La considerazione deriva dall’assenza nel diritto tributario internazionale di un principio generale, codificato o di natura convenzionale, atto a stabilire un dovere di collaborazione tra amministrazioni finanziarie, allo scopo di contrastare fenomeni evasivi o elusivi[1].
Da qui l’esigenza di una più sentita collaborazione tra i Paesi, la cui concreta realizzazione necessita di principi comuni, di matrice sopranazionale, che si elevino nei riguardi delle discipline giuridiche interne ai vari ordinamenti, contribuendo, in questo modo, a superarne i disallineamenti ai quali, spesso, sono da ricondurre gli episodi evasivi.
Le << diseconomie giuridiche >>, che ne derivano, sono legate anche alla diversa concezione storica che gli Stati attribuiscono alla mutua assistenza amministrativa: in alcuni essa deriva da esperienze pluriennali; in altri ha preso piede solo di recente; altri ancora stentano, tuttora, ad accettarla nella sua completezza.
La collaborazione trasnazionale si basa sia su convenzioni ed accordi bilaterali, tra cui si annovera, principalmente, l’art. 26 del Modello di Convenzione OCSE ed il Modello ONU[2], sia su altri accordi stipulati dall’Italia[3].
Il settore in cui, negli ultimi anni, maggiormente è stata sentita la necessità di una collaborazione internazionale, è quello che riguarda la disciplina dell’Imposta sul valore aggiunto. L’evasione dell’IVA, infatti, in alcuni Paesi membri inciderebbe per il 10% delle entrate nette statali; inoltre, il valore annuo delle merci in circolazione nella Comunità senza pagamento dell’IVA si aggirerebbe intorno ai 1.500 miliardi di euro, con un mancato gettito di imposta di circa 150 – 200 miliardi di euro ed il danno al bilancio comunitario ammonterebbe sui 70 – 100 miliardi di euro[4].
Il processo di cooperazione nasce, in pratica, con la Direttiva n. 77/799/CEE[5] che disciplinava unicamente il settore delle imposte dirette e patrimoniali.
La Direttiva n. 79/1070/CEE[6], modificando la n. 77/799/CEE, estende la cooperazione fiscale anche al settore IVA.
Il D.P.R. n. 506/1982[7] recepisce le Direttive nn. 77/799 e 79/1070, novellando gli artt. 31 e 68 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 – Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi – e gli artt. 65 e 66 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 – Istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto -.
In particolare l’art. 1 di detto D.P.R., oltre a precisare che << L’Amministrazione finanziaria provvede allo scambio, con le altre autorità competenti degli Stati membri della Comunità economica europea, delle informazioni necessarie per assicurare il corretto accertamento delle imposte sul reddito e sul patrimonio >>, conferma la previsione della Direttiva n. 77/799/CEE, secondo cui l’Amministrazione, << (…) a tal fine, può autorizzare la presenza nel territorio dello Stato di funzionari delle amministrazioni fiscali degli altri Stati membri >>, stabilendo che la medesima Amministrazione << provvede alla raccolta delle informazioni da fornire alle predette autorità con le modalità ed entro i limiti previsti per l’accertamento delle imposte sul reddito >>.
L’art. 3 del D.P.R. n. 506/1982, inoltre, si preoccupa di escludere la violazione del segreto d’ufficio in caso di << (…) comunicazione da parte dell’Amministrazione finanziaria alle competenti autorità degli Stati membri della Comunità economica europea delle informazioni atte a permettere il corretto assolvimento delle imposte sul reddito e sul patrimonio (…) >>.
In ambito IVA vengono stabilite analoghe previsioni dagli artt. 2 e 4.
Il Regolamento (CEE) si annovera: – l’opportunità offerta all’Amministrazione finanziaria interessata di inviare un proprio funzionario nell’altro Stato per fini collaborativi con il Fisco locale, allo scopo della diretta partecipazione all’attività di accertamento[8]; – la possibilità di richiedere la notifica di una decisione ad un soggetto di imposta che risiede in altro Stato membro, oltre che di richiedere accertamenti; – la modalità di formulazione delle richieste e gestione degli scambi di informazioni con Paesi terzi, oltre ai tempi di risposta[9].
La Commissione, prendendo spunto dalle indicazioni pervenute dal Regolamento (CE) n. 1798/2003, ha adottato il Regolamento (CE) n. 1925/2004[10] dove, tra l’altro, agli artt. 3 e 4 vengono specificate le categorie e le sottocategorie di informazioni oggetto di scambio in assenza di preventiva richiesta.
2. Il segreto bancario tra l’assenza di una specifica disciplina ed i principi generali di matrice internazionale
Dal generale quadro normativo che ne scaturisce si desume che le disposizioni comunitarie o internazionali[11] non fanno mai alcun cenno al superamento del segreto bancario quale strumento di cooperazione amministrativa ai fini investigativi. In assenza di regole precise << di settore >> vigono, dunque, le disposizioni ordinariamente applicabili alla mutua assistenza amministrativa, conseguendone che l’adozione delle indagini in parola può formare oggetto di scambio di informazioni a condizione che vengano rispettati i limiti che regolano l’attività internazionale generalmente intesa ([12]) ([13]).
L’osservanza di detti limiti e delle procedure previste risulta di significativa rilevanza poiché la loro scarsa considerazione, generando un’irrituale acquisizione di elementi probatori per finalità fiscali, può riverberarsi negativamente sull’esito terminale stesso dell’attività di indagine << interna >>, vanificando, in questo modo, gli sforzi prodotti.
Rischio che assume una portata di tutto rilevo se l’attività di investigazione tributaria ricorre, appunto, agli accertamenti bancari in ambito trasnazionale, in cui non esiste una disciplina di settore di matrice comunitaria o internazionale che detti regole certe.
Ma non per questo tale strumento di indagine non merita di essere messo in giusta evidenza in << ambiente non domestico >>, data l’enorme potenzialità investigativa ad esso riconnessa; l’auspicio, pertanto, è per un suo futuro << più sicuro utilizzo >> attraverso la previsione di una disciplina organica, << in ambiente comunitario o internazionale >>, che faccia seguito ad un celere intervento normativo da parte di chi ne ha la competenza.
Lo stato dei fatti fa riflettere su quanto sia importante per l’Amministrazione finanziaria, che intenda ricorrere allo strumento di indagine de quo, la scrupolosa osservanza dei principi generali (che verranno riassunti nel paragrafo successivo) validi in ambito impositivo – internazionale a presidio della legittimità dell’attività posta in essere.
Ma come si colloca la giurisprudenza nazionale in merito alla valenza in ambito processuale di elementi di indagine acquisiti non rispettando tali principi internazionali? Possono essere utilizzati? Entro che margini? E’ possibile trovare dei punti di equilibrio finalizzati a dare dignità agli sforzi sostenuti nell’attività di indagine, da una parte, nel rispetto del diritto di difesa del contribuente, dall’altra?
Non è facile dare risposte a tali quesiti poiché l’assenza di una specifica disciplina di natura amministrativa sugli accertamenti bancari in ambito sopranazionale rischia di alimentare dubbi e procedure censurabili.
Al riguardo, tuttavia, si è del parere che la posizione della giurisprudenza tributaria nazionale, formatasi su questioni attinenti l’utilizzo o meno di materiale probatorio acquisito nell’ambito del nostro Paese in violazione delle disposizioni << interne >>, possa costituire un valido indirizzo valutativo per chi è chiamato ad utilizzare lo strumento cooperativo trasnazionale in tema di accertamenti bancari.
In argomento la Suprema Corte di Cassazione si è orientata prevalentemente per una inutilizzabilità nel processo tributario di elementi probatori irritualmente acquisiti[14]; l’assunto si basa sia sul generale principio di legalità esistente nell’ordinamento, sia sulla violazione del diritto di difesa del contribuente che, diversamente, ne deriverebbe e che inevitabilmente renderebbe inutilizzabile la prova assunta in maniera illegittima[15].
Non può tuttavia trascurarsi la contraria posizione giurisprudenziale, a mente della quale << in materia tributaria non vige il principio, presente invece nel codice di procedura penale, secondo cui è inutilizzabile la prova acquisita irritualmente >> e quindi, in assenza di una chiara sanzione processuale di ordine tributario, diretta a rendere inutilizzabile il materiale non correttamente assunto, ben potrebbe il Fisco utilizzarlo a fini accertativi (la posizione giurisprudenziale si incardina nel ragionamento in virtù del quale gli interessi coinvolti nell’esercizio della giurisdizione penale sono del tutto peculiari[16]).
I due indirizzi potrebbero ragionevolmente portare ad una soluzione di compromesso: l’inutilizzabilità potrebbe essere trasfusa analogicamente nel processo tributario a condizione che l’irritualità dell’assunzione della prova comprima il diritto di difesa del contribuente o abbia, eventualmente, inciso, ledendolo, un diritto soggettivo costituzionalmente garantito[17].
La conclusione deve fare riflettere, se non si vuole che materiale probatorio, acquisito con fatica e con ingenti sforzi economici per le << tasche dello Stato >>, a seguito dell’impiego di ingenti risorse nel settore investigativo, rischi di non poter essere utilizzato poiché << malamente acquisito >>, o a seguito dei generali principi di rango internazionale, prima, o delle regole << interne >>, dopo.
Ne deriva che lo scambio informativo, se per un verso è necessitato dall’esigenza di far fronte alla strutturale mancanza di informazioni in capo all’Amministrazione che ritenga che il contribuente possa avere collocato i propri fattori produttivi altrove o, comunque, posto in essere lì operazioni significative in termini fiscali, allo scopo di sottrarsi più facilmente ai controlli e all’imposizione vigente nel proprio Paese, d’altro verso, si è precisato, esso deve essere svolto nel rispetto dei principi internazionali.
Tra questi rileva, significativamente, la cosiddetta clausola << equivalenza >>, secondo cui lo Stato destinatario della richiesta non è obbligato ad attivarsi per esaudirla se, ancorché in linea e compatibile con la propria legislazione, l’altro Stato, al contrario, non è legittimato a fornirla a cagione della propria legislazione[19].
Il principio, che realizza una limitazione alla prestazione dell’assistenza, si prefigge un’acquisizione di informazioni che, perché legittima, deve essere consentita in entrambi gli Stati, ma anche di evitare che attraverso lo strumento della cooperazione internazionale possano essere elusi vincoli alla potestà investigativa vigenti in ambito << interno >>.
Lo strumento di indagine, quindi, improntato sull’assistenza amministrativa in campo internazionale, deve potersi esercitare nei limiti delle potenzialità investigative riconducibili in capo all’Amministrazione del Paese da cui è avanzata l’istanza di collaborazione.
L’equivalenza, dunque, è legata al diritto all’ottenimento di un’assistenza pari a quella che si sarebbe in grado di fornire secondo un criterio di reciprocità: intanto uno Stato è disposto a fornire ad un altro Stato una determinata assistenza, in quanto, a propria volta, possa pretenderne una equivalente[20].
Una richiesta collaborativa che dovesse debordare dai limiti posti in essere dal principio, sarebbe censurabile poiché, appunto, irrispettosa della necessaria equivalenza delle potestà investigative delle amministrazioni dei Paesi interessati.
Tale regola è contenuta nell’art. 26 del Modello OCSE[21] e nelle disposizioni comunitarie[22].
L’esegesi del principio di equivalenza pone vari aspetti problematici, di carattere sostanziale e procedurale, dovuti ad un generale scollamento tra gli ordinamenti tributari dei Paesi interessati[23].
Non è raro, ad esempio, che gli Stati utilizzino modalità particolari e diverse per conservare informazioni utili, particolarità che potrebbero essere legate ad esigenze di varia natura; tra le tante, ad esempio, quelle afferenti alla ritenuta maggiore o minore tutela della riservatezza di un determinato dato. Dette informazioni, pertanto, se acquisite tramite una procedura in distonia con quella vigente nel Paese istante, non dovrebbero poter essere qui utilizzate in quanto lederebbero il principio di equivalenza. Questo potrebbe non essere eluso se solo, ad esempio, venissero presi accordi di dettaglio volti a disciplinare la particolare forma da adottare nell’acquisizione e custodia di quelle informazioni, nel rispetto, quindi, di una necessaria equivalenza procedurale.
D’altro canto, in tema di accertamenti bancari, l’equivalenza assume significatività in relazione tanto all’esistenza in entrambi gli Stati di una normativa che legittimi l’Amministrazione finanziaria a << curiosare >> nei conti del soggetto sottoposto al controllo, quanto – e soprattutto – alla misura entro cui tale potestà può essere esercitata, dunque in relazione al limite entro cui essa può spingersi. Dal quadro che ne emerge si pongono significative questioni afferenti l’esistenza di un’equivalenza amministrativa, sia procedurale sia sostanziale, legittimante l’esercizio del potere.
Al riguardo, i presupposti motivazionali sottesi all’autorizzazione amministrativa volta a superare il segreto bancario in ambito tributario, hanno costituito << già >> in ambito << interno >> diatribe tra contribuenti e Fisco[24]: orientamenti giurisprudenziali niente affatto univoci, sono volti inevitabilmente a costituire un importante elemento ostativo o, comunque, di disturbo in relazione all’adozione, in ambiente internazionale, del principio di equivalenza, condizionato, oltretutto, dalla presenza di ordinamenti giuridici diversificati ed eterogenei.
Il panorama giurisprudenziale nazionale dimostra, infatti, come le posizioni altalenanti, sia in dottrina che in giurisprudenza, si siano accentuante allorquando l’oggetto specifico della debenza abbia riguardato, in particolare, i limiti disciplinati dalla norma entro i quali l’accertamento bancario può essere legittimamente svolto. A seconda della maggiore o minore portata, detti limiti possono legittimare, o meno, l’estensione dell’indagine a soggetti più o meno legati, in varia misura, al contribuente direttamente interessato al controllo (assumendo, in questo modo, un rilievo di matrice soggettiva) oppure consentire, o, viceversa, negare, un accertamento avente ad oggetto operazioni che non siano da ritenersi letteralmente << bancarie >>, ma più genericamente << finanziarie >>, determinando, dunque, un’estensione anche oggettiva del campo di applicazione delle particolari investigazioni.
L’estensione soggettiva del potere di accertamento bancario (rectius, di indagini finanziarie, se a tale particolare potere si attribuisce la portata assunta attraverso la Legge n. 311 del 30 dicembre 2004)[25] assume un rilievo tutt’altro di poco conto, per di più se ne si vuol dare una lettura che non sia in distonia con il principio di equivalenza. Ecco, dunque, l’assoluto risalto che sul tema prendono corpo le posizioni << già >> presenti nell’ambito della giurisprudenza << interna >> ed in dottrina, inevitabilmente destinate a divergere ancor più se correlate con i punti fermi che fanno capo al principio in argomento: le posizioni ondivaghe della giurisprudenza nazionale verrebbero ulteriormente << agitate >> dalla necessità di una comparazione tra l’architettura normativa di settore italiana e quella di altri ordinamenti giuridici, nella ricerca di quel rapporto di equivalenza (verrebbe da dire nella ricerca di quella sorta di << sinallagmaticità amministrativa trasnazionale >>) a legittimazione della cooperazione tra le amministrazioni fiscali dei diversi Paesi.
La considerazione, pertanto, porta a riflettere su varie tematiche che hanno costituito e costituiscono motivo di controversie << interne >> e che tendono, appunto, a << complicarsi >> se messe in relazione con il principio de quo.
Si prenda, a solo titolo esemplificativo, una per tutte, la questione dei limiti di utilizzo delle movimentazioni bancarie dei conti dei soci nei riguardi della società – contribuente: nel corso degli anni è scaturito, in ambito nazionale, un ricchissimo panorama giurisprudenziale e dottrinale.
Non possono non nascere riflessioni legate alle problematiche che ne conseguirebbero se il giudice nazionale dovesse decidere con il pensiero rivolto anche al contesto trasnazionale, dunque, tra gli altri, al generale principio di equivalenza, in assenza di previsioni normative sopranazionali che disciplinano il superamento del segreto bancario; il panorama giurisprudenziale si arricchirebbe ulteriormente.
Questo il quadro riassuntivo: in varie pronunce la giurisprudenza della Corte di Cassazione, facendo riferimento sia alle società di persone sia di capitali, ha ritenuto che non osta la riconduzione del conto del socio in capo alla società di appartenenza, con conseguente dirottamento su quest’ultima dei << pesanti effetti presuntivi >> che la normativa, in tema di accertamenti bancari e finanziari, ammette in relazione all’inversione dell’onere probatorio[26] (in particolare il riferimento è, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, alla presunzione prevista dall’art. 32, comma 1, n. 2, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, a mente della quale il Fisco può applicare, ai titolari di reddito di impresa e di lavoro autonomo, la presunzione relativa in base alla quale, a fronte di un prelievo o di un importo riscosso, ingiustificato in sede di contraddittorio per l’assenza dell’indicazione del soggetto beneficiario, può essere legittimamente contestata l’esistenza – presunta – di componenti positivi di reddito, semprechè tale prelievo o importo riscosso non risulti dalle scritture contabili).
A più miti conclusioni, invece, giunge parte della giurisprudenza di legittimità, secondo cui a fatica può presumersi che la società utilizzi, per lo svolgimento della propria attività, non soltanto i conti ad essa intestati, ma anche quelli intestati ai citati soggetti diversi, di cui tuttavia non ne ha la disponibilità ([27]) ([28]).
Da quanto emerge dal (solo) panorama giurisprudenziale nazionale, è evidente la difficoltà in cui attualmente si trova il Fisco italiano che, nel rispetto del principio tributario internazionale di equivalenza, si trova a dover valutare di avanzare o meno una richiesta di mutua assistenza amministrativa ad un altro Paese, volta all’ottenimento di informazioni bancarie e finanziarie.
Equivalenza, qui, vorrebbe poter dire che l’Amministrazione fiscale italiana potrebbe sì richiedere ad un altro Stato, in relazione a soggetti lì presenti e di cui essa ritiene di vantare un interesse fiscale, informazioni bancarie e finanziarie al fine di utilizzare quelle riconducibili ai conti dei soci anche nei riguardi della società – contribuente; a condizione, tuttavia, di poter garantire, alla luce del vigente quadro normativo << interno >>, altrettanta potenzialità investigativa ad una futura ed analoga richiesta proveniente dall’Amministrazione straniera. Tuttavia è evidente, per la moltitudine di motivazioni che sono emerse dalla corposa giurisprudenza formatasi nel corso degli anni, che non sempre in Italia è ritenuta legittima l’acquisizione di elementi bancari del socio, allo scopo, per via indiretta, di poterli successivamente contestare alla corrispondente società a cui egli fa capo. In questa direzione, se questo è lo scopo, quelle informazioni non possono essere legittimamente assunte e dunque assicurate all’Amministrazione dell’altro Stato.
La conclusione non può che andare a rafforzare l’augurio per un intervento in ambito comunitario o internazionale allo scopo di dar corpo ad una disciplina organica in tema di accertamenti bancari che offra all’interprete maggiore certezza giuridica ed una più precisa strada da percorrere e che, anche, ponga le basi per superare le stringenti conseguenze che possono derivare da una rigorosa interpretazione del principio di equivalenza.
In argomento un altro aspetto è meritevole di riflessione. Dalla guida che l’OCSE ha predisposto per le autorità competenti, si desume il principio a mente del quale l’Amministrazione finanziaria è legittimata a richiedere ad una banca un conto a condizione che abbia la consapevolezza che presso tale istituto di credito il soggetto investigato abbia tale conto.
Una richiesta generica, volta indiscriminatamente a conoscere tutti i conti di cui un contribuente dovesse averne la disponibilità in tutte le banche del territorio nazionale, lederebbe l’assunto convenzionale.
Rischio, questo, che incombe sull’architettura procedimentale italiana in materia di accertamenti bancari e finanziari laddove si pensi che, al contrario del disposto convenzionale, viene data legittimazione al Fisco nazionale di inoltrare istanze, per il raggiungimento dello scopo, in assenza dei vincoli di specificità pretesi dalla guida OCSE[29].
Ciò detto, alla luce del principio di equivalenza volto, oltretutto, a limitare l’accertamento all’estero del Fisco entro i limiti della potenzialità investigativa di cui esso dispone nell’ordinamento giuridico interno, è stato ritenuto che l’Italia, in cui vige una disciplina in tema di accertamenti bancari e finanziari ai fini fiscali molto ampia, si pone, rispetto agli altri Stati comunitari o extraeuropei, in una posizione di superiorità, al più di uguaglianza, avuto riguardo all’estensione dei dati che possono essere scambiati, conseguendone che << le richieste attive di dati bancari sono generalmente ammissibili, sia che lo Stato adito sia fornito anch’esso di una specifica disciplina altrettanto ampia, sia che la stessa abbia una minore portata >>[30]. Percorrendo il ragionamento, non altrettanto deve potersi dire nel caso in cui la portata operativa del Fisco straniero assuma un’ampiezza maggiore rispetto a quella del Fisco dello Stato istante poiché quest’ultimo, come si è fatto cenno, potrebbe aggirare vincoli nazionale attraverso lo strumento della cooperazione internazionale: riuscirebbe, in questo modo, ad acquisire informazioni di indagine che la normativa di << casa propria >> gli precluderebbe.
Fermo restando tale conclusione, che deve rimanere un punto fermo a supporto del principio di equivalenza, l’adozione di questo si pone, più nel dettaglio, in relazione allo scopo che attraverso la specifica procedura le amministrazioni fiscali dei Paesi interessati si prefiggono di raggiungere.
Si prendano, a titolo esemplificativo, due Paesi: il paese A e il paese B.
A, nel rivolgere una richiesta di collaborazione amministrativa a B, finalizzata all’assunzione di informazioni bancarie e finanziarie aventi ad oggetto un determinato soggetto, lo può fare attraverso un’istanza i cui presupposti, tuttavia, devono poter << equivalere >> a quelli insiti ad analoga richiesta che potenzialmente B potrebbe un giorno, a propria volta, rivolgergli.
Ne consegue che la richiesta di collaborazione di A è filtrata da un lato dai necessari presupposti normativi << interni >> che vincolano l’Amministrazione fiscale istante a legittimazione dell’esercizio del potere[31], dall’altro dai principi di matrice internazionale, tra cui quello di equivalenza (e con esso di reciprocità, nel significato cui si è fatto cenno supra); ma, anche, di sussidiarietà, derivandone, in questo caso, che intanto è consentito ad A di accedere alla collaborazione amministrativa internazionale in quanto non disponga di altre possibilità << interne >> per assumere le informazioni di interesse – a meno che la procedura << interna >> risulti così tanto sconveniente, in termini economici, da giustificare una più efficiente richiesta direttamente allo Stato estero –[32].
D’altro lato, l’Amministrazione fiscale di B, ricevuta l’istanza, in ossequio alla procedura evidenziata, potrà legittimamente acquisire le informazioni, esaudendo in questo modo la richiesta del Fisco di A, nel rispetto della propria normativa. Dunque, se B dovesse identificarsi con l’Italia, l’Amministrazione fiscale italiana è tenuta, tra l’altro, ad operare rispettando vincoli i di cui all’art. 51, comma 2 del D.P.R. n. 633/1972 e all’art. 32, comma 1 del D.P.R. n. 600/73, << a nulla rilevando il presupposto di tale richiesta, ovvero “autonoma attività ispettiva” invece di “attivazione da parte di un’Amministrazione fiscale straniera”[33] >>.
Tali vincoli, legati ai principi internazionali, dovrebbero valere per la collaborazione a richiesta; viceversa, non dovrebbero porsi preclusioni a seguito di scambio spontaneo di informazioni.
In questo caso, tutt’al più, fermo restando la correttezza della procedura che si incardina fondamentalmente sulla volontà collaborativa di uno dei Paesi, potrebbero sorgere significativi impedimenti all’utilizzo per fini tributari delle informazioni ricevute in caso di una loro originaria illecita acquisizione (viene in mente l’ipotesi dell’impiegato di banca che sottrae illecitamente informazioni acquisite durante il lavoro, violando il riserbo legato alla funzione esercitata, per poi fornirle al Fisco). Emergono così aspetti che potrebbero riguardare le problematiche sull’irrituale utilizzo per fini fiscali dei dati non correttamente acquisiti.
Si ritiene che potrebbero nascere fondate perplessità se l’Amministrazione fiscale di un Paese, ricevute interessanti informazioni da un altro Stato, da cui potenzialmente potrebbero derivarne importanti introiti erariali, le utilizzasse per contestazioni tributarie ignorando la modalità di loro originaria acquisizione e motivandone l’utilizzo sull’assunto della corretta adozione della procedura collaborativa di spontanea comunicazione dei dati (quest’ultima, infatti, non è idonea, in re ipsa, a sanare le irregolarità precedentemente realizzate in concomitanza con l’acquisizione delle informazioni).
I dubbi legati ad una conclusione del genere sono insiti non nella formale correttezza dell’iter procedurale volto allo scambio spontaneo, sulla quale nulla quaestio, ma nell’oggetto della stessa, soprattutto se inficiato da un’assunzione avvenuta attraverso modalità illecite e a dispregio del generale principio di legalità che si erge su tutto l’ordinamento giuridico, in particolare se tale illiceità è di matrice penale, in considerazione dell’allarme destato.
Non si vuole asserire, naturalmente, che l’origine illecita debba costituire uno scudo a tutela di violazioni tributarie; tutt’altro. Queste devono essere perseguite, né più né meno, alla stessa stregua di ogni altra infrazione di legge. Ma è necessario che le modalità con cui tale obiettivo viene raggiunto si incardinino su procedure disciplinate da disposizioni internazionali o interne, che devono essere rispettate (non è etico, prima ancora che irrituale, << rubare al ladro per poi tassare quanto sottrattogli >>).
* Le opinioni espresse sono frutto di uno studio personale dell’autore e non implicano alcuna presa di posizione dell’Amministrazione di appartenenza.
[1] Sacchetto, Indagini tributarie e legislazioni straniere sul segreto bancario, in il fisco, n. 39/1996, pagg. 9296, ss.; Tosi, La collaborazione con le Amministrazioni straniere ai fini della repressione degli illeciti fiscali in materia di imposte dirette, in il fisco n. 36/2001, pagg. 11731, ss., il quale pone l’attenzione sulla necessità di una fattiva collaborazione tra le varie amministrazioni poiché, << (…) in assenza di un potere di intervento diretto nel territorio altrui, solo attraverso la collaborazione è possibile acquisire notizie, informazioni, dati di riscontro sui fatti e sulle circostanze che si realizzano all'estero, alla cui disponibilità è subordinata la concreta applicazione delle disposizioni di carattere sostanziale (...) >> nell’ambito di ogni ordinamento giuridico, per cui << (...) sul piano della tassazione transnazionale i profili procedimentali non sono semplici corollari delle norme sostanziali, ma ne rappresentano il necessario completamento, ergendosi a vere e proprie condizioni di efficacia >>. A conferma dell’importanza della collaborazione tra le diverse amministrazioni fiscali, dunque, viene posta l’attenzione sul legame che vige tra i profili sostanziali e quelli procedimentali del rapporto giuridico d’imposta: i primi, non raramente, si originano nei secondi. Ne consegue la centrale portata che riveste la disciplina dei profili procedimentali, attualmente inadeguata, che trova nella cooperazione trasnazionale un ineludibile strumento di attuazione.
[2] Il Modello OCSE per le Convenzioni contro le doppie imposizioni sul reddito e sul patrimonio è il modello maggiormente utilizzato. Si è passati dalla versione del 1963 a quelle del 1977 e, per ultima, del 1992. L’art. 26 - Scambio di informazioni -, nella versione del 1963, primo paragrafo, primo capoverso, così recita: << 1. Le autorità competenti degli Stati contraenti si scambieranno le informazioni necessarie ad applicare le disposizioni della presente Convenzione o quelle della legislazione interna degli Stati contraenti relative alle imposte previste dalla Convenzione, nella misura in cui la tassazione che tali leggi prevedono non sia contraria alla Convenzione (…) >>. La versione del 1977 fa esplicito riferimento alla prevenzione dei fenomeni di frode e di evasione fiscale; tale aspetto è confermato nel 1922.
Il Modello ONU, all’art. 26, disciplina lo scambio di informazioni e ripercorre, abbastanza fedelmente, la versione del 1977 del Modello OCSE, attraverso l’esplicito riferimento alla << prevenzione della frode e dell’evasione delle imposte >>.
[3] Tra tali accordi si annoverano le convenzioni che l’Italia ha stipulato: - con la Russia, decorrente dal 30 novembre 1998; - con la Francia, decorrente dal primo maggio 1992; - con la Germania, decorrente dal 26 dicembre 1992; - con i Paesi Bassi, decorrente dal 3 ottobre 1993.
[4] Si veda Di Nuzzo - Ruis, Prevenzione e repressione delle frodi all'Iva: profili di criticità e prospettive operative, in il fisco, n. 19/2006, pag. 2888, ss.; Caprino - Nastasia, Frodi IVA, la UE alza il tiro, in Il Sole-24 Ore, 23 gennaio 2006; Meazza, IVA, partite mute sotto tiro, ivi, 2 marzo 2006.
[5] Direttiva del Consiglio 19 dicembre 1977, n.77/799/CEE relativa alla reciproca assistenza fra le autorità competenti degli Stati membri in materia di imposte dirette e di imposte sui premi assicurativi (Gazz. Uff. CE n. 336 del 27 dicembre 1977).
[6] Direttiva del Consiglio 6 dicembre 1979, n. 79/1079/CEE che modifica la direttiva 77/799/CEE relativa alla reciproca assistenza fra le autorità competenti degli Stati membri nel settore delle imposte dirette (Gazz. Uff. CE n. 331 del 27 dicembre 1979).
[7] D.P.R. 5 giugno 1982, n. 506, di attuazione delle direttive (CEE) n. 77/799 e n. 79/1070 relative alla reciproca assistenza tra gli Stati membri nei settori delle imposte dirette e dell’I.V.A..
[8] Al riguardo l'articolo 11 del Regolamento (CE) n. 1798/2003 così recita:
<< 1. Previo accordo fra l'autorità richiedente e l'autorità interpellata e secondo le modalità fissate da quest'ultima, agenti debitamente autorizzati dalla prima possono essere presenti negli uffici in cui esercitano le loro funzioni le autorità amministrative dello Stato membro nel quale ha sede l'autorità interpellata per scambiare le informazioni di cui all'articolo 1. Qualora le informazioni richieste siano contenute in una documentazione cui possono accedere gli agenti dell'autorità interpellata, agli agenti dell'autorità richiedente è data copia della documentazione che riporta le informazioni richieste.
2. Previo accordo tra l'autorità richiedente e l'autorità interpellata e in base alle modalità stabilite da quest'ultima, agenti designati dall'autorità richiedente possono essere presenti durante le indagini amministrative al fine di scambiare le informazioni di cui all'articolo 1. Le indagini amministrative sono svolte esclusivamente dagli agenti dell'autorità interpellata. Gli agenti dell'autorità richiedente non esercitano i poteri di controllo di cui sono titolari gli agenti dell'autorità interpellata. Tuttavia possono avere accesso agli stessi locali e agli stessi documenti cui hanno accesso questi ultimi, per loro tramite ed esclusivamente ai fini dell'indagine amministrativa in corso (...) >>.
[9] Altri aspetti di interesse in capo al Regolamento de quo sono riconducibili: - all'art. 12, di disciplina dei controlli simultanei, a mente del quale << ai fini dello scambio di informazioni di cui all'articolo 1, due o più Stati membri possono consentire, ognuno nel proprio territorio, che si ricorra a controlli simultanei riguardo alla situazione tributaria di uno o più soggetti passivi che presentino un interesse comune o complementare, nel caso in cui tali controlli appaiano più efficaci di un controllo eseguito da un solo Stato membro >>; - all'art. 17, in tema di scambio automatico di informazioni, secondo cui << (...) l'autorità competente di ogni Stato membro procede ad uno scambio automatico o a uno scambio automatico organizzato delle informazioni di cui all'articolo 1 con l'autorità competente di ogni altro Stato membro interessato nelle seguenti situazioni:
1) se la tassazione deve aver luogo nello Stato membro di destinazione e l'efficacia del sistema di controllo dipende necessariamente dalle informazioni fornite dallo Stato membro di origine;
2) se uno Stato membro ha motivo di credere che nell'altro Stato membro è stata o potrebbe essere stata violata la legislazione sull'IVA;
3) se esiste un rischio di perdita di gettito fiscale nell'altro Stato membro >>.
[10] Regolamento della Commissione 29 ottobre 2004, n. 1925/2004/CE, che stabilisce le modalità d'applicazione di talune disposizioni del Regolamento (CE) n. 1798/2003 del Consiglio relativo alla cooperazione amministrativa in materia d'imposta sul valore aggiunto (Gazz. Uff. UE n. L 331 del 5 novembre 2004). Per un’analisi del regolamento n. 1925/2004/CE si veda F. Tagliafierro - L. Tagliafierro, Le nuove disposizioni comunitarie per la lotta alla frode Iva, in il fisco n. 11/2005, pagg. 1600, ss..
[11] Il riferimento è al Regolamento n. 1798/2003 ed alla Direttiva n. 77/799/CEE, per quanto riguarda le disposizioni comunitarie e, in relazione al contesto più propriamente internazionale, al citato art. 26 del Modello OCSE di Convenzione contro le doppie imposizioni.
[12] Nuzzolo, L’opponibilità del segreto bancario nell’accertamento trasnazionale dei redditi, in il fisco, n. 32/2005, pagg. 4976, ss..
[13] La mutua assistenza amministrativa tra i vari Paesi soffre, di per sé, di importanti limitazioni legate alla particolare eterogeneità e diversità delle legislazioni nazionali e delle prassi amministrative degli ordinamenti interessati.
Impedimenti per una sua piena attuazione sono anche riconducibili: – alla cautela degli Stati a cooperare in relazione al settore tributario, ritenuto sensibile in quanto direttamente collegato al contesto economico << interno >> del Paese (concezione limitata, in attrito con l’era della globalizzazione economica che non si arresta innanzi agli ostacoli << domestici >>); – all’insufficienza di un adeguato livello di coordinamento tra le amministrazioni finanziarie; – alla ritenuta inadeguata capacità cogente della disciplina della cooperazione internazionale in ambito fiscale.
[14] Si veda, tra le tante, Cass., 29 novembre 2001, n. 15209, in I Quattro codici della Riforma Tributaria big, Cd-rom, IPSOA; Id., 3 dicembre 2001, n. 15230, Ivi; Id., 21 novembre 2002, n. 16424, ivi..
[15] Si confronti Corso, Esiste ancora il principio di legalità? in Corr. trib. n. 17/2001, pag. 2227, nonché Stufano, Sull’utilizzabilità delle prove illecite o illegittime, ivi n. 39/2002, pag. 3534.
[16] In argomento si veda Cass., 19 giugno 2001, n. 8344, in il fiscovideo, nella quale il giudice di legittimità aveva ritenuto che l’acquisizione irrituale di elementi rilevanti ai fini dell’accertamento fiscale non comporta la loro inutilizzabilità in mancanza di una norma specifica che preveda questa sanzione per il comportamento anomalo dell’Amministrazione finanziaria. In tale occasione, infatti, la Corte aveva reputato che l’inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite, riguardando solo il sistema procedurale penale, così come modificato dalla riforma del 1989, non si estende all’ordinamento tributario e che l’autonomia dei due procedimenti consente l’esistenza di una situazione per cui una nullità afferente un atto del procedimento penale non ha rilievo nel procedimento tributario. Peraltro, il fatto che talune violazioni non comportino la sanzione specifica della inutilizzabilità degli elementi irritualmente acquisiti non significa che la violazione sia priva di conseguenze perché in tali casi le conseguenze sanzionatorie possono ricadere direttamente sull’autore dell’illecito sul piano disciplinare ed eventualmente sul piano della responsabilità civile e penale. Si confronti, inoltre, Cass., 16 marzo 2001, n. 3852, in il fiscovideo, nel punto in cui viene sostenuto che la mancata autorizzazione dell’Autorità giudiziaria prescritta per la trasmissione di atti, documenti e notizie acquisiti nell’ambito di un’indagine o di un processo penale agli uffici fiscali non produce conseguenze sulla legittimità del relativo accertamento. Secondo tale orientamento, l’art. 63 del D.P.R. n. 633/1972 ai fini dell’Imposta sul valore aggiunto e l’art. 33 del D.P.R. n. 600 del 1973 ai fini delle imposte dirette, sono posti a tutela della riservatezza delle indagini penali e non a vantaggio dei soggetti coinvolti nel processo tributario. La mancata autorizzazione non determina l’inutilizzabilità degli elementi probatori sui quali è fondato l’accertamento tributario e, di conseguenza, non risultano invalidi gli atti di recupero dell’imponibile da parte dell’Amministrazione finanziaria o la decisione del giudice tributario che conferma l’operato del Fisco
[17] Gambogi, nota a Cass., 19 settembre 2001, n. 8344, in Corr. trib. n. 39/2001, pagg. 2949, ss; Bersani, Procedura penale tributaria, Milano 1999, pag. 216.
[18] In argomento si veda Nuzzolo, L’opponibilità del segreto bancario nell’accertamento trasnazionale dei redditi, in il fisco, n. 32/2005, pagg. cit..
[19] In argomento si confronti Nuzzolo, L’opponibilità del segreto bancario nell’accertamento trasnazionale dei redditi, cit..
[20] Altro significativo principio internazionalmente riconosciuto è quello di << sussidiarietà >>, per cui è possibile avanzare domande di assistenza quando siano stati già esperiti tutti gli strumenti interni, a meno che, in deroga al principio generale, questi ultimi si rivelino particolarmente onerosi se correlati al – minore – sacrificio economico, in capo all’altro Stato, di ottenere la medesima informazione. In questa direzione il commentario al Modello ONU, tra le regole alle quali gli Stati dovrebbero attenersi, disciplina il << livello >> di esaurimento degli strumenti di indagine interni allo Stato richiedente che deve essere raggiunto prima che tale Stato possa formulare la richiesta. Sul punto, concordemente, il Commentario al Modello OCSE, nella versione del 1977, precisa che << (…) i normali strumenti informativi previsti dalla procedura accertativi interna dello Stato richiedente, dovrebbero essere utilizzati prima che la richiesta di informazioni venga rivolta all’altro Stato contraente >>.
[21] L’art. 26 – Scambio di informazioni -, comma 2 del Modello OCSE (rimasto invariato nelle tre versioni del Modello), testualmente recita:
<< Le disposizioni di cui al paragrafo 1 non possono in nessun caso essere interpretate nel senso di imporre ad uno Stato contraente l’obbligo:
a) di adottare misure amministrative in deroga alla propria legislazione o alla propria prassi amministrativa o a quella dell’altro Stato contraente;
b) di fornire informazioni che non potrebbero essere ottenute in base alla propria legislazione o nel quadro della propria normale prassi amministrativa o di quella dell’altro Stato contraente;
c) di dare informazioni che potrebbero rivelare un segreto commerciale, industriale, professionale o un processo commerciale, oppure informazioni la cui comunicazione sarebbe contraria all'ordine pubblico (…) >>.
[22] Direttiva n. 77/799/CEE e Regolamento n. 1798/2003/CE.
La Direttiva n. 77/799/CEE, art. 8 - Limiti allo scambio di informazioni -, paragrafo 1 << (...) non impone allo Stato membro al quale sono richieste informazioni alcun obbligo di effettuare indagini o di comunicare informazioni, se la legislazione o la prassi amministrativa di tale Stato non consente all'autorità competente di condurre tali indagini o di raccogliere le informazioni richieste >>. Il Regolamento n. 1798/2003/CE, art. 40, paragrafo 2, con analoga previsione, non obbliga << (...) di far effettuare indagini o di trasmettere informazioni quando la legislazione o la prassi amministrativa dello Stato membro che dovrebbe fornire le informazioni non consentano allo Stato membro di effettuare tali indagini nè di raccogliere o utilizzare tali informazioni per le esigenze proprie di detto Stato membro >>.
[23] La dottrina, tra l’altro, si è chiesta se vige un obbligo giuridico in capo alle amministrazioni fiscali di svolgere attività istruttoria necessaria per trasmettere l’informazione all’Amministrazione istante straniera. Dalla portata dell’art. 26 del Modello OCSE sembrerebbe potersi dare una soluzione affermativa, soprattutto se l’informazione è già disponibile in capo allo Stato destinatario dell’istanza. Vincolo che, tuttavia, non dovrebbe imporsi nel caso di scambio spontaneo di informazioni, ma che dovrebbe sussistere solo nello scambio su richiesta o in caso di scambio automatico previo accordo tra le amministrazioni. Comunque, se a seguito di istruttoria, sia che questa sia stata svolta di iniziativa, sia a richiesta, emerge un’informazione rilevante per l’Amministrazione dell’altro Paese, questa deve essere trasmessa. E’ stato ritenuto che << (…) mentre nelle altre tipologie di scambio di informazioni l’obbligo è preventivo, sicchè una volta sorto in base alla richiesta (nel caso di scambio a richiesta) o all’accordo tra le amministrazioni (nel caso di scambio automatico), l’autorità dovrà svolgere attività istruttoria, nello scambio spontaneo è successivo, cosicché solo dopo aver raccolto l’informazione rilevante sorge l’obbligo di trasmetterla >>, Garbarino, Manuale di tassazione internazionale, IPSOA, 2005, pag. 208.
[24] L'art. 32, comma 1, n. 7), del D.P.R. n. 600/1973, in materia di accertamento delle imposte sui redditi, nonché l’art. 51, comma 2, n. 7 del D.P.R. n. 633/1972, in materia di istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto, prevedono che gli uffici dell'Agenzia delle entrate e la Guardia di finanza possano, per l'adempimento dei loro compiti istituzionali, << richiedere, previa autorizzazione del direttore centrale dell'accertamento dell'Agenzia delle entrate o del direttore regionale della stessa, ovvero, per il Corpo della Guardia di finanza, del comandante regionale, alle banche, alla società Poste italiane Spa, per le attività finanziarie e creditizie, agli intermediari finanziari, alle imprese di investimento, agli organismi di investimento collettivo del risparmio, alle società di gestione del risparmio e alle società fiduciarie, dati, notizie e documenti relativi a qualsiasi rapporto intrattenuto od operazione effettuata, ivi compresi i servizi prestati, con i loro clienti, nonché alle garanzie prestate da terzi >>. Trattandosi di un atto dell'Amministrazione finanziaria, a mente della L. 27 luglio 2000, n. 212 (c.d. Statuto dei diritti del contribuente), art. 7.- Chiarezza e motivazione degli atti - , detta autorizzazione deve essere motivata << secondo quanto prescritto dall'articolo 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241, concernente la motivazione dei provvedimenti amministrativi, indicando i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’Amministrazione >>.
Sul punto sono emerse varie problematiche aventi ad oggetto l’autorizzazione de qua, tra le quali si annota il diritto che il contribuente eserciti l’accesso al provvedimento autorizzatorio e l’allegazione di quest’ultimo alla richiesta rivolta al soggetto tenuto a fornire le informazioni bancarie. In argomento la Circolare n. 32/E del 19 ottobre 2006 dell’Agenzia delle entrate, in banca dati il fiscovideo, dopo aver richiamato la Circolare n. 116/E del 10 maggio 1996, ivi, ha espresso il timore che l’atto autorizzatorio, in quanto obbligatoriamente allegato alla richiesta, se facente riferimento a specifici esiti dell'attività ispettiva in precedenza operata, potrebbe rivelarsi inaffidabile sul piano della tutela dei diritti del soggetto verificato, fino al punto da compromettere lo stesso rapporto intercorrente tra la banca stessa e il suo cliente. Altre questioni hanno riguardato l’autonoma impugnabilità dell’autorizzazione. Al riguardo la Circolare n. 116/E del 10 maggio 1996, nella medesima direzione della giurisprudenza e della dottrina maggioritaria, ha precisato che << l'autorizzazione, quale atto preparatorio allo svolgimento della fase endoprocedimentale dell'istruttoria, non assume rilevanza esterna autonoma ai fini della sua immediata impugnabilità, in quanto non immediatamente né certamente lesiva sotto il profilo tributario della posizione giuridica del contribuente interessato che non ha ancora subito o potrebbe addirittura non subire alcun atto impositivo >>. In argomento si veda, tra le altre pronunce, Consiglio di Stato, 7 aprile 1995, n. 264, in banca dati fisconline; Comm. trib. reg. Lazio, 14 dicembre 2005, n. 246, in banca dati il fiscovideo.
[25] In Italia di recente, infatti, le cosiddette << indagini finanziarie >> sono riconducibili alla L. n. 311 del 30 dicembre 2004, art. 1, commi nn. 402, 403 e 404, di modifica degli artt. 32 del D.P.R. n. 600/1973 e 51 del D.P.R. n. 633/1972; detta legge ha novellato la disciplina dei più vetusti << accertamenti bancari >>, estendendone il campo si applicazione dalla riduttiva area della << copia dei conti intrattenuti >> dai contribuenti, a << qualsiasi rapporto intrattenuto od operazione effettuata >> dagli stessi, ampliando il novero dei soggetti destinatari della richiesta di dati, notizie e documenti da parte dell’Amministrazione, ora comprendenti anche gli intermediari finanziari, imprese di investimento, organismi di investimento collettivo del risparmio, società di gestione del risparmio e società fiduciarie.
[26] L’assunto può essere sintetizzato nella pronuncia della Corte di Cassazione del primo aprile 2003, n. 4987, in banca dati il fiscovideo, secondo cui << l’acquisizione e l’utilizzazione dei dati bancari non deve essere limitata ai conti intestati alla società, potendo riguardare anche quelli formalmente intestati a soggetti diversi, ove legati alla società da particolari rapporti, quali soci amministratori e procuratori generali >> e che in virtù del principio dell’id quod plerumque accidit si presume che << il contribuente si avvalga di tutti i conti di cui possa disporre per le rimesse ed i prelevamenti inerenti all’esercizio dell’attività >>. Alle stesse conclusioni giungono, altresì, sia pur con motivazioni in parte differenti, Cass, 20 gennaio 1994, n. 512, ivi e in GT – Rivista di giurisprudenza tributaria, 1994, pagg. 769, ss., con nota di Bernardini.
[27] Al riguardo, concordemente con l’assunto, si veda Cass., 24 febbraio 2001, n. 2739, in I Quattro Codici della Riforma tributaria big, Cd-rom, IPSOA; Id., 8 novembre 1984, n. 5642, in Riv. dir. comm., 1985, II, pagg. 91, ss.; Id., 24 luglio 1989, n. 3498, in Foro it., 1990, pagg. 1617, ss.; Id., 16 aprile 2003, n. 6073, in banca dati il fiscovideo; Id., 18 aprile 2003, n. 6232, ivi; Id., 6 giugno 1991, n. 4494, ivi.
[28] Per un più completo inquadramento della giurisprudenza di legittimità e di merito sull’estensione, in genere, delle risultanze bancarie dei soci in capo alla società di appartenenza, si veda Cass., 19 luglio 2002 n. 10598, in I Quattro Codici della Riforma tributaria big, Cd-rom, IPSOA; Id., 4 giugno 1988, n. 3797, in Arch., civ., 1988, pag. 1304; Id., 1 marzo 2002, n. 2980, in I Quattro Codici della Riforma tributaria big, Cd-rom, IPSOA; Id., 2003, n. 17243, in banca dati il fiscovideo; Id., 24 febbraio 2001, n. 2738, ivi; Id., 26 marzo 2003, n. 4423, ivi. Tra la giurisprudenza di merito si rinvia a Comm. trib. reg. Piemonte, 15 luglio 1999, n. 54, in GT – Rivista di giurisprudenza tributaria, 2000, pagg. 39, ss.; Comm. trib. I grado di Forlì, 1 marzo 1996, n. 96, in Boll. trib., 1997, pag. 231; Comm. trib. prov. di Salerno, 12 settembre 2000, n. 139, in I Quattro Codici della Riforma tributaria big, Cd-rom, IPSOA; Id., 7 settembre 1998, n. 216, in Boll. trib., 1999, pag. 82; Comm. trib. prov. di Pesaro, 11 maggio, 1998, n. 59, ivi, 1999, pag. 437; Id., 7 luglio 1999, in il fisco, 1999, pag. 11471; Comm. trib. prov. di Treviso, 5 giugno 1998, n. 186, in I Quattro Codici della Riforma tributaria big, Cd-rom, IPSOA; Comm. Trib. reg. Veneto, 17 dicembre 1998, n. 195, ivi;Comm. Trib. centr., 3 febbraio 1992, n. 765, ivi.
In dottrina si confronti Stufano, Limiti all’estensione soggettiva dell’indagine bancaria, in Corr. trib., 1996, pag. 2243, ss.; Aiudi, Conti bancari e accertamento: la questione dei conti intrattenuti, in Boll. trib., 1999, pagg. 377, ss. e, dello stesso autore, Interposizione di persona nei conti bancari e accertamento tributario, ivi, 1998, pagg. 1775, ss.; Verducci, Le presunzioni in base ai dati bancari nel sistema delle prove, in Riv. dir. trib., 2000, pagg. 612, ss.; Fanelli, Utilizzabilità dei conti dei soci per rettificare il reddito di impresa, in Corr. trib., 1999, pagg. 2666, ss.; Bucci, Considerazioni sulla valenza presuntiva delle movimentazioni bancarie ai fini dell’accertamento, in Rass. trib., 2001, pagg. 119, ss.; Giuliani, Interposizione, frode e devianze societarie: postille di diritto privato e tributario, in Dir. prat. trib., I, 2000, pagg. 1167, ss.; Uckmar, L’interposizione fittizia e le società di comodo quali ipotesi di frode fiscale, in AA.VV., Evasione fiscale e repressione penale, Padova, 1982; Nanni, Interposizione di persona, in Enc. Giur. Treccani, XVII, Roma, 1998; Gallo, Prime riflessioni su alcune recenti norme antielusione, in Dir. prat. trib., 1992, I, pagg. 1761, ss.; Piccardo, Verifiche bancarie: sulla retroattività del nuovo regime del segreto bancario e sull’utilizzabilità dei conti dei soci per rettificare il reddito delle società, in Dir. prat. trib., 2000, pagg. 609, ss.; Marello, Note minime in tema di accertamento effettuato nei confronti di una società di persone in base ad un’indagine bancaria a carico dei soci, in Rass. trib., 2001, pagg. 887, ss..
[29] Attraverso l’introduzione dell’Anagrafe dei rapporti con gli intermediari finanziari, efficace strumento di indagine tributaria concepito da legge di settore, viene data la possibilità al Fisco italiano di individuare in tempi rapidissimi gli operatori bancari o finanziari con i quali il soggetto controllato intrattiene rapporti, fermo restando l’adozione della motivata autorizzazione proveniente del Direttore centrale o regionale dell’Agenzia delle Entrate o dal Comandante Regionale della Guardia di finanza, di cui al comma 2 dell’art. 51 del D.P.R. n. 633/1972 ed al comma 1 dell’art. 32 del D.P.R. n. 600/73, la quale risulta comunque necessaria anche e solo per lo svolgimento di tale attività di individuazione (l’origine di tale banca dati risale all’art. 20, secondo comma, lettera b), della legge 30 dicembre 1991, n. 413. Tramite il Decreto ministeriale 4 agosto 2000, n. 269, essa risulta istituita con la costituzione di un centro operativo presso il Ministero del tesoro, del bilancio e della programmazione economica, titolare del trattamento dei dati, cui i soggetti abilitati possono richiedere, con riferimento a persone fisiche o giuridiche specificamente individuate, l’eventuale esistenza di rapporti di conto o di deposito alle medesime intestati o cointestati o relativamente ai quali esse agiscono, in nome e per conto, o ne possono disporre nell’ambito dell’Archivio unico informatico, tenuto dagli intermediari creditizi o finanziari e dalle Poste italiane S.P.A., a sensi del D.L. 3 maggio 1991, n. 143. Ulteriori disposizioni sono state introdotte con la Legge 4 agosto 2006, n. 248).
[30] In questo senso e con questi termini, Nuzzolo, L’opponibilità del segreto bancario nell’accertamento trasnazionale dei redditi, in il fisco, n. 32/2005, pagg. 4976, ss..
[31] In Italia, come noto, i riferimenti normativi che legittimano l’esercizio del potere sono riconducibili all’art. 51, comma 2 del D.P.R. n. 633/1972 ed all’art. 32, comma 1 del D.P.R. n. 600/73 in materia, rispettivamente, di accertamento dell’imposta sul valore aggiunto e di accertamento delle imposte sui redditi.
[32] In argomento è stato, tuttavia, ritenuto che potrebbero emergere perplessità in ordine alle modalità tramite le quali formulare la richiesta de qua, sull’assunto che l’attivazione della procedura, in campo nazionale, soggiace ad apposita e motivata autorizzazione di specifiche figure dell’Amministrazione finanziaria, la cui assenza o vizio comporta la nullità delle relative prove acquisite. E, al quesito se tale autorizzazione necessiti in casi di collaborazione trasnazionale, ne è stata data una possibile soluzione negativa poiché, dal tenore letterale della disposizione italiana, emergerebbe che l’incombenza concerni unicamente gli istituti di credito insistenti sul territorio nazionale. << In altri termini, la procedura italiana sembra regolare solo il superamento, in campo fiscale, in Italia e presso istituti nazionali, del segreto bancario, mentre autonomo rimane l’utilizzo dei dati acquisiti in altra sede, come nel caso delle indagini penali, e, quindi, anche di quelli scambiati con un’Amministrazione tributaria straniera >>, Nuzzolo, L’opponibilità del segreto bancario nell’accertamento trasnazionale dei redditi, cit..
[33] Nuzzolo, L’opponibilità del segreto bancario nell’accertamento trasnazionale dei redditi, cit..
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