Il sistema delineato dalla normativa muta la concezione degli interventi rispetto a quanto avveniva in passato, passando da una nozione di assistenza, intesa come luogo di bisogni, ad una accezione di protezione sociale attiva, intesa come luogo di esercizio della cittadinanza. Attraverso i piani di zona e la programmazione partecipata viene costruita la comunità locale, favorendo gli interventi e i modelli organizzativi che promuovono e incoraggiano la libertà e le iniziative di auto mutuo aiuto.
Cenni storici di riparto delle funzioni di gestione dei servizi sociali
Il D.P.R. 616 del 1977 realizzò il decentramento delle funzioni amministrative e in particolare attribuì ai Comuni, delle funzioni di organizzazione dei servizi sociali. Ulteriori innovazioni vennero introdotte negli anni 90 e in particolare con la prima legge Bassanini (L. n. 59 del 1997) che introdusse il principio di sussidiarietà in base al quale le decisioni vengono prese dall’organo di governo più vicino ai cittadini e cioè da quello che è maggiormente in grado di interpretare i bisogni e le risorse della comunità territoriale di riferimento.
Il principio di sussidiarietà verticale è un criterio di riparto delle competenze degli enti di diverso livello territoriale, in cui la cura dell’interesse del cittadino è affidato all’ente più vicino e l’intervento dell’ente di livello più alto si giustifica laddove l’azione del primo risultasse inadeguata (il c.d. ascensore). Da tale declinazione del principio di sussidiarietà va distinta la sussidiarietà orizzontale, valorizzata dall’art. 118, quarto comma, della Costituzione la quale regola il rapporto tra iniziativa privata ed intervento pubblico. Tale disposizione ha esplicitato nel testo costituzionale le implicazioni di sistema derivanti dal riconoscimento della «profonda socialità» che connota la persona umana (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 228 del 2004) e della sua possibilità di realizzare una «azione positiva e responsabile» (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 75 del 1992).
Tale principio ha portato allo sviluppo di modelli organizzativo- istituzionali che attribuiscono ai Comuni la titolarità delle funzioni amministrative riguardanti i servizi sociali e che valorizzano la collaborazione tra pubblico e privato. Questo quadro di ridefinizione del rapporto Stato-Regioni- Enti locali è stato completato attraverso l’introduzione della L. 328 del 2000 e dalla Riforma del Titolo V della Costituzione (L. 3 del 2001).
La Legge 328/2000
La legge 328 del 2000 Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali ha ridefinito il profilo delle politiche sociali apportando una serie di elementi di novità.
Prima di tale normativa la Legge Crispi del 1890 aveva costituito la norma organica di riferimento per l’assistenza sociale. In seguito numerosi sono stati i cambiamenti e le riforme, ma solo con la legge del 2000 si è giunti alla creazione di un quadro normativo unitario. Essa ha innanzitutto segnato il passaggio dalla concezione di utente quale portatore di un bisogno specialistico a quella di persona nella sua totalità; quindi il passaggio da una accezione tradizionale di assistenza, come luogo di realizzazione di interventi meramente riparativi del disagio, ad una di protezione sociale attiva, luogo di rimozione delle cause di disagio ma soprattutto luogo di prevenzione e promozione dell’inserimento della persona nella società attraverso la valorizzazione delle sue capacità.
Il coinvolgimento degli enti del Terzo settore
Il D.lgs. 3 luglio 2017, n.117 (c.d. Codice del Terzo settore) prevede che le amministrazioni pubbliche, nell’esercizio delle proprie funzioni di programmazione e organizzazione a livello territoriale degli interventi e dei servizi nei settori di attività degli enti del terzo settore ne assicurano il coinvolgimento attivo attraverso forme di co-programmazione e co-progettazione e accreditamento, poste in essere nel rispetto dei principi della legge 7 agosto 1990, n. 241, nonché delle norme che disciplinano specifici procedimenti ed in particolare di quelle relative alla programmazione sociale di zona.
L’art. 55 del Codice del Terzo settore pone in capo ai soggetti pubblici il compito di assicurare il coinvolgimento attivo degli enti del Terzo settore nella programmazione, nella progettazione e nell’organizzazione degli interventi e dei servizi, nei settori di attività di interesse generale definiti dall’art. 5 del medesimo Codice.
Il modello configurato dall’art. 55 del Codice del Terzo settore si basa sulla convergenza di obiettivi e sull’aggregazione di risorse pubbliche e private per la programmazione e la progettazione, in comune, di servizi e interventi diretti a elevare i livelli di cittadinanza attiva, di coesione e protezione sociale ed esclude il carattere dell’economicità, ovvero la corresponsione di prezzi e corrispettivi dalla parte pubblica a quella privata. Questo modello di condivisione della funzione pubblica prefigurato dall’art. 55 è riservato in via esclusiva agli enti che rientrano nel perimetro definito dal Codice, secondo il quale costituiscono il Terzo settore gli enti che rientrano in specifiche forme organizzative tipizzate e gli altri enti “atipici” che perseguono, senza scopo di lucro, […] finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale mediante lo svolgimento, in via esclusiva o principale, di una o più attività di interesse generale in forma di azione volontaria o di erogazione gratuita di denaro, beni o servizi, o di mutualità o di produzione o scambio di beni o servizi, e che risultano «iscritti nel registro unico nazionale del Terzo settore.
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A cura di Alessandro Boscati | 2021 Maggioli Editore
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