Il sistema delle libere e for profit università non statali

Massimo Greco 26/05/22
     Indice

  1. La società della conoscenza
  2. I modelli universitari
  3. Le libere università non statali
  4. Dallo stato alla società
  5. La natura giuridica

1. La società della conoscenza

E’ illusorio connotare questo mondo come “società della conoscenza”, senza rendere esplicito che le conoscenze sono una semplice parte del bagaglio necessario dal momento che, crescendo esponenzialmente la complessità che lo contraddistingue, cresce inevitabilmente l’area della “non conoscenza”. Se occorrerà, quindi, decisamente investire in conoscenza, oltre al bagaglio irrinunciabile costituito da conoscenze tradizionali (lingue, matematica, scienze, economia, educazione civica, ma anche storia, arte, geografia), sempre più occorrerà integrare la padronanza dei concetti afferenti a queste discipline con quelle che stanno emergendo come le competenze del XXI secolo: l’esercizio del pensiero critico e l’attitudine al problema solving, la creatività e la disponibilità positiva nei confronti dell’innovazione, la capacità di comunicare in modo efficace, l’apertura alla collaborazione e al lavoro di gruppo. E, parafrasando Enzo Rullani, “il crocevia della nuova modernità”, a cui l’università deve preparare, “sta principalmente nel riuscire a comunicare tre elementi: senso, legami e valori”. Serve, in definitiva, un pensiero articolato – “un pensiero pensante[1] -, in grado di leggere segnali, di stabilire rapporti non del tutto evidenti, di decrittare ciò che è essenziale rispetto a quello che può essere trascurato.

In un momento pandemico come quello che stiamo vivendo, in cui il tradizionale confronto istituzionale tra Stato, Regioni ed Enti locali è diventato sempre più occasione di “scontro” per definire i parametri di un equilibrato federalismo, l’individuazione di un sistema universitario, quale “motore della cultura” dei territori, è più che mai necessario e presupposto essenziale per consentire a quest’ultimo di esprimere tutta la sua potenzialità, consolidando il suo ruolo di istituzione autonoma, interprete di un rapporto paritario con gli altri atenei e interlocuzione di reciproca lealtà con i diversi livelli di governo della Repubblica. L’università deve infatti farsi carico della sua responsabilità e sviluppare la dimensione europea più di quanto non abbia fatto finora, esercitando pienamente una funzione fondamentale nel triangolo della conoscenza da istruzione, ricerca e innovazione. Come ha scritto già nel 2003 la Commissione Europea nel Rapporto sul ruolo delle università nell’Europa della conoscenza, “trovandosi al punto di incrocio della ricerca, dell’istruzione e dell’innovazione le università hanno in mano sotto diversi aspetti le chiavi dell’economia e della società della conoscenza”.

2. I modelli universitari

Il sistema universitario europeo contempla tradizionalmente due modelli organizzativi, quello napoleonico che considera l’università quale componente dell’apparato statale facente capo al relativo Ministero[2] e quello inglese[3] secondo cui l’università è, innanzitutto, una creazione della società civile. Vi è poi un modello intermedio, cosiddetto humboltdiano, in cui risulta presente una componente statale ed una più propriamente comunitaria.

Se nei sistemi accademici che seguono il modello napoleonico, basato su una stretta relazione con lo Stato e, allo stesso tempo, su un’autonomia professionale garantita dallo status di servizio pubblico, le università statali (fino all’autonomia riconosciuta con la riforma n. 168/89) hanno rappresentato sostanzialmente un braccio del Ministero dell’Università, scarsamente dotato di una propria capacità di darsi proprie linee strategiche, le libere università non statali[4] hanno invece offerto, tradizionalmente, un servizio complementare, non sostituivo né concorrenziale con quello dell’università statale, collaborando alla determinazione di un’offerta formativa più ampia e articolata. Ancora oggi, le università non statali, con le parole di Dalla Torre, “sono sempre più chiamate a contribuire al mantenimento ed all’arricchimento del pluralismo dei saperi e dell’approccio ai saperi, nel contesto di una realtà che, per i processi di globalizzazione, da nazionale diviene progressivamente continentale e planetaria”.

3. Le libere università non statali

Quindi, alle libere università, che nella maggior parte dei casi hanno una più stretta relazione con il mondo del lavoro di cui percepiscono e interpretano bisogni, dovrebbe spettare prevalentemente il compito di assicurare un’offerta formativa “diversa” per impostazione culturale e per modalità didattiche. Nella storia delle università non statali[5] è sempre riscontrabile una struttura associativa o fondazionale creata da qualche settore, gruppo, organizzazione della società civile o, in alcuni casi, istituzione della comunità locale come risposta ad alcuni bisogni, interessi, ideali o semplicemente per inseguire un futuro migliore. Questa caratteristica della loro genesi le connette strettamente con le prime università sorte in Italia e in Europa nel XIII sec. nate dal basso su iniziativa dei docenti e/o dei discenti. Sicchè l’università medioevale possedeva una forma associativa privata e come tale autonoma rispetto allo Stato. Esse erano quindi universitates studentium e universitates docentium e quindi una pluralità di universitates, di associazioni personali[6]. Questo aspetto è utile a contraddire uno stereotipo diffuso secondo il quale le università non statali rappresenterebbero solamente un’ingerenza nel sistema universitario o da parte del mercato, o di una qualche confessione religiosa o ideologica.

La complessità delle università non statali è riconducibili, a grandi linee, a tre tipologie:

  1. Le università nate sul territorio e per il territorio con la finalità di mantenere risorse e competenze preziose dove queste si generano e possibilmente di attrarne altre per rinvigorire il tessuto produttivo locale;
  2. Le università ispirate a principi religiosi o valoriali, nate per declinare l’ideale del fondatore in un progetto culturale ed educativo complesso;
  3. Le università che hanno nella loro storia sviluppato una vocazione nazionale o addirittura sovra nazionale, rispondono all’esigenza di creare competenze rispetto alla quantità e soprattutto alla qualità richiesta dalla società civile e dai settori produttivi.

Ovviamente, per la medesima complessità che le caratterizza, le libere università non statali tendono a confondersi vicendevolmente. Tre sono anche gli ingredienti utilizzati che rappresentano oggi gli indicatori di un modello di governance del sistema delle università non statali che, verosimilmente, contribuiscono sempre più al dibattito di più ampia portata sulla riforma incompiuta del sistema universitario in Italia: a) funzione pubblica; b) responsabilità territoriale; c) autonomia funzionale. In un contesto in cui la dicotomia tradizionale pubblico/privato ha perso la sua rilevanza[7], questi tre indicatori servono certamente a tracciare i contorni di un modello sempre più contemporaneo di università, basato sempre meno sui tradizionali schemi statale/non statale, pubblico/privato, e sempre più su schemi di “autonomia funzionale” e/o “di tendenza”[8]. Queste ultime contrassegnate da una spinta ideale ma non per questo meno attente a profili più prosaici.

Peraltro, “il parallelismo tra le due autonomie, quella funzionale e quella territoriale, con tutte le articolazioni che esse comportano, si pone nella concezione del principio di sussidiarietà, codificato in sede di riforma costituzionale, che costringe a ribaltare tutte le questioni fin qui poste andando alla radice della concezione stessa del potere pubblico, se esso sia fonte dell’autonomia – e quindi dei soggetti che come tali vengono in sede costituzionali riconosciuti – o se ne sia il supporto[9]. Basti pensare alle nuove fondazioni universitarie[10], di recente sperimentazione, per lo svolgimento delle attività strumentali e di supporto alla didattica e alla ricerca. Vere e proprie fondazioni di partecipazione di diritto privato[11] aperte ad enti, amministrazioni pubbliche e soggetti privati. Sintomatico il commento di autorevoli esponenti del mondo universitario secondo cui “E’ interessante notare che il processo di autonomia che si sviluppa nell’ultimo decennio risulta essere, in sostanza, un processo di avvicinamento del modello delle Università statali al modello delle Università di origine privata[12].


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4. Dallo Stato alla società

Più in generale, pare potersi affermare che l’istituzione universitaria stia tornando dallo Stato alla società, com’era alle origini. Qui si pone una questione di fondo che non appartiene solo alla semantica. Nel linguaggio comune la denominazione delle università che non nascono per volontà dello Stato è varia: università “private”, “libere”, “non statali”, “commerciali”, “telematiche”. Trattasi di denominazioni che – senza alcuna necessità di scomodare Santi Romano secondo cui “glissez mortels, nappuyez pas[13] – di volta in volta tendono a sottolineare differenti profili non sempre soddisfacenti. Se infatti la denominazione “privata” rende evidente la natura giuridica di ente di diritto privato dell’università perchè generato da soggetti privati, la denominazione “libera” trae un po’ in inganno, atteso che la “libertà”, se riferita alla ricerca e all’insegnamento, non può non appartenere anche alle università statali. Inoltre, la denominazione “non statale” non è sinonimo di “privata”, visto che l’iniziativa della istituzione universitaria ben può essere patrocinata da enti pubblici esponenziali del territorio come gli enti territoriali di governo. In questo caso l’università non è statale perchè non risulta istituita per volontà dello Stato, ma mantiene la natura giuridica di ente pubblico[14] perchè istituita (autonomamente o congiuntamente) da enti di diritto pubblico non statali.

E’ da ritenere che la distinzione tra l’una e l’altra categoria di università verrà ad esprimersi su terreni diversi da quello del dato storico riguardante le volontà originarie da cui i singoli atenei trassero vita. Ciò vale in particolare per le università non statali “di tendenza”[15], elemento tipico e caratterizzante che attiene non solo all’orientamento ideologico o religioso, ma anche al progetto culturale che ne ispira l’impegno nella ricerca e nella formazione. Comunque vengano denominate, le libere università non statali risultano inserite nel sistema nazionale di istruzione superiore, analogamente a quanto avviene per le scuole private paritarie[16]. Non è un caso che l’ultimo comma dell’art. 33 della Costituzione parli genericamente di università che hanno “il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato” senza distinguere tra statali e non statali.

E tuttavia le università statali e quelle non statali, pur esercitando la medesima funzione pubblica e pur essendo, sostanzialmente, regolate dalle medesime leggi e disposizioni, risultano sostenute da una “…diversa e non paritaria forma di finanziamento[17]. In questa direzione “l’assenza di oneri per lo Stato andrà valutata non in assoluto, ma al netto dei vantaggi e dei profitti che le università non statali forniscono all’intero Paese e, al contempo, l’autonomia delle università dovrà essere estesa e insieme temperata dalla supervisione dello Stato, garante della libertà, dell’indipendenza e dell’onestà intellettuale di tutti gli atenei[18]. L’assenza di adeguate e compiute normative in ordine alle università non statali[19], mentre pare preservare – formalmente – le medesime dall’ingerenza del potere statale, obbligandole solamente all’adeguamento dei rispettivi ordinamenti ai “principi generali della legislazione in materia universitaria” e comunque solo “in quanto compatibili”, finisce, però, per attrarle sempre più nell’orbita pubblicistica; generandosi il paradosso che mentre le università statali hanno nel tempo conquistato spazi di autonomia, le università non statali – sempre più stretti dai medesimi vincoli delle consorelle statali – l’hanno veduta progressivamente restringersi. Sintomatico di tale avvicinamento tra i due modelli è certamente anche il tentativo dell’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) – stoppato dalla giurisprudenza amministrativa[20] – di annoverare indistintamente tutte le libere università non statali tra gli enti pubblici da assoggettare alle disposizioni in materia di pubblicazione obbligatoria di cui al d.lgs n. 33/2013.

5. La natura giuridica

In questo scenario, la natura giuridica “camaleontica” delle libere università non statali, di cui ci siamo già occupati[21], sembra quella più adatta ai mutamenti richiesti, caratterizzandosi per una maggiore autonomia politica, amministrativa e finanziaria (che deriva in massima parte da fonti non statali). È proprio grazie alla pienezza della loro flessibilità, e alla conseguente possibilità di utilizzare tutti gli strumenti negoziali di diritto privato, che le libere università non statali hanno scalfito il monolitismo pubblicistico centralizzante. Così, all’interno del sistema universitario si ritrovano 19 libere università non statali e 11 università non statali telematiche che contribuiscono ad arricchire il panorama tradizionale, riflettendo la “pluralità di missioni” oggi attribuite a quelle tipologie di ateneo capaci di prescindere dalle competenze prettamente scientifiche, avuto riguardo alla “notevole caratterizzazione imprenditoriale e concorrenziale dell’attività svolta[22]. A tal riguardo, con riferimento alle università private, è stato “tra l’altro dubitato della natura non commerciale e industriale delle attività da esse svolte[23], sottolineando altresì per le stesse “…come anche le università pubbliche [oltre quelle private] sono tenute ormai a gestire il servizio con criteri di economicità, in base ai quali modulano perfino l’ampiezza e il contenuto dello stesso servizio (istituzione o soppressione di dipartimenti e corsi di laurea in relazione al piano finanziario e alle potenzialità del mercato dello studio, investimenti strutturali e calcolo del break even point etc.), per cui si può a ben ragione ritenere che il servizio dell’istruzione universitaria non sia per sé, ontologicamente, di natura non industriale o commerciale …[24].

Dunque, le libere università non statali non solo già indossano una veste giuridica che in virtù di questo particolare regime patrimoniale le rende più simili alle società che agli enti morali, ma nell’offerta dei servizi formativi operano secondo logiche di mercato. È evidente, quindi, che la forma soggettiva adottata non ha alcuna incidenza sul segmento di economia sociale di mercato costituito dall’attività di ricerca e di formazione superiore che, come accade già per i servizi di interesse generale erogati in altri settori (scuola, sanità e servizi pubblici locali), può essere occupato sia da soggetti pubblici che privati anche nella forma lucrativa.


Note:

[1] P. L.  Celli, “Studenti da aprire al mondo”, in Il Sole 24Ore, 05/05/2012.

[2]      Pur trovando origine nell’impostazione napoleonica tanto da coniarne la denominazione di “Università statali”, anche in Italia le Università si sono definitivamente sganciate da tale modello. Prima della riforma le Università statali – al pari degli altri istituti statali d’istruzione superiore – costituivano organi dello Stato muniti di personalità giuridica, essendo inseriti nell’organizzazione statale, come risultava sia dall’imputazione allo Stato di almeno una parte degli atti posti in essere da essi, sia dallo status del relativo personale, anche docente, appartenente ai ruoli degli impiegati dello Stato, sia dalla fonte del loro finanziamento posto a carico dello Stato, essendo del tutto accessori anche sotto l’aspetto quantitativo i proventi e i mezzi economici di natura diversa (Cass., Sez. I, sent. 12/01/1981 n. 256). Alle medesime Università degli Studi, dopo la riforma introdotta dalla L. n. 09/05/1989, n. 168 non può essere più riconosciuta la qualità di organi dello Stato, ma quella di enti pubblici autonomi (Cass. Sez. unite civ., sent. 10/05/2006 n. 10700; Cons. Stato, Sez. VI, sent. 28/12/2009 n. 8768).

[3] Per un quadro più aggiornato delle caratteristiche del modello inglese si veda “Higher education in the United Kigdom”, Country Report, center for Higher Education policy Studies, CHPS, 2007, www.utwente.nel/cheps.

[4] Le libere università non statali conseguono la personalità giuridica con DPR che ne approva lo statuto. L’art. 6 della legge n. 245/90 stabilisce che l’autorizzazione a rilasciare titoli di studio universitari aventi valore legale è conferita a istituzioni, promosse o gestite da enti e/o da privati, con decreto ministeriale, secondo le indicazioni contenute nel piano di sviluppo, previo parere delle commissioni parlamentari competenti per materia. A tale fine, le libere università non statali che hanno ottenuto l’autorizzazione ministeriale a rilasciare titoli aventi valore legale ex art. 6 della legge n. 245/90, secondo quanto disposto dalla legge n. 243/91 e operando nel rispetto dell’art. 33 della Costituzione, possono ricevere contributi pubblici.

[5] Ad oggi in Italia sono presenti 66 università statali, 18 università non statali (di cui 14 associate alla CRUI) e 11 telematiche.

[6] A. Rigobello, “L’orizzonte tematico e il suo sviluppo storico”, in Rigobello et al., “L’Unità del sapere”, Città Nuova, Roma 1977.

[7] C. Brooks, “Istruzione senza confini”, Il Sole 24Ore – Idee nòva – 12/05/2011.

[8] La c.d. “tendenza” è un elemento peculiare e caratterizzante le università non statali (libere o private), che attiene non solo all’orientamento ideologico o religioso, ma anche al progetto culturale che ne ispira la mission.

[9] L. Violini, “Università e Regioni in dialogo sull’attuazione della Legge n. 240 del 2010”, in Federalismi.it, 04/05/2011.

[10] Le fondazioni strumentali universitarie sono state introdotte nell’ordinamento attraverso l’art. 59, comma 3, della legge n. 388/2000 e dal successivo DPR 24/05/2001, n. 254.

[11] Sulle fondazioni di partecipazione si consenta il rinvio a M. Greco  “La moda delle fondazioni di partecipazione”, in Centro di studio del diritto romano e italiano presso Università della Cina di scienze politiche e giurisprudenza, pubblicato sul web all’indirizzo http://www.csdri.org/italiano/index.asp;

[12] G. Dalla Torre, “Le Università di tendenza per l’Europa”, Relazione al Convegno Internazionale di Studi promosso dall’Università cattolica del S. Cuore, 3-5/09/2004, Milano.

[13] Santi Romano, “Frammenti di un dizionario giuridico”, rist., Milano, 1983.

[14] Sulla natura giuridica delle libere università non statali e sull’individuazione degli indicatori sintomatici per indagarle si veda TAR Lazio, Roma, sent. n. 8375/2015.

[15] Le università di tendenza sono in prevalenza università cattoliche.

[16] Le scuole paritarie sono infatti collocate dalla legge n. 62/2000 nel sistema integrato dell’istruzione.

[17] G. Puglisi, “Il finanziamento degli atenei non statali”, in Universitas, n. 106, dicembre 2007.

[18] G. Puglisi, “Libera università in libero Stato?”, in Universitas, n. 116, giugno 2010.

[19] La legge n. 243 del 29/07/1991, recante “Disposizioni sulle università non statali” appare decisamente parziale e carente.

[20] Il Tar Lazio, con sentenza n. 8374/2015 ha annullato la deliberazione dell’ANAC n. 144/2014 nell’interesse delle ricorrenti libere università non statali (LUISS, LUMSA, IULM di Milano, l’Università Campus Bio-Medico di Roma, Università Carlo Cattaneo – LIUC, Università degli Studi di scienze gastronomiche–UNISG, Università Vita–Salute San Raffaele di Milano) che, da una mirata indagine degli indicatori sintomatici della rispettiva natura giuridica risultavano sottratte alla sfera pubblicistica. La decisione del Tar Lazio è stata poi confermata, ancorchè con motivazioni diverse, dal Consiglio di Stato con sent. n. 3043/2016.

[21]    Si consenta il rinvio a Massimo Greco, “Libere università non statali: “camaleonti giuridici”, in La Voce.info, 20/08/2021.

[22] Cons. Stato, parere n. 2427/2018

[23] Cons. Stato parere n. 1433/2019

[24] Cons. Stato parere n. 1433/2019, cit. che richiama sul punto Cons. Stato, parere, n. 2427/2018 cit.

Massimo Greco

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