La funzione della mediazione
Come altre forme di gestione non giudiziaria del conflitto, la mediazione si propone di tentare di contenere e regolare la conflittualità tra le parti secondo una prospettiva tesa a scongiurare la delega delle decisioni sulle questioni controverse ad un soggetto terzo: il giudice. In altre parole, il primo significato della mediazione è quello di riaffermare l’autodeterminazione dei soggetti in conflitto, ri-attribuendogli la competenza e la responsabilità della gestione del loro rapporto conflittuale.
Tra le caratteristiche più note della mediazione vi sono quelle relative all’imparzialità e alla neutralità del mediatore. Ma, accanto a queste ve ne sono altre, che costituiscono contemporaneamente una premessa teorica e un’indicazione operativa sull’atteggiamento che dovrebbe costantemente mantenere il mediatore. Tutti i modelli di mediazione – non ve n’è infatti uno solo, ma molti e significativamente eterogenei tra loro sia sul piano teorico che applicativo – si basano sul presupposto che il conflitto in sé non è né un bene né un male: c’è, è un fatto naturale. Inoltre, esso non è indicativo di una maggiore o minore moralità, maturità, adeguatezza di coloro che sono in conflitto. Da ciò discende un’altra caratteristica: il mediatore non solo non decide al posto delle parti la soluzione del loro conflitto, ma neanche le giudica – ciò, peraltro, in qualche misura si correla anche alla garanzia della tutela della riservatezza di quanto esse gli comunicano. La terza caratteristica – ma ve ne sono alcune altre ancora – riguarda il fatto che il mediatore deve sapere ascoltare le parti, o per meglio dire le persone, con cui si relaziona.
Da questi aspetti fondativi della mediazione derivano alcune conseguenze. La più ovvia è che, nella pratica della mediazione, i genitori non dovrebbero mai sentirsi porre sotto accusa né sotto giudizio dal mediatore per il solo fatto di essere in conflitto o per i modi con cui lo affrontano e lo vivono. L’ascolto – empatico – svolto dal professionista e la sua sospensione del giudizio sulle persone che ha di fronte, a ben vedere, rendono la mediazione un percorso idoneo a liberarle dalla preoccupazione secondo cui “dimostrare che ho ragione significherebbe ammettere che potrei avere torto” (Beaumarchais). Ciò significa che nella stanza della mediazione si attenua l’ansia di riuscire ad essere persuasivi circa la correttezza etica e morale e l’appropriatezza psicologica e sociale dei propri pensieri, sentimenti e comportamenti sviluppati nel conflitto.
Se queste sono alcune delle prerogative che offre il percorso di mediazione, in virtù della sua irrinunciabile natura a-valutativa, è ovvio che esse si correlano al fatto che la mediazione non è un mero intervento tecnico, non è una procedura. Come altre professioni, è in primo luogo una relazione. Una relazione tra persone, di cui una è chiamata, ascoltando, ad aiutare le altre, le quali sono coinvolte in un conflitto che, il più delle volte, ha raggiunto rilevanti livelli di escalation, anche e soprattutto sul piano dell’incomunicabilità. La mediazione, perciò, è una relazione che può consentire alle persone di ritrovare fiducia nello strumento della parola, dal momento che le fa esperire la possibilità di qualcuno che non solo comprende quel che dicono e cercano di dire, ma le aiuta anche comunicare tra di loro.
La Convenzione di Istanbul
Nel suo intervenire su questa non semplice materia, sarebbe opportuno che il legislatore tenesse presente questi aspetti, specie riguardo al porre in stretta correlazione il procedimento giurisdizionale con il percorso mediativo. Analogamente, pare naturale ricordare che l’art. 48, punto 1, della Convenzione di Istanbul del 2011, ratificata dall’Italia nel 2013, vieta l’intervento di mediazione familiare nei casi in cui nella relazione vi sia una dimensione di violenza (non esclusivamente fisica).
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