari alla salvaguardia dell’interesse della controparte nella misura in cui essi non comportino un apprezzabile sacrificio a suo carico[10].
 La matrice prima della buona fede resta comunque l’informazione: su di essa si misura infatti il grado di probità della parte che, conoscendo dati di fatto importanti per la decisione contrattuale dell’altra, a questa li dovrebbe comunicare.
Il tema del binomio buona fede/informazione ha trovato la sua massima espressione nella legislazione consumerisitca di matrice comunitaria.
 
 
3. L’evoluzione della buona fede nel diritto comunitario
Nel Trattato di Roma non compare mai l’espressione “buona fede” né quella di “correttezza”, ma bensì nel preambolo vi è un generico riferimento al dovere di lealtà nella concorrenza rivolto sia agli Stati sia, indirettamente, alle imprese.
La prima comparsa dell’ espressione “buona fede” è in una Direttiva che risale al 1986 (86/653) in tema di agenti commerciali dove si afferma che l’agente commerciale deve, nell’esercizio della propria attività, tutelare gli interessi del preponente ed agire con lealtà e buona fede.
Successivamente il richiamo alla buona fede diventa una costante della legislazione comunitaria: la famosa Direttiva 93/13 sulle clausole abusive, poi la Direttiva 93/83 sulle trasmissioni via satellite, la Direttiva 97/7 sui contratti stipulati a distanza e così via.
L’antica funzione correttiva ed equitativa della bona fides del diritto romano è invece sconosciuta ai sistemi di common law: la good faith inglese rappresenta uno dei problemi dell’attuale diritto privato comunitario[11].
Il diritto inglese è infatti fortemente restio alla buona fede: la filosofia del “laisser-fare” è la legge per imprenditori ed uomini d’affari che contrattano presuntivamente su un piede di parità, ognuno libero di trarre il maggior profitto possibile (una volta concluso l’affare è vincolante per il meglio o per il peggio)[12].
Per un giurista di common law sono inconcepibili le soluzioni dei giudici continentali che in nome della buona fede e dell’equità integrano il contenuto del contratto e precludono al creditore l’esercizio del suo diritto.
Un dato di fatto di cui però anche i giuristi inglesi hanno dovuto prendere atto è che il principio di buona fede è riconosciuto da norme comunitarie come vigente principio di diritto: la Direttiva 93/13 sulle clausole abusive è stata recepita dagli Stati membri (eccezione in questo caso fa l’Italia dove la buona fede è intesa come stato soggettivo del professionista che non impedisce la vessatorietà delle clausole contrattuali) come precetto dell’onestà contrattuale che richiede al professionista di trattare in modo leale ed equo la controparte di cui deve tenere presenti i legittimi interessi[13].
Il richiamo della buona fede comincia inoltre ad essere anche più frequente nella giurisprudenza della Corte di Giustizia[14].
 
4. La buona fede assurge a regola di validità?
In linea generale quindi il contenuto del dovere di buona fede si scompone in una serie di doveri di condotta la cui violazione genera responsabilità precontrattuale.
Tra questi doveri assume un ruolo primario il dovere d’informazione, particolarmente marcato laddove vi siano “asimmetrie informative”: la parte che conosce dati rilevanti per la valutazione del contratto dal punto di vista della controparte e sa che questa invece li ignora ha il dovere di informare controparte[15].
In certi casi i doveri di informazione precontrattuale a carico di operatori professionali sono codificati dalla legge in nome del principio di trasparenza: l’art. 21 Tuf è uno di questi casi.
Il nuovo testo dell’art. 21 Tuf obbliga l’intermediario di comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza per servire al meglio l’interesse del cliente e garantire l’integrità del mercato.
Obiettivo del legislatore è che l’attività sia efficace ed il mercato finanziario efficiente: le regole di condotta prevengono infatti le inefficienze[16].
Il dilemma è questo: si può sostenere che la violazione di questi doveri ( e dunque della buona fede) comporti la nullità del contratto (ex art. 1418 c..c. 1 comma)? La distinzione tra regole di validità e regole di comportamento è definitivamente scomparsa?
A favore di una risposta positiva militano diverse argomentazioni:
a)   la natura imperativa della normativa sull’intermediazione finanziaria[17];
b) le regole di comportamento danno luogo ad invalidità in molti casi edittali come la compravendita immobiliare in cui il costruttore alienante non rilasci la fidejussione (art. 2 d.lgs. n. 122/05), oppure l’acquisto di multiproprietà in cui l’alienante non rilasci fidejussione (art. 76 cod. cons.), oppure il contratto telefonico in cui il professionista non abbia subito dichiarato al consumatore la propria identità e lo scopo commerciale della sua chiamata (art. 52 comma 3 cod. cons.)[18];
c) nello stesso settore dell’intermediazione finanziaria il legislatore per la commercializzazione a distanza di servizi finanziari ha previsto la nullità laddove il fornitore ostacoli il recesso o violi gli obblighi di informativa precontrattuale in modo da attrarre la rappresentazione del servizio fornito[19];
d) il ruolo della buona fede nella legislazione consumeristica, per cui l’informazione (specifica e non semplicemente generica) è destinata a concorrere alla definizione del programma economico oggetto di una contrattazione in fieri o di un vincolo già esistente tra due contraenti.
Sulla scorta dei punti elencati la “classica” distinzione tra regole di validità/regole di responsabilità vacilla: il codice del 1942 e i principi in esso contenuto appaiono poco adatti a disciplinare questo settore di nuova generazione[20].
Infatti qualcuno in dottrina, già negli anni ’70[21] , sosteneva che la sanzione per la violazione dell’obbligo di buona fede nella formazione del contratto doveva ravvisarsi nella invalidità del prodotto del comportamento lesivo.
La giurisprudenza in materia di intermediazione finanziaria si era infatti orientata, in gran parte, nel sostenere che gli obblighi di protezione e trasparenza non hanno solo una dimensione “protettiva”, con specifico riferimento alla formazione della volontà e del convincimento, ma assurgono ad un ruolo attivo di conformazione del rapporto, spostandosi così nella definizione di un modello ottimale ed efficiente di scambio di mercato[22].
I concetti di “correttezza”, “diligenza” e “trasparenza” (ex art. 21 Tuf) hanno dunque un significato più ampio di quelli di cui alle norme codicistiche, operando non soltanto nel quadro di un rapporto obbligatorio con l’investitore per la tutela del soddisfacimento del suo interesse, ma anche, più in generale, in relazione allo svolgimento della attività economica, ossia come canone di condotta volto a realizzare una leale competizione e garantire l’integrità del mercato[23].
Deve concludersi che il riferimento all’art. 1337 c.c. , in virtù del quale le parti devono comportarsi secondo buona fede nello svolgimento e nella formazione del contratto, e l’obbligo ex art. 1338 c.c., di dare notizia alla controparte delle cause di invalidità note ad un solo contraente, rivelano la loro inadeguatezza nell’ambito delle discipline settoriali connotate da uno squilibrio di conoscenza e consapevolezza tra le parti contrattuale, oltre che dallo squilibrio economico di forze economiche e poteri contrattuali[24].
Il tema oggi torna con tutto il suo vigore attraverso i P.E.C.L. (principi europei del diritto dei contratti) dove è previsto che le parti siano libere di stipulare contratti e di determinarne il contenuto, nel rispetto della buona fede e della correttezza nonché delle norme imperative[25].
Appare opportuno comunque ricordare che elemento essenziale in questi contratti è l’accordo informato[26] teso a verificare la convenienza dell’operazione economica e dunque ad incidere, ad “inquinare”, il contenuto del regolamento contrattuale[27].
Quindi la violazione di norme imperative ai sensi del primo comma dell’art. 1418 c.c. postula necessariamente che la buona fede, in questo settore, attenga agli elementi “intrinseci” della fattispecie negoziale, cioè relativi alla struttura o al contenuto del contratto.
 
 
Dott. A. De Luca
Specializzando presso la S.S.P.L. “G. Scaduto” di Palermo
 


[1] Il caso oggetto della pronuncia riguardava fatti avvenuti sotto la vigenza della vecchia normativa e per l’esattezza dell’ art. 6 della c.d. legge Sim che  imponeva agli intermediari finanziari “di comportarsi con diligenza, correttezza e professionalità nella cura dell’interesse del cliente”; requisiti di condotta che comunque si ritrovano trasfusi nell’attuale art. 21 del Tuf (d.lgs. n.58/98).
[2] Il riferimento è all’art. 23 Tuf che sanziona espressamente con la nullità la mancanza di forma scritta nel contratto di intermediazione finanziaria; al riguardo una attenta analisi della nozione dei rapporti tra nullità del contratto e norma imperativa viene fatta da Di Marzio F.,La nullità del contratto, Cedam, 2008, pagg. 429-508
[3] Per un attenta analisi dei temi affrontati dalle sentenze vedi Scognamiglio C., Regole di validità e di comportamento: i principi e i rimedi, in Europa e diritto privato, 2008, fasc. 3, pagg. 599-634
[4] Tencati A., Acquisto di corporate bonds e tutela del risparmiatore, in Giurisprudenza italiana, 2006, pag. 1155
[5] Per un’ analisi favorevole a questa pronuncia vedi invece Galgano F., Il contratto di intermediazione finanziaria davanti alle Sezioni Unite della Cassazione, in Contratto e impresa, 2008, fasc. 1, pagg. 1-10 ma anche Cottino G., La responsabilità degli intermediari finanziari e il verdetto delle Sezioni Unite: chiose, considerazioni ed un elogio ai giudici, in Giurisprudenza italiana, Febbraio 2008, pagg. 353-357
[6] Per un attenta ricostruzione della posizione di R. Jhering vedi Palmieri D., La responsabilità precontrattuale nella giurisprudenza, Giuffrè, Milano, 1999 ma soprattutto Castronovo C. Mazzamuto S. , Manuale di diritto privato europeo, Giuffrè
[7] Non mi soffermerò sul dibattito ancora aperto sulla natura della responsabilità precontrattuale; tuttavia al riguardo è bene sottolineare che solo la giurisprudenza ed una parte della dottrina (Bianca) ritengono che si tratti di responsabilità extracontrattuale, mentre la maggior parte della dottrina (sulla base di un esame storico dell’articolo di Jhering) ritengono che abbia natura contrattuale.
[8] Per una panoramica dell’utilizzo della buona fede nelle recenti sentenze della Cassazione vedi Buffoni L., Buona fede e correttezza nella visione della più recente giurisprudenza di legittimità, in www.ildirittopericoncorsi.it
[9] Cass. n. 13345/07
[10] Cass. n. 14065/04
[11] Nel 1994 la House of Lords aveva negato l’applicabilità nel diritto inglese delle regole basate sulla buona fede in senso oggettivo.
[12] Whincup sosteneva che “la legge non riscriverà i contratti in nome di astratti ideali di buona fede o giustizia”.
[13] Bianca M., Buona fede e diritto privato europeo, in Il ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza giuridica storica e contemporanea, Cedam, 2003, pagg. 201-205
[14] Per una panoramica del ruolo della buona fede nella legislazione comunitaria e nella giurisprudenza della Corte di Giustizia vedi l’articolo di Benacchio G., La buona fede nel diritto comunitario, in Il ruolo delle buona fede oggettiva nell’esperienza giuridica storica e contemporanea, Cedam 2003, pagg. 189-200
[15] Roppo V. , Il contratto, Giuffrè
[16] Sul punto vedi il mio scritto su questa rivista De Luca A., Sezioni Unite della Cassazione sulla condotta degli intermediari finanziari: uno sguardo di analisi economica del diritto.
[17] Sull’argomento una attenta analisi viene fatta da Autelitano F., La natura imperativa delle regole di condotta degli intermediari finanziari, in I Contratti, 12, 2008, pagg. 1157- 1161 ma anche la recente pronuncia del Tribunale di Modena del 10 Gennaio 2008 in www.ilcaso.it
[18] Gentili A., Disinformazione e invalidità: i contratti di intermediazione dopo le Sezioni Unite, in I Contratti, 2008, fasc. n. 4, pagg. 393-402  secondo cui l’intermediazione finanziaria in violazione del dovere di buona fede dovrebbe essere una di queste eccezioni
[19] Sangiovanni V., La nullità del contratto nella commercializzazione a distanza dei servizi finanziari, in Corriere giuridico, 10, 2008, pagg. 1469-1474 in cui configura una nullità “da comportamento”, diversa dalla nullità classica, che attiene invece a vizi intrinseci dell’atto.
[20] Sulla questione della “storicità” del diritto civile ed il suo utilizzo per il mercato finanziario un’approfondita analisi viene svolta da La Rocca, Il contratto di intermediazione mobiliare tra teoria economica e categorie civilistiche, in www.ilcaso.it 
[21] Sacco R., Il contratto, 1975, pag. 669 s. ma ancoraoggi lo stesso autore Sacco R.-De Nova G., Il contratto, in Tratt. Dir. Civ., 2004 , pag. 244
[22] Trib. Firenze, 19 Aprile 2005
[23] Trib. Teramo, 18 Maggio 2006
[24] Greco F., Intermediazione finanziaria: “la nullità virtuale” per violazione di obblighi di informazione, in www.ilcaso.it
[25] Un’ opinione contraria viene invece espressa da Scognamiglio C., Regole di validità e di comportamento: i principi e i rimedi, in europa e diritto privato, 2008, fasc. 3, pagg. 599-634
[26] Sempre Gentili A., op. cit., pag. 399
[27] Sul tema una ricostruzione favorevole alla tesi della annullabilità per dolo o errore viene fatta da Visintini G., La responsabilità della banca per falese informazioni nel quadro dei servizi ai clienti, in Mercato finanziario e tutela del risparmio, Cedam 2006 pagg. 107-130 ma soprattutto Mancini A. M., La tutela del risparmiatore nel mercato finanziario, in Rass. Dir. Civ. , 1, 2007 pagg. 51-88

De Luca Alessandro

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