Il ruolo giuridico e politico dell’ ONU

Redazione 28/08/00
S. Giannini

Origini e formazione delle Nazioni Unite

La seconda guerra mondiale conferì una nuova entità e un nuovo valore ai conflitti, non solo per l’entità del massacro (50 milioni di morti, per oltre due terzi civili), ma anche per le modalità con cui avvenne, dai bombardamenti indiscriminati, alle violazioni di ogni regola umanitaria, allo sviluppo di nuovi mezzi di distruzione di massa.

Questa lezione produsse un diffuso bisogno di cambiamento diretto ad un nuovo assetto mondiale che assicurasse una rifondazione, su basi più stabili, del sistema di relazioni internazionali: promotori e garanti del nuovo progetto furono gli Stati Uniti.

L’Organizzazione delle Nazioni Unite, all’indomani della guerra, si fecero portatrici di due diverse, ed in parte confliggenti, istanze: quella utopica ed universalistica di matrice wilsoniana e quella rooseveltiana sulla necessità di un “direttorio” di grande potenze come unico strumento di governo degli affari mondiali, puntando così a “salvare le generazioni future dal flagello della guerra” e a impiegare “strumenti internazionali per promuovere il progresso sociale e economico di tutti i popoli”.

La Carta delle Nazioni Unite, firmata a San Francisco il 26 giugno 1945, rispecchia questa dicotomia attraverso ala giustapposizione dei due organi principali: da un lato, l’Assemblea Generale che, frutto della componente wilsoniana, si fonda sull’uguaglianza sovrana dei suoi membri, dall’altro il Consiglio di Sicurezza, a composizione ristretta che, attraverso il conferimento del diritto di veto ai suoi cinque membri permanenti introduceva un sostanziale gerarchia all’interno dell’organizzazione. Il Consiglio di Sicurezza finì per sovrapporre, in questo modo, almeno nella fase iniziale di vita dell’ONU, all’idealismo di cui era imbevuto il progetto, la realtà della politica di potenza statunitense e sovietica e della loro crescente rivalità. Esempio significativo, a questo proposito, fu la battaglia di veti incrociati fra le superpotenze per l’ingresso nell’Organizzazione dell’Italia, da una parte, e dell’Ungheria, Romania e Bulgaria, dall’altra, che si avviò a soluzione soltanto nel 1955 in quel nuovo contesto internazionale caratterizzato dall’”early detent”.

Nel panorama delle diverse organizzazioni internazionali, le Nazioni Unite occupano senz’altro una posizione centrale, non solo per il loro carattere di universalità, dato che ne fanno parte quasi tutti gli Stati del mondo, ma anche per i suoi fini. Oltre a responsabilità specifiche conferite loro in materia di mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, l’ONU ha anche il compito di sviluppare fra le nazioni relazioni amichevoli e di assicurare la cooperazione internazionale nei settori economico, sociale, culturale e umanitario, ed infine di promuovere il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

La centralità dell’ONU si riflette nella posizione di preminenza che l’Organizzazione esercita nell’ambito della Comunità internazionale e del suo diritto e si manifesta innanzitutto nella funzione di impulso svolta nel sistema delle Nazioni. Questa funzione assume carattere squisitamente politico, nella misura in cui l’ammissione di nuovi Stati all’Organizzazione è subordinata al possesso di determinati requisiti che implicano una valutazione politica sulla democraticità dell’organizzazione dei singoli Stati.

Anche in ragione dell’universalità, l’ONU costituisce il foro in cui trovano compensazione e espressione le istanze di rinnovamento del diritto internazionale, e assurge a più importante organismo di creazione del diritto. Da un lato, essa rappresenta il motore per la codificazione e lo sviluppo progressivo del diritto internazionale a livello universale, infatti sotto la sua egida e attraverso l’opera preparatoria della Commissione del diritto internazionale, sono state concluse numerose convenzioni di codificazione e di sviluppo progressivo. D’altro lato, essa contribuisce in maniera rilevante al consolidamento e all’evoluzione del diritto consuetudinario, in primo luogo attraverso le Dichiarazioni di principi, che l’Assemblea adotta nei diversi ambiti di riferimento, e poi come luogo di formazione della prassi internazionale e di espressione dell’opinio iuris degli Stati. L’ONU rappresenta una comunità volontaria, non solo nel senso che ogni Stato è libero di parteciparvi, ma anche per il fatto che essa riflette pienamente il carattere non autoritario della Comunità Internazionale. Con l’eccezione rilevante del sistema di sicurezza collettiva, i suoi strumenti di azione non sono di carattere coercitivo, ma operano prevalentemente attraverso raccomandazioni e risoluzioni non vincolanti.

Gli organi dell’ONU

Organi principali dell’Organizzazioni delle Nazioni Unite sono, in base all’art.7 della Carta:

– il Consiglio di Sicurezza

– l’Assemblea Generale

– il Segretariato Generale

– il Consiglio Economico e Sociale

– il Consiglio di amministrazione fiduciaria

– la Corte Internazionale di Giustizia

Il Consiglio di Sicurezza si compone di 15 membri ( 11 fino al 1965 anno in cui si provvide all’allargamento attraverso una modifica della Carta, per tener conto dell’aumento del numero complessivo dei membri dell’organizzazione), 5 dei quali – Cina, USA, URSS, Regno Unito e Francia – sono membri permanenti. Gli altri 10 membri sono eletti per un biennio dall’Assemblea Generale “avendo speciale riguardo, in primo luogo, al contributo dei membri delle Nazioni Unite, al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale” (art. 23 della Carta delle Nazioni Unite).

Si parla di diritto di veto dei cinque membri permanenti del Consiglio, in relazione alla norma contenuta nell’art. 27 par. 3, la quale prescrive che le decisioni di carattere non procedurale siano prese con il voto favorevole di 9 membri, e che tra questi figurino tutti i membri permanenti; norma questa introdotta per venire incontro alle preoccupazioni di un’ Unione Sovietica che all’atto della nascita dell’organizzazione temeva di poter facilmente essere messa in minoranza (solo 5 Stati Membri erano allora “satelliti” sovietici). Non vi è dubbio che la validità di una delibera sia subordinata alla circostanza che tutti i cinque membri permanenti votino a favore. Pertanto anche la mera astensione di un membro permanente dovrebbe considerarsi veto, ed in questo senso si esprimono la lettera dell’art. 27 che richiede espressamente che i voti dei 5 siano “compresi” nel voto dei 9; dallo spirito dell’art. 27 che sembra richiedere, per il mantenimento della pace e della sicurezza efficace, l’adesione incondizionata delle grandi potenze. Ciò premesso, occorre aggiungere che la prassi dell’organizzazione fu, sin dai primi anni, quella di ammettere la validità delle delibere prese con l’astensione di uno o più membri permanenti. Tale prassi si consolidò per il concorde atteggiamento di tutti gli Stati, dando origine ad una delle poche regole non scritte, consuetudinarie dell’Organizzazione. Questione più delicata sorge poi per il cd. “doppio veto”, problema che si pone quando si tratti di decidere quale sia la maggioranza competente a votare la questione preliminare sulla natura (procedurale o sostanziale) di un atto sul quale successivamente si dovrà votare. Doppio veto nella misura in cui, riconoscendo natura sostanziale alla questione preliminare, si “attribuisca” il diritto di veto oltre che sull’atto in generale, anche sulla suddetta questione. La soluzione alla questione del doppio veto non è offerta né dalla Carta né dalla prassi: così nei primi anni ci si orientava verso la natura sostanziale della questione preliminare, con la conseguenza, ad esempio, che nel 1948 la creazione di un sottocomitato per la raccolta di documentazione e di testimonianze sul colpo di Stato in Cecoslovacchia, fu bloccato dal veto sovietico in fase preliminare. Sembra ci si orientasse a favore del diritto di veto anche se, molti governi non avevano mancato di protestare contro l’abuso di un simile diritto e di difendere accanitamente la natura procedurale delle delibere in discussione. Dal 1950 in poi il Consiglio di Sicurezza cominciò a modificare il proprio punto di vista, decidendo di non temere conto del veto della Cina a proposito della questione di Formosa, e più tardi nel 1959, della posizione sovietica, durante l’esame della questione dell’infiltrazione dei guerriglieri comunisti nel Laos. In realtà non esiste tuttora una soluzione, in quanto si tratta di un problema mal posto. E’ inutile chiedersi quale sia la maggioranza competente a decidere la questione della natura sostanziale o procedurale di una delibera, in quanto il Consiglio al pari di ogni altro organo ONU, non ha competenza assoluta e sovrana nell’interpretare la Carta e nell’imporre la sua interpretazione, con la conseguenza che le decisioni potranno essere oggetto di contestazioni di legittimità, in riferimento agli effetti riguardanti gli atti.

L’Assemblea Generale è costituita da tutti gli Stati membri dell’organizzazione; ogni membro ha diritto ad avere 5 rappresentati in seno all’organo (art. 9 par. 2), ma dispone di un solo voto ( art. 18 par.1). La discordanza fra numero di delegati e numero di voti dovrebbe avere un duplice scopo: teorico e pratico. Teorico, cioè di permettere la partecipazione a più persone portatrici, anche se provenienti dallo stesso Stato, di opinioni o interessi diversi in sede di dibattito. Pratico, considerate le vaste composizioni e competenze dell’assemblea che svolge i suoi lavori in seduta plenaria, commissioni e sottocommissioni.

Il Segretario Generale è il più alto funzionario amministrativo dell’Organizzazione (art. 97), la carica è ricoperta da un individuo che non è organo di alcuno Stato, ma che anzi è tenuto a non sollecitare né ricevere istruzioni da alcun governo (art. 100). Il Segretario Generale è nominato, ai sensi dell’art. 97, dall’Assemblea Generale su proposta del Consiglio di Sicurezza. Trattandosi di questione non procedurale, la delibera del Consiglio è soggetta al veto di uno dei membri permanenti: in sostanza vi deve essere perfetta intesa fra Consiglio e Assemblea quanto alla nomina. Poiché l’art. 97 non fissa la durata del mandato, questa deve risultare in qualche modo concordata tra Assemblea e Consiglio; quando manchi un termine finale concordato, la soluzione più ortodossa consiste nel ritenere che il Segretariato duri in carica finché non sia revocato dall’Assemblea su proposta del Consiglio.

Pur essendo il più alto funzionario amministrativo, al Segretario Generale viene attribuita la facoltà di svolgere attività autonome in seguito ad un mandato dell’Assemblea Generale o del Consiglio di Sicurezza. Per attività autonome si intendono tutte quelle attività dirette a promuovere o facilitare, direttamente o indirettamente, la prevenzione, la regolamentazione o il controllo di tensioni o dispute internazionali. Si apre così una crepa nel carattere prettamente tecnico delle attività svolte dal Segretario, crepa che pone la questione della necessità della riforma del ruolo ricoperto.

Il Consiglio Economico e Sociale è un organo ausiliario dell’Assemblea che ha il compito di promuovere la collaborazione internazionale nel campo economico e sociale “sotto la direzione dell’Assemblea” (art. 60), si compone di 54 membri eletti per una durata di 3 anni (art. 61). Si riunisce in sessione ordinaria due volte l’anno e in sessione straordinaria quando lo richieda la maggioranza dei suoi membri o in una serie di altri casi previsti dal suo regolamento interno.

Ogni membro del Consiglio dispone di un voto; le risoluzioni sono adottate a maggioranza dei membri presenti e votanti (art. 67). In base all’art. 69 il “Consiglio Economico e Sociale inviterà ogni membro delle Nazioni Unite a partecipare, senza il diritto di voto, alle sue deliberazioni su qualsiasi questione di particolare interesse per tale membro”. L’art. 69 è formulato in maniera tale da non lasciare margine alla discrezionalità dell’organo nel decidere se una materia è “di particolare interesse” per lo Stato estraneo. Assai numerosi sono gli organi sussidiari che il Consiglio è andato istituendo nel corso degli anni, in conformità all’art. 68 della Carta “Il Consiglio istituisce commissioni per le questioni economiche e sociali e per promuovere i diritti dell’uomo, nonché quelle di altri commissioni che possono essere richieste per l’adempimento delle sue funzioni”.

I più importanti fra tali organi sono le Commissioni tecniche o funzionali (per la statistica, per i diritti umani, per lo sviluppo sociale, per la popolazione..) e le Commissioni economiche regionali (per l’Africa, l’Asia e l’Estremo Oriente, per l’Europa e per l’America Latina).

Al Consiglio si ricollegano per vari aspetti gli stessi organi sussidiari dell’Assemblea Generale operanti nel settore economico e sociale, molto dei quali devono seguirne le direttive. A sua volta l’Assemblea, in quanto organo alla cui autorità il Consiglio è sottoposto, ha tutto il potere necessario per impartire direttive agli organi sussidiari del Consiglio così come il Consiglio stesso. In definitiva tutti gli organi dell’ONU operanti nel settore economico e sociale, tutti gli organi oggi preposti allo sviluppo possono ritenersi ordinati in forma gerarchica con al vertice l’Assemblea Generale e nel grado successivo il Consiglio Economico e Sociale. Tuttavia tutto il sistema dello sviluppo sia andato avanti in modo caotico, con scarsa coordinazione e con molta dispersione di energie.

Il Consiglio di Amministrazione Fiduciaria è un organo che ha perso rilevanza, con la scomparsa dell’istituto dell’amministrazione fiduciaria per effetto della decolonizzazione, in passato era diventato il mezzo con il quale i Paesi di recente indipendenza combattevano contro l’imperialismo occidentale. Il Consiglio opera sotto la direzione dell’Assemblea (art. 87), salvo quando esercita le sue funzioni con riguardo a territori considerati in tutto o in parte come zone strategiche, nel qual caso è subordinato al Consiglio di Sicurezza (art. 83). Secondo la Carta la sua composizione è variabile, stabilisce, infatti, l’art. 86 “il Consiglio di Amministrazione Fiduciaria si compone dei seguenti membri delle Nazioni Unite a) i membri che amministrano i territori in amministrazione fiduciaria; b) quelli, tra i membri menzionati nominativamente dall’art. 23 che non amministrano i territori in amministrazione fiduciaria; c)tanti altri membri eletti per la durata di 3 anni dall’Assemblea generale quanti siano necessari per ottenere che il numero totale dei membri del Consiglio di Amministrazione Fiduciaria si divida in parti uguali tra i membri delle Nazioni Unite che amministrano”.

La Corte internazionale di giustizia, con sede all’Aia, è il principale organo giudiziario delle Nazioni Unite e comprende tutti gli stati membri dell’ONU. Gli stati non membri possono farne parte su raccomandazione del Consiglio di sicurezza. L’Assemblea generale e il Consiglio di sicurezza possono chiedere pareri alla Corte, a titolo consultivo, sulle questioni giuridiche. La Corte dirime anche il contenzioso giuridico tra stati che ne fanno richiesta. È composta da 15 magistrati indipendenti dagli stati, eletti per nove anni (rieleggibili) dall’Assemblea generale e dal Consiglio di sicurezza.

Altri organi dell’Organizzazione delle Nazioni Unite

Altri organi dell’ONU importanti per la loro attività e per lo sviluppo del sistema delle Nazioni sono:

ACNUR, Fondato nel 1951, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (ACNUR o UNHCR, United Nations High Committee for Refugees, con sede a Ginevra) garantisce protezione giuridica e aiuti materiali ai profughi su basi strettamente umanitarie. L’ACNUR conta 60 uffici in tutto il mondo, che si occupano di circa 20 milioni di profughi espatriati e di circa 25 milioni di profughi all’interno del proprio paese. Alto commissario: Sadoka Ogata (Giappone).

CMA, il Consiglio mondiale dell’alimentazione (CMA, con sede a Roma), fondato nel 1974, in occasione della Conferenza mondiale dell’alimentazione, è composto dai rappresentanti di 36 paesi membri dell’ONU, di livello ministeriale. È incaricato di esaminare periodicamente la situazione alimentare mondiale e di esercitare pressioni sui governi e sugli organismi competenti.

PAM, Il Programma alimentare mondiale (PAM, con sede a Roma) è stato costituito nel 1963 sia per rispondere ai bisogni dei paesi con carenze di prodotti alimentari sia per smaltire la sovrapproduzione cerealicola. Il PAM, patrocinato congiuntamente dall’ONU e dalla FAO, contribuisce anche a rispondere ai bisogni alimentari d’emergenza venutisi a creare in conseguenza di catastrofi naturali.

UNCTAD Fondata nel 1964 poiché i paesi in via di sviluppo consideravano che il GATT fosse espressione esclusiva delle posizioni dei paesi industrializzati, la Conferenza delle Nazioni Unite per il commercio e lo sviluppo (UNCTAD, United Nations Conference on Trade and Development, con sede a Ginevra) è un’organizzazione che ha dato impulso all’analisi e al dibattito Nord-Sud. Suo organo permanente è il Consiglio del commercio e dello sviluppo.

UNDP Il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (UNDP United Nations Development Program, con sede a New York), fondato nel 1965, è il principale organismo di assistenza tecnica del sistema ONU. Aiuta, senza limitazioni politiche, i paesi in via di sviluppo a dotarsi di servizi amministrativi e tecnici di base, forma quadri, cerca di rispondere ad alcuni bisogni essenziali delle popolazioni, prende l’iniziativa di avviare programmi di cooperazione regionale e, in linea di principio, coordina le attività locali dell’insieme dei programmi operativi delle Nazioni Unite. L’UNDP generalmente si basa su modalità e tecniche occidentali, ma un terzo del suo consistente staff di esperti proviene dal Terzo mondo. L’UNDP pubblica ogni anno un Rapporto sullo sviluppo umano, che classifica i paesi secondo un “indicatore di sviluppo umano”.

UNEP Il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP, United Nations Environment Program, con sede a Nairobi), fondato nel 1972, ha il compito di sorvegliare i cambiamenti rilevanti a livello di ambiente e di incoraggiare e coordinare pratiche positive in materia.

UNFPA Il Fondo delle Nazioni Unite per le attività in materia di popolazione (UNFPA, United Nations Fund for Population Activities, con sede a New York), costituito nel 1967, è finanziato da contributi volontari, governativi e privati. Ha il compito di intraprendere attività di cooperazione nel settore demografico: raccolta di dati di base, studio dell’evoluzione della popolazione, servizio di pianificazione familiare, programma di controllo della fecondità ….

UNICEF Fondato nel 1946, il Fondo delle Nazioni Unite di aiuti d’emergenza per l’infanzia (UNICEF, United Nations International Children’s Emergency Fund, con sede a New York), originariamente aveva lo scopo di portare aiuti d’emergenza ai bambini e agli adolescenti vittime della seconda guerra mondiale. Attualmente il Fondo aiuta i governi a mettere a punto dei “servizi di base” in campo sanitario, alimentare, igienico, educativo ecc. L’UNICEF, che dipende completamente da contributi volontari, può anche intervenire rapidamente in caso di catastrofi naturali, guerre civili o epidemie. Il suo Consiglio di amministrazione è composto da rappresentanti di 30 paesi designati dal Consiglio economico e sociale.

UNITAR L’Istituto delle Nazioni Unite per la formazione e la ricerca (UNITAR, United Nations Institute for Training and Research, con sede a New York), fondato nel 1965, è un organismo autonomo dell’ONU, finanziato da contributi volontari. L’Istituto prepara funzionari nazionali, in particolare dei paesi in via di sviluppo, alle professioni nel campo della cooperazione internazionale.

UNRWA L’Ufficio di assistenza delle Nazioni Unite per i profughi della Palestina in Medio Oriente (UNRWA, United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East, con sede a Ginevra) fondato nel 1949 per portare aiuto ai profughi vittime del conflitto arabo-israeliano del 1948, estende la propria azione alla Giordania, al Libano, alla Siria e ai Territori occupati (Cisgiordania e Gaza). Nell’estate 1994 si è aperta la discussione sull’opportunità di trasferirne la sede nella zona di Gaza e Gerico sotto amministrazione palestinese.

UNU Istituita nel 1973 con il patrocinio dell’ONU e dell’UNESCO, l’Università delle Nazioni Unite (UNU, United Nations University) ha iniziato l’attività nel 1975 a Tokyo. L’UNU non è sede di formazione, ma piuttosto una comunità di ricerca mirante a individuare soluzioni ai problemi mondiali della sopravvivenza, dello sviluppo e del benessere dell’umanità.

L’evoluzione del ruolo delle Nazioni Unite nel mantenimento della pace

Un cambiamento di sostanziale importanza nell’organizzazione dell’ONU si registra verso la fine degli anni ‘50: la dissoluzione dei grandi imperi coloniali europei portò alla creazione di nuovi paesi indipendenti, cosicché il numero originale dei paesi membri delle Nazioni Unite risultò quasi raddoppiato. Inoltre, la maggioranza dei membri apparteneva ad Asia e Africa, il che faceva pendere il peso numerico dei voti a sfavore dell’occidente. Ciò venne dimostrato dalla volontà dei nuovi paesi membri dell’Assemblea generale di approvare risoluzioni di condanna della politica francese in nord Africa e delle violazioni dei diritti dell’uomo in Sudafrica. Avendo conquistato la propria indipendenza lottando contro un dominio coloniale, gli Stati Uniti erano per lunga tradizione ferventi sostenitori del principio di autodeterminazione. Gli Stati Uniti erano però anche alleati e amici delle potenze europee occidentali, e l’aiuto finanziario prestato alla Francia nella guerra contro il Vietminh in Indocina dimostrò che gli interessi strategici erano più importanti dei sentimenti anticoloniali. Emerse un nuovo blocco di nazioni che trovavano i problemi dello sviluppo economico più pressanti di quelli della politica della guerra fredda, che temevano interferenze esterne nei loro affari e cercavano di evitarle rifiutando di farsi coinvolgere nei conflitti tra le superpotenze.

Nonostante la loro basilare mancanza di potere militare ed economico, le nazioni del terzo mondo trovarono un punto di forza nel loro comune senso di identità e nel loro numero crescente; esse scoprirono ben presto che la loro maggioranza nell’Assemblea generale delle Nazioni Unite poteva avere un impatto sugli affari internazionali, ed infusero allo stesso tempo una nuova vitalità nelle agenzie economiche e culturali collegate all’ONU. In campo politico, la battaglia contro il colonialismo assorbì naturalmente l’attenzione dei nuovi membri; ma i loro violenti attacchi contro gli ex padroni coloniali portarono il terzo mondo ad una alleanza tattica con i paesi comunisti, che diede al neutralismo una netta colorazione antioccidentale.

La Risoluzione 1514 con la quale si affermava la necessità di “porre termine al colonialismo e a tutte le pratiche di discriminazione e segregazione a esso collegate”, dimostrò che l’era della dominazione occidentale delle Nazioni Unite era tramontata e, dal punto di vista degli Stati Uniti, l’organizzazione era quindi diventata uno sgradevole forum per prese di posizione demagogiche e propaganda antioccidentale.

Malgrado l’aspirazione a costituire un embrione di governo mondiale, l’ONU è stata sin dall’inizio lo specchio fedele del carattere conflittuale della comunità internazionale. Egemonizzata, ma anche esautorata dalle maggiori potenze, paralizzata dai loro contrasti sulle questioni più importanti, ha spesso finito per essere inadempiente al suo compito principale, quello di prevenire e di contenere le crisi internazionali. In sostanza l’ONU si è comportata come un’istituzione prevalentemente deputata all’assistenza economica e culturale, e come una piattaforma di propaganda politica.

La centralità delle Nazioni Unite si esprime soprattutto nelle sue responsabilità in materia di mantenimento della pace e della sicurezza internazionali. Non va dimenticato che l’organizzazione nacque come risposta alle devastazioni del secondo conflitto mondiale, ed è proprio nel campo del mantenimento della pace e della sicurezza internazionali che ad essa sono stati attribuiti poteri effettivi, di carattere vincolante nei confronti degli Stati e della Comunità internazionale nel suo complesso. L’obiettivo della pace appare prioritario e si pone come il principio ispiratore di tutta l’organizzazione; appare, inoltre, significativo lo stretto legame tra i problemi della pace e quello del benessere economico e sociale: l’art. 55 apre il capitolo IX, dedicato alla cooperazione internazionale economica e sociale e all’azione affidata a tale riguardo all’Organizzazione.

Non si dimentichi che tale azione rientra nel fine di “creare le condizioni di stabilità e benessere necessarie per assicurare le relazioni pacifiche e amichevoli fra le nazioni”.

L’obiettivo del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale è assistito anche da previsioni più specifiche della Carta, che impone regole di condotta agli Stati in materia, e organizza poteri e procedure di intervento (preventivo e successivo) della stessa Organizzazione. Per quanto riguarda il primo aspetto, la Carta elenca tra i principi cui si devono attenere gli Stati l’obbligo di risolvere “le loro controversie internazionali con mezzi pacifici, in maniera tale che la pace e la sicurezza internazionale e anche la giustizia non siano messe in pericolo” (art. 2 n.3) e, ancor più puntualmente, quello di astenersi “nelle loro relazioni internazionali, dal ricorrere alle minacce o all’impiego della forza che vadano contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di tutti gli Stati o che siano, in qualche maniera, incompatibile con gli scopi delle Nazioni Unite” (art. 2 n.4)

Questi due principi appaiono strettamente correlati fra loro e sono da considerarsi parti del diritto consuetudinario, dato che la violenza è ormai da ritenersi bandita non solo se espressione di un’aggressione, ma anche come soluzione di una controversia o come affermazione di un diritto. Con riguardo al divieto dell’uso della forza, la Corte ha precisato che l’opinio iuris degli Stati circa la sua appartenenza al diritto consuetudinario può dedursi in particolare dall’atteggiamento degli Stati stessi verso varie risoluzioni dell’Assemblea generale in cui è stato ribadito tale divieto.Da questo punto di vista, il divieto dell’uso della forza, in quanto posto direttamente dal diritto internazionale consuetudinario, può essere considerato anche indipendentemente dalla previsione che di esso ne fa la Carta delle Nazioni Unite.

Per quanto riguarda tale punto, la Carta porta ad un accentramento nelle mani dell’Organizzazione del potere di esercitare la forza armata ogni volta che essa sia necessaria per il mantenimento del pace e della sicurezza internazionali. In stretta correlazione con il divieto posto dall’art. 2 n. 4, infatti, il capitolo VII conferisce al Consiglio di Sicurezza incisivi poteri a questo fine in caso di minaccia alla pace, di una violazione della pace, o di un atto di aggressione. L’uso della forza armata si presenta, sulla Carta, come un’azione diretta dell’Organizzazione e quindi come espressione di un’autorità “superiore” ai singoli consociati, che agisce nell’interesse di tutta la collettività. Ai singoli viene preclusa qualsiasi iniziativa di carattere violento che non si giustifichi per motivi di legittima difesa, in modo da garantire tanto l’obiettività e l’imparzialità del ricorso alle armi a tutela della pace, quanto il suo mantenimento entro i limiti strettamente indispensabili a questo fine. Anche per il carattere indivisibile della pace, un’azione di questo genere dovrebbe esplicarsi evidentemente con efficacia generale. Sul piano proprio di un’organizzazione internazionale, ciò incontra però l’ostacolo dell’efficacia soggettivamente limitata delle sue norme e dei suoi comandi; l’art. 2 n. 6 della Carta cerca di ovviarvi, stabilendo che “l’Organizzazione assicurerà che gli Stati non membri delle Nazioni Unite agiscano secondo i principi nella misura necessaria a mantenere la pace e la sicurezza internazionale”. Naturalmente la norma citata non può avere l’effetto di imporre obblighi formali in capo agli Stati terzi, a parte il divieto dell’uso della forza, riconosciuta come regola di diritto consuetudinario internazionale e di portata generale.

In realtà sembra che l’art.2 n.6 si rivolga alla stessa Organizzazione, stabilendo quindi solo per i suoi organi l’impegno riadoperarsi affinché gli Stati terzi si conformino ai principi della Carta.

L’art. 51 della Carta enuncia l’unica eccezione al principio dell’esclusività del ricorso alla forza armata: la legittima difesa, come diritto naturale di tutti gli Stati nel caso in cui siano oggetto di un attacco armato. La Corte Internazionale di giustizia ha escluso che la nozione di aggressione armata, tanto nel sistema delle Nazioni Unite che nel diritto internazionale generale, copra anche la cosiddetta aggressione indiretta, e cioè l’assistenza ai ribelli in territorio straniero nella forma di forniture di armi, assistenza logistica e altre forme di interventi. L’art. 51 della Carta parla di legittima difesa individuale e collettiva, aprendo la strada ad un uso della forza in risposta ad un attacco armato anche contro Stati diversi da quello aggredito. La previsione di un esercizio collettivo della legittima difesa fu inscritta nella Carta della Conferenza di San Francisco, che aveva in mente l’esistenza o l’imminente istituzione di accordi ed organizzazioni regionali diretti proprio ad assicurare una reciproca assistenza fra gli Stati in caso di aggressione. Tanto nel caso di legittima difesa individuale quanto collettiva, il ricorso alla forza in risposta ad un attacco, deve essere necessario e proporzionale: nel sistema delle Nazioni Unite, inoltre, viene ulteriormente condizionato dal limite temporale posto dall’art. 51. La norma, infatti, oltre ad imporre un obbligo di comunicazione immediata al Consiglio delle misure prese in legittima difesa, prevede che possa essere esercitata “fino a quando il Consiglio di Sicurezza ha preso le misure necessarie per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionali”. Le “misure necessarie” sono state oggetto di diverse interpretazioni: si potrebbe sostenere che anche misure solo astrattamente idonee al mantenimento della pace e della sicurezza internazionali precludano il proseguimento dell’azione individuale o collettiva; o si potrebbe ritenere necessario, invece, che il Consiglio prenda misure concretamente in grado di fronteggiare l’attacco armato che si trova all’origine della vicenda.

Nonostante opinioni contrarie in seno allo stesso Consiglio di Sicurezza, nel caso di conflitto fra Gran Bretagna e Argentina per le isole Flakland-Malvinas, fu questa seconda tesi che prevalse: benché fosse stata adottata una risoluzione che invitava al cessate il fuoco ai sensi dell’art. 40, l’azione britannica continuò.

Gli organi istituzionali dell’ONU e il mantenimento della pace

La determinazione di quali, tra le misure adottabili dal Consiglio di Sicurezza, rientrino nella previsione dell’art. 51, può richieder naturalmente una valutazione da operare in concreto, caso per caso. Un criterio di principio sul quale questa andrebbe fondata sembra comunque da individuare nell’esigenza che, fermando la reazione dello Stato vittima, l’intervento del Consiglio di Sicurezza sia tale da concretizzare una reazione altrettanto efficace all’aggressione che la giustifica.

L’art. 24 della Carta delle Nazioni Unite fa del Consiglio di Sicurezza la pietra angolare del sistema di sicurezza collettiva, affidandogliene la “responsabilità principale”. Nelle Nazioni Unite pur appartenendo agli Stati membri la responsabilità del mantenimento della pace e della sicurezza internazionali, questi soggetti internazionali l’hanno delegata al Consiglio di Sicurezza che “nel portare avanti i suoi compiti, agisce in loro nome”.(art. 24 n.1)

Le ragioni dell’accentramento nelle mani del Consiglio dei poteri in materia di mantenimento della pace e della sicurezza internazionali sono varie, ma di primaria importanza è senz’altro il fatto che al suo interno sono presenti ed hanno diritto di veto su qualsiasi decisione importante, le cinque grandi potenze. Vi era da un lato la volontà di mantenere in vita il patto uscito dalla seconda guerra mondiale, dall’altro la consapevolezza della sua necessità per l’efficacia di qualsiasi intervento a tutela della pace: il consenso unanime delle grandi potenze assicura in sostanza quel sostegno generalizzato dell’opinione pubblica che rende di fatto possibile condurre azioni di polizia internazionale.

L’art. 24 n.2 inquadra in maniera assai ampia i poteri del Consiglio in materia di mantenimento della pace e della sicurezza internazionali. Al Consiglio spetta innanzitutto, come stabilito dall’art. 39, accertare l’esistenza di una minaccia della pace, di una violazione della pace o di un’aggressione. Queste costituiscono, infatti, il presupposto dei poteri che gli derivano dai successivi articoli del capitolo VII: può prendere delle misure provvisorie in base all’art. 40 per evitare un aggravamento della situazione; può adottare “sanzioni” non implicanti l’uso della forza contro lo Stato o gli Stati responsabili in virtù dell’art. 41; può intraprendere azioni coercitive contro gli stessi in base all’art. 42. Ai fini dell’accertamento dell’esistenza del presupposto all’esercizio di questi poteri, il Consiglio gode di un ampio potere discrezionale con riferimento a tutte e tre le fattispecie menzionate all’art. 39. Raramente, però il Consiglio evoca esplicitamente a giustificazione delle sue delibere l’ipotesi dell’aggressione: nel caso dell’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq, esso ha preferito richiamarsi alla “violazione della pace e della sicurezza internazionale” nella risoluzione 660 del 2 agosto del 1990. Quando l’atto di aggressione è imputabile a uno Stato politicamente vicino a una grande potenza, ciò evita al Consiglio di dover prendere posizione circa lo Stato responsabile.

A maggior ragione la discrezionalità del Consiglio di Sicurezza risulta ampia se si tratta di stabilire la sussistenza del presupposto della minaccia alla pace, ipotesi questa abbastanza generica. Il Consiglio tende per lo più a affermare l’esistenza di quel pericolo in connessione con il rischio di un conflitto armato internazionale. Non sono mancati casi di interpretazione estensiva che sono arrivati a ricomprendere tanto situazioni interne ad uno Stato, quanto situazioni non caratterizzate dall’uso della violenza di tipo bellico.Esso ha per esempio considerato che concretasse una minaccia alla pace, l’esistenza in Rhodesia e in Sud Africa di un regime di apartheid .

Dinanzi ad una nozione generica, il rischio di interpretazione abusive esiste, soprattutto da quando all’interno del Consiglio di Sicurezza vi è minor contrapposizione fra gli Stati che dispongono del diritto di voto. D’altra parte, quella genericità costituisce anche una valvola di sfogo per il sistema di sicurezza collettiva, consentendogli di funzionare egualmente di fronte a fattispecie impreviste, ma comunque suscettibili di compromettere la pace.

Anche all’Assemblea Generale viene riconosciuto un ruolo riguardo il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, infatti l’art. 12 n. 2 pur ponendola in posizione di subordinazione rispetto al Consiglio di Sicurezza, dispone che essa “può discutere di tutte le questioni inerenti al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale …e , su riserva dell’art.12, fare su tutte le questioni di questo genere delle raccomandazioni sia allo Stato o agli Stati interessati, sia al Consiglio di Sicurezza”. L’Assemblea Generale potrà, mediante raccomandazioni, invitare gli Stati ad applicare misure non coercitive contro Stati responsabili di una minaccia o di una violazione della pace. In passato si è anche prospettato, di fronte alle difficoltà del Consiglio di agire a causa dei veti incrociati delle grandi potenze, che l’Assemblea potesse intraprendere azioni a tutela della pace e finanche deliberare misure coercitive. All’affermarsi di questa tesi contribuisce la famosa risoluzione Uniting for peace (risoluzione del 3 novembre 1950) che attribuiva all’Assemblea, in caso di inerzia del Consiglio di Sicurezza di fronte ad una rottura della pace o ad un atto di aggressione, il compito di decidere ogni misura opportuna “y compris, s’il s’agit d’une rupture armée, en cas de besoin, pour maintenir ou rétabilir la paix et la sécurité internationales”.

Le misure previste per il mantenimento della pace

Può verificarsi che una situazione contemplata dal capitolo VII della Carta richieda un intervento immediato del Consiglio di Sicurezza al fine di evitare che la situazione si aggravi. In tal caso il Consiglio di Sicurezza può, ai sensi dell’art. 40, “invitare le parti interessate a conformarsi alle misure provvisorie che giudicherà necessarie e attuabili. Queste misure provvisorie non pregiudicheranno in niente i diritti, le pretese o le posizioni delle parti interessate”. Il carattere di provvisorietà è strettamente legato al limite posto a quest’ultimo riguardo al contenuto delle misure in questione. Esse non comportano una valutazione definitiva della situazione da parte del Consiglio, avendo come unico fine quello di impedire che la situazione degeneri. Questo spiega il carattere non vincolante delle misure, potendo solo essere un invito alle parti, è infatti ovvio che il Consiglio potrà dar loro esclusivamente la forma di una raccomandazione. La Carta non precisa il contenuto da dare alle misure provvisorie, per lo più dirette a far sì che gli Stati non tengano comportamenti che possano aggravare la situazione (ad esempio inviti al cessate il fuoco o al ritiro di truppe da parti di territorio).

La risposta del Consiglio di Sicurezza a situazioni di minaccia o di rottura della pace può essere affidata in primo luogo alle misure contemplate dall’art. 41. Questo stabilisce che il Consiglio possa “decidere quali misure che non implicano l’impiego della forza armata debbano essere prese per dare effetti alle sue decisioni e può invitare i membri delle Nazioni Unite a applicare queste misure”. Le misure adottabili sono infatti chiaramente dirette a esercitare una pressione su questi Stati perché cessino dal comportamento loro rimproverato. Tale articolo, che usa comunque il termine “decidere” con riferimento all’emanazione delle dette misure, va letto in correlazione all’art. 39, secondo cui il Consiglio “fa delle raccomandazioni o decide quelle misure che saranno prese conformemente agli articoli 41 e 42”.

Nel clima mutato derivante dalla caduta del blocco sovietico, l’occasione per adottare decisioni in base all’art.42 si sono moltiplicate: la maggior parte di esse si sono avute nel caso della guerra del Golfo e del conflitto nella ex-Jugoslavia; vanno inoltre ricordate quelle che hanno disposto il divieto di esportazioni di armi verso la Somalia e verso la Liberia.

L’art.42 dà infine al Consiglio di sicurezza il potere di decidere il passaggio all’azione militare. Secondo tale articolo, infatti, “può intraprendere, per mezzo delle forze aree, navali e terrestri, tutte le azioni che giudicherà necessarie per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionali”. Si tratta di un passo che la Carta inquadra in uno schema di gradualità; il Consiglio deve compierlo, ai sensi dell’art. 42, quando esso “stima che le misure previste all’art. 41 saranno inadeguate o si sono rivelate come tali”. Ciò non prospetta una sorta di obbligo formale di “previo esaurimento” delle misure non implicanti l’uso della forza. In primo luogo il Consiglio gode anche in questo quadro di una larga discrezionalità di valutazione. Inoltre, la stessa previsione della Carta consente esplicitamente, il passaggio immediato all’azione militare, giustificandolo sulla base di una valutazione in astratto dell’inadeguatezza delle misure ex art. 41. Ne viene sottolineato il carattere di estrema ratio che deve assumere il ricorso alla forza militare.

La formulazione dell’art. 42 suggerisce chiaramente l’idea che l’uso della forza nel quadro del sistema di sicurezza collettiva si concretizzi in un’azione delle stesse Nazioni Unite, giustificando così la definizione che di essa si tende a dare come di un’azione di polizia internazionale. A differenza di quanto avviene nel quadro dell’art. 41, il Consiglio di Sicurezza non ordina né raccomanda agli Stati membri di tenere una certa condotta, ma decide di intraprendere esso stesso un’azione militare. Peraltro questo sistema si giustificava pienamente di fronte alla previsione contenuta nei successivi articoli 43 e ss. che disciplinano la messa a disposizione del Consiglio da parte degli Stati membri, in base a accordi con l’Organizzazione, di contingenti armati nazionali da assoggettare ad un costituendo Comitato di stato maggiore, composto dai capi di stato maggiore dei cinque membri permanenti e posto sotto l’autorità diretta del Consiglio.

In occasione della guerra del Golfo, con la risoluzione 678 del novembre 1990 il Consiglio autorizzava gli Stati membri, qualora l’Iraq non si fosse ritirato dal territorio kuwaitiano entro il 15 gennaio 1991, ad usare “tutti i mezzi necessari” per far rispettare le sue precedenti risoluzioni e per “ristabilire la pace e la sicurezza internazionali nella regione”. A seguito di questa “autorizzazione”, il girono dopo la scadenza dell’ultimatum una coalizione di forze avviava le operazioni militari contro l’Iraq, le quali portarono alla sua resa un mese e mezzo dopo. Il ricorso alla forza armata si è avuto in realtà, da parte degli Stai membri a ciò invitati e autorizzati dal Consiglio di Sicurezza, ed è proprio questo l’aspetto che ha suscitato maggiori perplessità. Ciò pareva contrastare con la configurazione del ricorso alla forza come azione di polizia internazionale ex capitolo VII, gestita e decisa direttamente dal Consiglio di Sicurezza, in quanto non era previsto dalla Carta alcuna delega dal Consiglio agli Stati dell’uso della forza.

Da parte di alcuni si è sostenuto che la risoluzione 678 avrebbe semplicemente riconosciuto la sussistenza dei presupposti per l’esercizio della legittima difesa collettiva previsto dall’art. 51; il richiamo alla legittima difesa, tuttavia, non si concilierebbe del tutto, anche nella vicenda della guerra del Golfo, con la tendenza dello stesso Consiglio a rimanere comunque investito della questione, intervenendo in prima persona in tutti gli sviluppi che la stessa prende.

In realtà la possibilità che il Consiglio di Sicurezza non eserciti in prima persona la forza armata prevista dall’art. 42 non è del tutto estranea alla Carta, in quanto l’art. 53 la contempla esplicitamente con riguardo alle organizzazioni regionali. Ciò va ad attenuare l’anomalia rappresentata dalle vicende relative alla guerra del Golfo, purché le esigenze di imparzialità e obiettività sottese all’art. 42 risultino comunque salvaguardate nel caso concreto. Tali esigenze possono considerarsi soddisfatte anche nel caso di un’azione affidata ai singoli Stati, purché il Consiglio di Sicurezza si riservi il costante controllo della situazione. Il giudizio a riguardo dovrà essere formulato con riferimento alle caratteristiche di ciascun caso concreto, ma non se ne potrà dedurre a priori una conclusione negativa circa la compatibilità con la Carta.

All’esercizio di vere e proprie azioni coercitive ai sensi dell’art. 42 la prassi delle Nazioni Unite ha affiancato le cosiddette operazioni per il mantenimento della pace: peace keeping operations.

Anch’esse hanno carattere militare, nel senso che si svolgono con l’impiego di contingenti militari (i c.d. caschi blu), solo che le operazioni in questione sono prive di funzione coercitiva o sanzionatoria, in quanto sono dirette contro uno o più Stati in vista di ristabilire la pace e la sicurezza internazionali. Sotto questo aspetto appaiono neutrali rispetto alle situazioni di crisi in cui si effettuano, limitandosi a finalità che sono state dette “conservative”, quali l’aiuto al governo di uno Stato per ristabilire l’ordine interno, la garanzia della tregua fra due parti in conflitto, la sicurezza dell’aiuto umanitario alla popolazione civile.

L’assenza di funzioni coercitive nelle operazioni di mantenimento della pace si manifesta del resto anche nel fatto che il loro svolgimento ha in linea di principio carattere consensuale. L’intervento dei caschi blu è subordinato, infatti, alla volontà dello Stato nel cui territorio la loro azione dovrà svolgersi o dell’autorità che in quel momento esercita il controllo del territorio e della relativa comunità umana.

È necessario che vi sia una esplicita richiesta di questa autorità o dello Stato. A volte, però, il rispetto di tale condizione è più formale che sostanziale, soprattutto quando si tratta di intervenire in situazioni in cui di fatto è venuta meno la presenza di un’autorità stabile sul territorio in questione.

Inoltre, in sintonia con la funzione di garanzia cui rispondono queste operazioni, i contingenti militari impiegati non possono di regola usare armi, se non per legittima difesa.

Le operazioni per il mantenimento della pace sono decise dal Consiglio di Sicurezza, alla cui autorità rimangono formalmente sottoposte durante tutto il mandato. In pratica, però, il Consiglio delega al Segretario Generale la concreta gestione delle stesse; in particolare spetta al Segretario ottenere dagli Stati membri la messa a disposizione dei contingenti militari necessari a sopperire alla rilevata mancanza di una forza armata stabile delle Nazioni Unite, scegliendo i contingenti degli Stati che più conviene impegnare, dal punto di vista dell’opportunità politica, in ciascuna operazione. Spetta sempre al Segretario, poi, provvedere alla conduzione politica ed operativa della missione. Quando ciò comporta decisioni di maggior rilevanza, è prassi però che egli assicuri l’approvazione del Consiglio di Sicurezza, con cui rimane in contatto.

Il carattere militare delle operazioni di peace keeping appare infatti difficilmente conciliabile con una loro pretesa funzione di regolamento pacifico di controversie internazionali.

La loro ispirazione originaria evocherebbe le misure provvisorie previste dall’art. 40: al pari di queste, la funzione principale delle operazioni di peace keeping è formalmente quella di impedire l’aggravarsi di situazioni suscettibili di portare ad una rottura della pace, senza pregiudicare le posizioni degli Stati interessati.

D’altro canto appare altrettanto caratterizzante per esse l’uso della forza militare. Recentemente la loro caratterizzazione in questo senso sta diventando sempre più preponderante, tanto che il confine delle azioni coercitive vere e proprie dell’Organizzazione appare in molti casi incerto. Inoltre, a differenza delle misure provvisorie, esse consistono non in comportamenti degli Stati, ma in un’azione diretta da parte dell’Organizzazione.

Le Nazioni Unite alla ricerca di una nuova identità

L’ultimo decennio ha stravolto ciò che erano i principi e le aspettative di una società internazionale capace di produrre un tessuto di regole e istituzioni al fine di limitare la competizione fra le due super-potenze. Se, all’indomani del collasso dell’Unione Sovietica, la prima cosa ad essere avvertita fu l’esaurimento dell’enorme fattore di conflitto che aveva permeato le relazioni internazionali post-belliche, il resto del decennio si è occupato di mostrare il rovescio della medaglia: la caotica liberazione di tutti i conflitti congelati (soprattutto in Europa) fino a quel momento, e contemporaneamente lo svuotamento delle regole che erano riuscite a disciplinare il confronto fra le superpotenze con la conseguente crisi dei principi e delle norme costitutive della convivenza internazionale. Se è vero che la fine dell’ordine bipolare e il progressivo avanzamento della globalizzazione hanno stimolato la ricerca di un nuovo ordine internazionale, tale ricerca si è scontrata con le stesse contraddizioni nelle quali si erano già imbattuti i tentativi precedenti. Come il principio di autodeterminazione dei popoli si scontrò con la problematica di dover stabilire una soglia al di là della quale considerare gruppi umani come “popoli”, così da un lato il diritto di ingerenza umanitaria se ha eroso la maschera della sovranità, ha eroso, anche, il suo carattere giuridicamente egualitario alimentando il sospetto di essersi trasformato in strumento di supremazia e di ingerenza. Allo stesso modo, d’altro lato, il riconoscimento di diritti intangibili agli individui e alle minoranze se ha affiancato questi agli stati come membri della società internazionale, si è fermato alle soglie della più esclusiva delle prerogative dello Stato, il diritto di fare valere i propri diritti con la forza, indipendentemente dall’appoggio della comunità internazionale.

Malgrado l’enfasi che si continua a porre sulle organizzazioni internazionali e sullo sviluppo di un nuovo diritto internazionale ispirato a principi umanitari, si assiste,così, ad uno smembramento della capacità della società internazionale di dettare aspettative su cui gli stati possano contare.

Ciò ha svelato una crisi di efficienza delle Nazioni Unite data da una serie di situazioni incrociate: la latitanza del Segretario generale e del Consiglio di Sicurezza di fronte alle iniziative militari anglo-americane contro l’Iraq; la catastrofe politica e organizzativa dell’Alto commissariato per i rifugiati politici di fronte all’esodo di massa dal Kosovo; la fuga del personale delle Nazioni Unite da Timor Est, all’indomani di un referendum che le Nazioni Unite avevano maldestramente promosso e garantito; la nuova eclissi del Segretario Generale, del Consiglio di Sicurezza e dell’Alto Commissariato dei rifugiati politici di fronte all’ultimo esodo di massa della Cecenia.

Questa crisi di efficienza alimenta, a sua volta, una crisi dalle molteplici sfaccettature: una crisi di autorità, cioè del potere che parla e agisce a nome della comunità internazionale, dichiarando quali sono i valori e gli interessi comuni e quando sia necessario o meno intervenire per difenderli; una crisi di credibilità, in sostanza, della capacità di fare e di mantenere le promesse senza mai rinunciare al proprio ruolo; una crisi di responsabilità, e cioè della capacità di fornire soluzioni istituzionali ai problemi (a maggior ragione quando le decisioni di fare qualcosa, come organizzare il referendum sull’indipendenza a Timor Est sollevano apertamente problemi di irresponsabilità); una crisi di legittimità, che emerge dal sempre più instabile equilibrio fra il nuovo principio dell’ingerenza umanitaria e il vecchio principio di sovranità.

Il problema si collega a ciò che resta delle istituzioni e delle norme preesistenti della società internazionale, e cioè di quelle norme che prescrivevano quali caratteristiche si dovesse avere per farne parte, per quale ragione ciò che ciascuno stato rivendicava per sé, la sovranità, dovesse riconoscerlo anche agli altri, e a quali condizioni si potesse passare dall’una all’altra delle due tipiche congiunture della vita internazionale, la pace e la guerra.

Le vecchie norme della sovranità e della non ingerenza negli affari interni degli stati hanno subito una crescente erosione e una crescente crisi di legittimità; a testimonianza di ciò si registra il vasto consenso che l’intervento militare in Kosovo ha goduto. È altrettanto vero, però, che le nuove norme del diritto e dell’ingerenza umanitaria sono, a propria volta, ancora lontanissime dal costituire il nuovo tessuto istituzionale della società internazionale, e sono destinate a restarlo fino a che non riusciranno a imporsi. In questo margine di ambiguità si inserisce un elemento estremo di semplificazione: lo strapotere politico e militare di una sola potenza chiamata a rivestire il ruolo di unica fonte di sicurezza internazionale.

BIBLIOGRAFIA a cura di Carlo Frappi

R. Conforti “Le Nazioni Unite” Edizioni CEDAM 1996

F. Capotorti “Corso di diritto internazionale” Editore Giuffrè 1995

B. Colombo “L’evoluzione del sistema internazionale” Il Mulino 2000

E. Dinolfo “Storia delle relazioni internazionali” Editore Laterza 1998

U. Draetta “Principi di diritto delle organizzazioni internazionali” Giuffrè editore 1997

A. Smith “La fine della guerra fredda” Bompiani 2000

Redazione

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