Il singolo condomino non può aprire un varco nella ringhiera del balcone per accedere al cortile comune e, conseguentemente, l’amministratore può agire per la tutela del bene comune (azione però che non è negatoria ex art 949 c.c.)

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riferimenti normativi: artt. 949; 1102 c.c.

precedenti giurisprudenziali: Cass., Sez. II, Sentenza n. 6190 del 03/05/2001

La vicenda

Una condomina praticava un’apertura nella ringhiera del balcone di sua proprietà, varco che le consentiva di scendere direttamente nel cortile comune. Gli altri condomini si rivolgevano al Tribunale, pretendendo, però, il ripristino dello stato dei luoghi. Il Tribunale prima e la Corte d’Appello dopo ordinavano alla condomina di chiudere il varco. In particolare, i giudici di secondo grado notavano che, anche se la condomina si era espressamente impegnata a saldare la ringhiera del proprio balcone, non risultava comunque prova che la convenuta avesse provveduto a tale saldatura in modo stabile e definitivo. In ogni caso, hanno anche affermato la sussistenza della legittimazione dell’amministratore ex art. 1130 c.c. all’azione “negatoria servitutis” esercitata; di conseguenza la soccombente ricorreva in cassazione rilevando il difetto di legittimazione attiva dell’amministratore, in quanto mancava un’apposita deliberazione autorizzativa dell’assemblea; inoltre sottolineava, tra l’altro, come avesse chiuso il varco nella ringhiera in epoca antecedente alla citazione introduttiva del giudizio, con conseguente perdita di interesse all’azione da parte degli altri condomini.

La questione

Il singolo condomino può aprire un varco nella ringhiera del balcone per accedere al cortile comune?

La soluzione

La Cassazione ha sostenuto che la modifica eseguita sulla ringhiera del balcone per accedere al cortile condominiale costituisce certamente un uso illegittimo della cosa comune; secondo i giudici supremi, quindi, nel caso esaminato l’interesse del condominio ad agire comunque per ottenere l’accertamento del dedotto abuso ex art. 1102 c.c. era indiscutibile.  Il difetto di interesse ad agire per l’accertamento dell’illegittimità dell’uso di una cosa comune si verifica solo quando prima o nel corso del processo sopravvenga una situazione che elimini ogni posizione di contrasto tra le parti, facendo venir meno la necessità della pronunzia del giudice; tale situazione – come giustamente hanno osservato i giudici supremi – non ricorre comunque qualora l’autore dell’opera, pur avendo rimosso l’opera abusiva, non accompagni a tale comportamento il riconoscimento, espresso o implicito, della fondatezza della domanda avversa.  

In ogni caso – ad avviso della Cassazione – la domanda azionata dall’amministratore di condominio in base al disposto dell’art. 1102 c.c., ed avente quale fine il ripristino dello “status quo ante” di una cosa comune illegittimamente alterata da un condomino, ha natura reale, in quanto si fonda sull’accertamento dei limiti del diritto di comproprietà su un bene.

Le riflessioni conclusive

Non vi è dubbio che ciascun condomino sia libero di servirsi della cosa comune, anche per fine esclusivamente proprio, traendo ogni possibile utilità, anche se nei limiti segnati dall’art. 1102 c.c.

Si può quindi affermare che se un condomino si serve di una parte comune per ricavarne maggiore vantaggio nel godimento di un’unità immobiliare già strutturalmente e funzionalmente collegata al bene comune, lo fa nell’esercizio del diritto di condominio, e non avvalendosi di una servitù. Di conseguenza, al contrario di quanto riferito nella sentenza della Corte di Appello, la domanda azionata dall’amministratore condominiale ex articolo 1102 c.c., avente quale fine quello di ripristinare i luoghi, non è una azione negatoria ex art. 949 c.c. A tale proposito si ricorda che la domanda diretta alla declaratoria di esistenza di una servitù di passaggio su fondo limitrofo al caseggiato introduce una controversia concernente l’estensione del diritto di ciascun condomino, che esula dalle attribuzioni conferite all’amministratore dall’art. 1130 c.c. e dalla sfera di rappresentanza attribuitagli dall’art. 1131 c.c. e richiede, pertanto, un mandato speciale rilasciato da ciascun condomino. Peraltro, poiché in tale giudizio l’amministratore non è litisconsorte necessario, non può essere disposta l’integrazione del contraddittorio nei confronti dei condomini (Cass. civ., sez. II, 05/06/2014, n. 12678). Sotto diverso profilo, però, si osserva che per le azioni negatorie e confessorie la legittimazione passiva dell’amministratore del condominio sussiste ove si discuta dell’esistenza e dell’estensione di servitù prediali costituite a favore o a carico dello stabile condominiale nel suo complesso o di una parte di esso; in tal caso  l’utilitas da esse procurate accede all’intero stabile e non ai singoli appartamenti individualmente considerati e vengono esercitate indistintamente da tutti i condomini nel loro comune interesse, integrando quindi un bene comune inerente alla sfera della rappresentanza processuale dell’amministratore ai sensi dell’art. 1131 c.c. (Cass. civ., sez. II, 28/02/2014, n. 4871).

L’actio confessoria servitutis, però, qualora sia rivolta non solo ad accertare l’esistenza e l’estensione di una servitù prediale a carico di uno stabile condominiale ma anche ad ottenere la rimozione delle opere condominiali dalle quali la servitù risulta impedita, non può essere esercitata nei confronti del solo amministratore, ma richiede la partecipazione al giudizio di tutti i condomini (Cass. civ., Sez. II, 25/02/1987, n. 2010).

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Consulente legale condominialista Giuseppe Bordolli

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