Illegittimità costituzionale dell’art. 103, comma 3, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309

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(Dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 103, comma 3, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), nella parte in cui non prevede che anche le perquisizioni personali e domiciliari autorizzate per telefono debbano essere convalidate)

(Riferimento normativo: d.P.R., 9/10/1990, n. 309, art. 103, c. 3)

Il fatto e le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione

Con sei ordinanze, di tenore per larga parte analogo, il Tribunale ordinario di Lecce, in composizione monocratica, sollevava, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 14, 24, 97, terzo (recte: secondo) comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, innanzitutto questioni di legittimità costituzionale dell’art. 191 del codice di procedura penale, nella parte in cui – secondo l’interpretazione predominante nella giurisprudenza di legittimità, qualificabile come diritto vivente – non prevede che la sanzione dell’inutilizzabilità delle prove acquisite in violazione di un divieto di legge riguardi anche gli esiti probatori – compreso il sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato – degli atti di perquisizione e ispezione domiciliare e personale compiuti dalla polizia giudiziaria fuori dai casi tassativamente previsti dalla legge, ovvero (secondo le sole ordinanze iscritte ai numeri 17, 18, 20, 21 e 22 del r.o. 2020) non convalidati, comunque sia, dal pubblico ministero con provvedimento motivato.

In particolare, in alcune delle ordinanze, il rimettente lamentava in modo specifico che l’inutilizzabilità non colpisce anche le perquisizioni e le ispezioni operate dalla polizia giudiziaria sulla base di elementi non utilizzabili, quali le fonti confidenziali (r.o. n. 19 del 2020), o in assenza della flagranza di reato (r.o. n. 20 del 2020); ovvero autorizzate verbalmente dal pubblico ministero senza che ne risultino le ragioni (r.o. n. 20 del 2020); ovvero effettuate ai sensi dell’art. 103 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) (inde: «t.u. stupefacenti»), senza aver chiesto – come ivi prescritto – l’autorizzazione del pubblico ministero e senza che consti l’impossibilità di farlo (r.o. n. 21 del 2020); ovvero, ancora, che l’inutilizzabilità non riguardi anche la deposizione testimoniale sulle attività prese in considerazione (ordinanze iscritte ai numeri 17, 18 e 19 del r.o. 2020).

Una sola di queste ordinanze, sollevava, inoltre, in riferimento agli artt. 13, 14 e 117, primo comma, Cost. – quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU –, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 103 t.u. stupefacenti, «nella parte in cui prevede che il [pubblico ministero] possa consentire l’esecuzione di perquisizioni in forza di autorizzazione orale senza necessità di una successiva documentazione formale delle ragioni per cui l’ha rilasciata».

Ad ogni modo, secondo quanto emergeva dalle ordinanze di rimessione, il giudice a quo era investito, in sede dibattimentale, di processi per reati in materia di stupefacenti ovvero per reati contro il patrimonio.

 

In ciascuno dei casi, la prova esclusiva o principale dei fatti era costituita dal sequestro del corpo del reato – secondo i casi, sostanze stupefacenti, piante di cannabis ovvero beni di provenienza furtiva – rinvenuti presso l’abitazione degli imputati a seguito di perquisizioni eseguite dalla polizia giudiziaria e, dai relativi verbali, si desumeva come le perquisizioni fossero state effettuate sulla base di notizie fornite da fonti o acquisite tramite una non meglio specificata «attività infoinvestigativa» ovvero ancora sulla base di una segnalazione della persona offesa, in assenza di una situazione di flagranza di reato.

Orbene, ad avviso del rimettente, tali perquisizioni avrebbero dovuto ritenersi abusive in quanto compiute fuori dai casi tassativamente indicati dalla legge.

Riproponendo le considerazioni già svolte in due precedenti ordinanze di rimessione, il giudice salentino rilevava che l’art. 13 Cost. (richiamato, quanto a garanzie e forme ivi previste, dall’art. 14 Cost. con riguardo a ispezioni, perquisizioni e sequestri domiciliari) prevede che ogni forma di limitazione della libertà personale – compresa quella insita nelle ispezioni e nelle perquisizioni personali – possa essere disposta solo con «atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge» e a tale principio può derogarsi unicamente «in casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge», nei quali l’autorità di pubblica sicurezza può adottare «provvedimenti provvisori» soggetti a convalida da parte dell’autorità giudiziaria, in difetto della quale essi «si intendono revocati e restano privi di ogni effetto».

L’ipotesi principale che, in base alla legge ordinaria, legittima l’intervento eccezionale delle forze di polizia, è quella della flagranza di reato (artt. 352 e 354 cod. proc. pen.) ma norme speciali hanno ampliato i casi nei quali la polizia giudiziaria può procedere a ispezioni e perquisizioni.

Nel dettaglio, osservava il giudice a quo, una delle fattispecie più ricorrenti nella pratica – e rilevante in una parte dei giudizi a quibus – è quella contemplata dall’art. 103 t.u. stupefacenti i cui commi 2 e 3 abilitano la polizia giudiziaria a procedere – nel corso di operazioni finalizzate alla prevenzione e alla repressione del traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope – rispettivamente, all’ispezione dei mezzi di trasporto, dei bagagli e degli effetti personali, e a perquisizioni, allorché vi sia «fondato motivo» di ritenere che possano essere rinvenute tali sostanze e ricorrano, altresì – nel caso delle perquisizioni – «motivi di particolare necessità ed urgenza che non consentano di richiedere l’autorizzazione telefonica del magistrato competente» fermo restando che delle operazioni deve essere data notizia, entro quarantotto ore, al procuratore della Repubblica il quale a sua volta le convalida nelle quarantotto ore successive sempre che ne sussistano i presupposti.

Ebbene, a parere del giudice a quo, una interpretazione delle disposizioni ora richiamate rispettosa del dettato costituzionale imporrebbe di ritenere che il presupposto che legittima l’intervento della polizia giudiziaria, anche fuori dai casi di flagranza nel reato, debba possedere un «requisito minimo di comprovabilità e verificabilità» in quanto, diversamente opinando, si attribuirebbe alla polizia giudiziaria il potere di ledere «ad libitum» la libertà personale e domiciliare dell’individuo, vanificando il senso del controllo dell’autorità giudiziaria sul suo operato.

Di conseguenza, secondo il giudice rimettente, il fondato sospetto di detenzione dello stupefacente non potrebbe essere basato su informazioni anonime o confidenziali le quali non sono in alcun modo verificabili dal giudice e delle quali è proprio per questo prevista, in via generale, l’inutilizzabilità (artt. 195, comma 7, 203, comma 1, e 240 cod. proc. pen.) e ciò renderebbe illegittime le perquisizioni domiciliari di cui si discute nei giudizi a quibus dal momento che, all’atto della perquisizione, non emergeva una situazione di flagranza del reato ma nemmeno sussisteva – quanto alle perquisizioni operate ai sensi dell’art. 103 t.u. stupefacenti – un «fondato motivo» per ritenere che potessero essere rinvenute sostanze stupefacenti: di là, infatti, dal riferimento a inutilizzabili fonti confidenziali, o a una imprecisata «attività infoinvestigativa», i verbali di perquisizione non indicavano quali elementi avessero potuto far presumere la presenza di droga nell’abitazione dell’imputato rilevandosi al contempo come le perquisizioni fossero destinate, d’altro canto, a rimanere prive di ogni effetto in ragione dell’assenza di un valido provvedimento, antecedente o successivo, dell’autorità giudiziaria posto che, in un caso, la perquisizione non era stata né autorizzata preventivamente, né convalidata successivamente dal pubblico ministero mentre, in altri casi, era stata bensì convalidata ma con provvedimento totalmente privo di e, in un altro caso ancora, era stata autorizzata oralmente e indi convalidata ma sempre senza motivazione (ordinanza r.o. n. 20 del 2020) mentre, in un ultimo caso, era stata solo autorizzata oralmente, di nuovo però senza che ne constassero le ragioni.

Ciò posto, con particolare riguardo ai casi di avvenuta convalida, il rimettente rilevava come, pur in assenza di una esplicita previsione in tal senso nell’art. 13 Cost., sia giocoforza ritenere che la convalida debba essere effettuata mediante provvedimento motivato rimanendo altrimenti frustrata la ratio della garanzia apprestata dalla norma costituzionale fermo restando che non avrebbe senso, d’altronde, che quest’ultima richieda l’«atto motivato» quando l’autorità giudiziaria, titolare in via ordinaria del potere, incida di sua iniziativa sulla libertà personale e non pure nell’ipotesi – più delicata – in cui sia chiamata a verificare se la polizia giudiziaria abbia agito fuori dai casi eccezionali nei quali la legge le consente di intervenire.

Di conseguenza, secondo il giudice a quo, nei casi oggetto dei giudizi principali, il provvedimento del pubblico ministero, proprio perché immotivato, non eviterebbe la perdita di efficacia degli atti di polizia, stabilita dall’art. 13 Cost. nell’ipotesi di mancata convalida da parte dell’autorità giudiziaria nel termine stabilito.

Detto questo, il giudice rimettente assumeva altresì che, al lume della previsione dello stesso art. 13 Cost., gli atti di ispezione e perquisizione eseguiti abusivamente dalla polizia giudiziaria, o non convalidati dall’autorità giudiziaria con atto motivato, dovrebbero rimanere privi di effetto anche sul piano probatorio atteso che l’unica efficacia perdurante nel tempo di tali atti è quella relativa alla loro «capacità probatoria»: di modo che la perdita di efficacia non potrebbe che equivalere, per essi, a quella che, nell’art. 191 cod. proc. pen., è qualificata come inutilizzabilità delle prove assunte in violazione di un divieto di legge.

Tale esito interpretativo risulterebbe per il giudice salentino, tuttavia, contraddetto dall’indirizzo della giurisprudenza di legittimità divenuto «assolutamente dominante» a partire dalla sentenza della Corte di cassazione, sezioni unite penali, 27 marzo-6 maggio 1996, n. 5021 dato che le sezioni unite hanno ritenuto valido il sequestro conseguente a una perquisizione eseguita fuori dai casi e dai modi previsti dalla legge allorché abbia ad oggetto il corpo del reato o cose pertinenti al reato posto che, in tal caso, il sequestro costituisce un atto dovuto ai sensi dell’art. 253, comma 1, cod. proc. pen. che non potrebbe essere omesso dalla polizia giudiziaria solo a causa dell’abuso compiuto così come correlativamente gli agenti di polizia giudiziaria potrebbero anche testimoniare sugli esiti della perquisizione.

A fronte di ciò, il giudice a quo dubitava, tuttavia, che l’art. 191 cod. proc. pen., nella lettura offertane dal diritto vivente, possa ritenersi compatibile con il dettato costituzionale visto che l’interpretazione censurata si porrebbe in contrasto con gli artt. 13 e 14 Cost. negando concreta attuazione alla previsione della perdita di efficacia delle perquisizioni e delle ispezioni nonché dei sequestri ad esse conseguenti, ove eseguiti in violazione dei divieti.

La disciplina stabilita dall’art. 191 cod. proc. pen. mirerebbe, in effetti, per il giudice a quo, ad offrire una efficace tutela ai diritti costituzionalmente garantiti disincentivando le loro violazioni finalizzate all’acquisizione della prova col prevedere l’inutilizzabilità dei relativi risultati mentre, ammettendo una “sanatoriaex post di tali violazioni, legata agli esiti della perquisizione o dell’ispezione, si verrebbe, per converso, a negare la tutela del cittadino in confronto agli abusi della polizia giudiziaria.

L’interpretazione denunciata violerebbe anche l’art. 3 Cost. escludendo l’inutilizzabilità in casi del tutto omologhi ad altri per i quali la legge espressamente la prevede, o la giurisprudenza, comunque sia, la riconosce quali, ad esempio, quelli delle intercettazioni e delle acquisizioni di tabulati del traffico telefonico eseguite dalla polizia giudiziaria in assenza di provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria così come essa darebbe luogo, altresì, al paradosso di un sistema giuridico che vede inefficaci ab origine le leggi incostituzionali, ma «efficacissimi», anche sotto il profilo probatorio, gli atti di polizia giudiziaria compiuti in violazione dei diritti costituzionali del cittadino.

La soluzione ermeneutica censurata lederebbe per l’autorità giudiziaria rimettente anche l’art. 2 Cost. facendo sì che vengano a mancare effettive garanzie contro le illecite compromissioni dei diritti inviolabili dell’uomo come pure l’art. 97, secondo comma, Cost., che sottopone in via generale l’azione dei pubblici poteri al principio di legalità rendendo prevalente l’azione illegale degli organi statali, finalizzata alla repressione dei reati, rispetto ai diritti costituzionali dei consociati: con ulteriore violazione dell’art. 3 Cost. posto che, in un ordinamento che prevede come centrali i diritti inviolabili della persona, questi dovrebbero porsi quantomeno sullo stesso piano dei diritti della collettività e dello Stato.

Un conclusivo profilo di violazione dell’art. 3 Cost. veniva ravvisato nel fatto che l’interpretazione censurata si trova irrazionalmente a convivere con quella che riconosce l’inutilizzabilità di prove vietate dalla legge solo perché non verificabili (come nel caso degli scritti anonimi e delle fonti confidenziali) considerandosi al riguardo come l’«insondabilità» degli elementi che avevano spinto la polizia giudiziaria a eseguire la perquisizione non consenta di escludere la possibilità che siano stati proprio i terzi latori della notizia confidenziale o anonima – se non, addirittura, come talora pure è avvenuto, le stesse forze di polizia – a introdurre nell’abitazione dell’imputato la res illicita, con conseguente violazione anche dell’art. 24 Cost., per compromissione del diritto di difesa.

Sempre secondo il giudice di Lecce, la lettura della norma denunciata offerta dal diritto vivente si sarebbe posta in contrasto, infine, con l’art. 8 CEDU e, quindi, con l’art. 117, primo comma, Cost., risolvendosi nella mancata adozione di efficaci disincentivi agli abusi delle forze di polizia che implichino indebite interferenze nella vita privata della persona o nel suo domicilio: abusi contro i quali – secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo – il diritto interno deve, per converso, offrire garanzie adeguate e sufficienti.

La dedotta illegittimità costituzionale avrebbe, tra l’altro, come necessaria conseguenza, anche il divieto di testimonianza degli operatori di polizia giudiziaria in ordine al risultato delle attività di ispezione, perquisizione e sequestro indebitamente eseguite: divieto che discenderebbe logicamente dalla perdita di ogni efficacia di tali attività.

Oltre a ciò, con una sola delle ordinanze succitate, il rimettente dubitava, altresì, della legittimità costituzionale dell’art. 103 t.u. stupefacenti, «nella parte in cui prevede che il [pubblico ministero] possa consentire l’esecuzione di perquisizioni in forza di autorizzazione orale senza necessità di una successiva documentazione formale delle ragioni per cui l’ha rilasciata».

Nel caso di specie – secondo quanto si legge nell’ordinanza di rimessione – la polizia giudiziaria, sulla base di informazioni confidenziali, aveva effettuato una perquisizione presso l’abitazione dell’imputato, che aveva portato al rinvenimento e al conseguente sequestro di piante di cannabis.

La perquisizione era stata autorizzata dal pubblico ministero per telefono e, poiché l’art. 103 t.u. stupefacenti in tal caso non lo prevede, il pubblico ministero non aveva emesso alcun provvedimento di convalida della perquisizione limitandosi a convalidare solo il conseguente sequestro.

Sulla scorta delle considerazioni già svolte, il rimettente reputava che la norma censurata violasse, in parte qua, gli artt. 13, 14 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU, non consentendo una simile autorizzazione un controllo effettivo sulla sussistenza delle condizioni che legittimano la perquisizione.

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Le argomentazioni sostenute dalle parti

Nei giudizi relativi a cinque delle ordinanze summenzionate, interveniva il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o infondate.

In particolare, con riguardo alle prime quattro ordinanze di rimessione ora indicate, la difesa dell’interveniente eccepiva l’inammissibilità delle questioni per carente descrizione della fattispecie concreta essendosi a suo avviso il rimettente limitato a un sintetico riepilogo dei fatti senza specificare il titolo di reato per cui si procede; in tutte le ordinanze, inoltre, il giudice a quo non avrebbe specificato in modo chiaro e univoco da quale vizio, fra i plurimi ipotizzati, sarebbe derivata l’illegittimità della perquisizione impedendo così di verificare se ci si trovasse a fronte di ipotesi di inutilizzabilità o a vizi di natura diversa.

In ogni caso, secondo l’Avvocatura generale dello Stato, i vizi indicati dal rimettente non sarebbero stati riconducibili al disposto dell’art. 191 cod. proc. pen. che ha riguardo alle sole «prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge» e non anche alle prove assunte senza il completo rispetto delle norme che le disciplinano trattandosi, in sostanza, di semplici vizi di motivazione i quali potrebbero determinare solo la nullità dell’atto, perdendo, in ogni caso, rilievo una volta che questo sia stato convalidato dall’autorità giudiziaria.

Lo stesso vizio di motivazione, legato al fatto che la perquisizione sia basata su informazioni confidenziali, risulterebbe per l’interveniente insussistente giacché – come più volte affermato dalla Corte di cassazione – l’art. 203 cod. proc. pen. non precluderebbe l’utilizzazione delle fonti confidenziali come spunto investigativo per attivare strumenti di ricerca della prova e, in particolare, perquisizioni volte al reperimento di sostanze stupefacenti.

Ciò posto, con particolare riguardo ad una di queste ordinanze – emessa nell’ambito di un processo nel quale il giudice a quo era chiamato a convalidare l’arresto dell’imputato, preliminarmente alla celebrazione del giudizio direttissimo – l’Avvocatura generale dello Stato assumeva, ancora, che il problema dell’utilizzabilità o meno del sequestro del corpo del reato (droga) sarebbe rimasto del tutto irrilevante non dovendo il giudice stabilire se l’imputato sia colpevole ma solo se, in base a quanto riferitogli dalla polizia giudiziaria, vi fosse una situazione di flagranza: situazione insita nella detenzione stessa dello stupefacente.

L’Avvocatura dello Stato ricordava, per altro verso, come la Consulta abbia già ritenuto inammissibili analoghe questioni di legittimità costituzionale dell’art. 191 cod. proc. pen. (citandosi l’ordinanza n. 332 del 2001) e, più di recente, abbia rilevato come la soluzione prospettata dal giudice a quo finisca per trasferire nella disciplina della inutilizzabilità un concetto di vizio derivato che il sistema regola esclusivamente in relazione alla figura – ben distinta – delle nullità: operazione che implica l’esercizio di opzioni che l’ordinamento riserva esclusivamente al legislatore (veniva citata la sentenza n. 219 del 2019 relativa a questioni sostanzialmente sovrapponibili alle odierne).

Premesso ciò, nel merito le questioni sarebbero state – secondo l’Avvocatura – in ogni caso infondate.

Almeno per le cose il cui sequestro è obbligatorio e, in particolare, per le cose il cui possesso integra un reato (come gli stupefacenti), l’illegittimità della perquisizione non potrebbe travolgere anche l’apprensione del bene in quanto l’omessa apprensione determinerebbe una condizione di flagrante commissione di un reato in capo al soggetto mantenuto nel possesso della cosa.

Proprio queste sarebbero le ragioni, del tutto condivisibili, che sorreggono il diritto vivente la cui legittimità costituzionale era contestata dal giudice a quo.

Il Presidente del Consiglio dei ministri, inoltre, riprendeva e sviluppava tali argomenti con successive memorie insistendo nelle conclusioni già formulate.

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Consulta

Riguardo alle questioni aventi ad oggetto l’art. 191 cod. proc. pen., veniva rilevato come la Consulta, con la sentenza n. 219 del 2019 – successiva alle ordinanze di rimessione – si fosse già pronunciata su questioni sostanzialmente sovrapponibili alle odierne sollevate dal medesimo giudice in veste di Giudice dell’udienza preliminare dello stesso Tribunale di Lecce.

Nell’occasione, si era rilevato come con la disposizione censurata – secondo la quale «[l]e prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate» – il legislatore aveva inteso introdurre «un meccanismo preclusivo che direttamente attingesse, dissolvendola, la stessa “idoneità” probatoria di atti vietati dalla legge» distinguendo nettamente tale fenomeno dai profili di inefficacia conseguenti alla violazione di una regola sancita a pena di nullità dell’atto.

Anche tale vizio resta, peraltro, soggetto – come le nullità – ai paradigmi della tassatività e della legalità ed essendo il diritto alla prova un connotato essenziale del processo penale in quanto componente del giusto processo, per il Giudice delle leggi, è solo la legge a stabilire – con norme di stretta interpretazione, in ragione della loro natura eccezionale – quali siano e come si atteggino i divieti probatori «in funzione di scelte di “politica processuale” che soltanto il legislatore è abilitato, nei limiti della ragionevolezza, ad esercitare».

Di qui l’impossibilità – ripetutamente riconosciuta dalla giurisprudenza di legittimità – di riferire all’inutilizzabilità il regime del “vizio derivato”, che l’art. 185, comma 1, cod. proc. pen. contempla solo nel campo delle nullità (stabilendo, in specie, che «[l]a nullità di un atto rende invalidi gli atti consecutivi che dipendono da quello dichiarato nullo»).

In tale cornice, il petitum del rimettente si traduceva, quindi, per la Consulta, nella richiesta di una pronuncia «fortemente “manipolativa”» volta a rendere automaticamente inutilizzabili gli atti di sequestro «attraverso il “trasferimento” su di essi dei “vizi” che affliggerebbero gli atti di perquisizione personale e domiciliare dai quali i sequestri sono scaturiti in ragione di una ritenuta non congruità» – in particolare, rispetto ai presupposti enunciati dall’art. 103 t.u. stupefacenti – «dell’apparato di motivazioni esibito dalla polizia giudiziaria a corredo degli atti in questione, ancorché convalidati da parte del pubblico ministero».

Ciò rendeva, per i giudici di legittimità costituzionale, le questioni inammissibili vertendosi in materia caratterizzata da ampia discrezionalità del legislatore (quale quella processuale) e discutendosi, per giunta, di una disciplina di natura eccezionale (quale appunto quella relativa ai divieti probatori e alle clausole di inutilizzabilità processuale).

Lo stesso assunto del giudice a quo – evocativo della cosiddetta teoria dei “frutti dell’albero avvelenato” – secondo il quale la soluzione proposta sarebbe stata necessaria al fine di disincentivare le pratiche di acquisizione delle prove con modalità lesive dei diritti fondamentali (rendendole “non paganti”), rivelava come le questioni coinvolgessero scelte di politica processuale riservate al legislatore fermo restando che l’obiettivo di disincentivare possibili abusi risultava, peraltro, perseguito dall’ordinamento vigente tramite la persecuzione diretta, in sede disciplinare o, se del caso, anche penale, della condotta “abusiva” della polizia giudiziaria come del resto ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità.

La conclusione valeva per la Corte a fortiori in rapporto alla richiesta “collaterale” del rimettente di introdurre, ex novo, uno specifico divieto probatorio, sancendo l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dalla polizia giudiziaria in ordine alle attività compiute: «preclusione, quest’ultima, che si colloca in posizione del tutto eccentrica rispetto al tema costituzionale coinvolto dagli artt. 13 e 14 Cost.».

Ciò posto, le medesime considerazioni valevano per la Corte costituzionale evidentemente anche in rapporto alle questioni sollevate dalle ordinanze di rimessione summenzionate il cui impianto argomentativo ricalcava ampiamente quello delle ordinanze già scrutinate.

Le parziali variazioni del petitum, operate da quattro delle ordinanze in correlazione alle peculiarità delle vicende oggetto dei giudizi a quibus, non mutavano quindi, nella sostanza, i termini del problema, traducendosi in mere specificazioni ulteriori del genus delle perquisizioni illegittime, secondo la visione del rimettente.

Le questioni concernenti l’art. 191 cod. proc. pen. venivano dichiarate, di conseguenza, manifestamente inammissibili e le ulteriori eccezioni di inammissibilità formulate dall’Avvocatura generale dello Stato calibrate esclusivamente su tali questioni restavano assorbite.

Detto questo, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 103 t.u. stupefacenti, sollevate da una sola di queste ordinanze, erano invece reputate fondate in riferimento agli artt. 13 e 14 Cost. nei seguenti termini.

Si faceva a tal proposito prima di tutto presente che la disposizione censurata si colloca nel novero delle numerose norme speciali che attribuiscono alla polizia giudiziaria il potere di compiere perquisizioni e ispezioni d’iniziativa in casi diversi e ulteriori rispetto a quelli disciplinati dagli artt. 352 e 354 cod. proc. pen..

In particolare, quanto alle perquisizioni, l’intervento della polizia giudiziaria viene svincolato dai presupposti dell’esistenza di una situazione di flagranza di reato, apprezzabile ex ante, ovvero di evasione, previsti in via generale dall’art. 352 cod. proc. pen..

Le operazioni contemplate dalle norme speciali possono avere carattere preventivo ovvero repressivo.

Le une, anche se compiute da appartenenti alla polizia giudiziaria, prescindono dall’acquisizione di una notizia di reato e quindi rientrano nell’attività della polizia di sicurezza; le altre presuppongono invece la commissione di un reato e si riconducono all’attività autonoma della polizia giudiziaria fermo restando che il comun denominatore di tali perquisizioni e ispezioni “speciali” è l’intento legislativo di apprestare strumenti di contrasto di determinate forme di criminalità maggiormente incisivi di quelli prefigurati in via ordinaria dal codice di procedura penale attraverso l’attribuzione alla polizia giudiziaria di poteri più ampi rispetto a quelli codificati quale è appunto il caso dell’art. 103 t.u. stupefacenti con il quale il legislatore ha potenziato l’operatività della polizia giudiziaria onde realizzare una più efficace attività tanto di prevenzione quanto di repressione dei traffici illeciti di stupefacenti prevedendo una ricerca sommaria, suscettibile di evolvere, tuttavia, in accertamenti più penetranti, sino, se necessario, alla perquisizione.

In particolare, dopo aver delineato, al comma 1, una facoltà di visita, ispezione e controllo negli spazi doganali in capo alla Guardia di finanza, al fine di assicurare l’osservanza delle norme del medesimo t.u. stupefacenti, la disposizione denunciata prevede, al comma 2, che, nel corso di operazioni per la prevenzione e la repressione del traffico illecito di droga, gli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria possono procedere, «in ogni luogo», all’ispezione dei mezzi di trasporto, dei bagagli e degli effetti personali «quando hanno fondato motivo di ritenere che possano essere rinvenute sostanze stupefacenti o psicotrope» e delle operazioni compiute deve essere redatto verbale mediante appositi moduli, da trasmettere entro quarantotto ore alla procura della Repubblica, per la convalida nelle quarantotto ore successive.

A sua volta il comma 3 – ossia la previsione che rilevava nel caso di specie – stabilisce che gli ufficiali di polizia giudiziaria, «quando ricorrono motivi di particolare necessità e urgenza che non consentono di richiedere l’autorizzazione telefonica del magistrato competente, possono altresì procedere a perquisizioni dandone notizia, senza ritardo e comunque entro quarantotto ore, al procuratore della Repubblica il quale, se ne ricorrono i presupposti, le convalida entro le successive quarantotto ore» e, fermo restando che, in assenza di specificazioni limitative, la perquisizione può essere tanto personale, quanto locale o domiciliare, è implicito, inoltre, stante il collegamento tra i commi 2 e 3, che anche per le perquisizioni operino i presupposti di legittimità indicati nel comma 2 ossia occorre, cioè, che sia in corso un’operazione antidroga e che sussista un fondato motivo per ritenere che la perquisizione possa portare al reperimento di sostanze stupefacenti.

Precisato ciò, la Consulta evidenziava, a questo punto della disamina, come il rimettente dubitasse della legittimità costituzionale della norma nella parte in cui consente al pubblico ministero di autorizzare oralmente l’esecuzione di perquisizioni «senza necessità di una successiva documentazione formale delle ragioni» per le quali l’autorizzazione è stata rilasciata.

In particolare, ad avviso del Giudice delle leggi, la premessa ermeneutica da cui muoveva il giudice a quo e che fondava il quesito di costituzionalità – formulato in riferimento a un caso nel quale il pubblico ministero aveva autorizzato telefonicamente la perquisizione, omettendo, quindi, di convalidarla – si presentava corretta posto che la disposizione censurata appare chiara nel senso che le perquisizioni da essa previste sono soggette a convalida solo quando non sia stato possibile «richiedere» (e quindi ottenere) «l’autorizzazione telefonica del magistrato competente»: autorizzazione che, a sua volta, tiene il luogo del decreto motivato con il quale, ai sensi dell’art. 247, comma 2, cod. proc. pen., le perquisizioni debbono essere ordinariamente disposte dall’autorità giudiziaria tenuto conto altresì del fatto che ciò risponde, peraltro, alla logica della norma consentendo alla polizia giudiziaria di intervenire prontamente sulla base anche di una semplice interlocuzione orale con il pubblico ministero fermo restando che il decreto di perquisizione previsto dal codice di rito, presupponendo l’esistenza di una notizia di reato (come si desume dal comma 1 dello stesso art. 247 cod. proc. pen.), non risulterebbe, d’altronde, neppure pertinente allorché l’attività della polizia giudiziaria assuma – come è possibile in base alla norma censurata – un carattere preventivo.

Ebbene, in quest’ottica, la previsione normativa censurata si rivelava, ad avviso della Consulta, tuttavia, incompatibile con il disposto degli artt. 13, secondo comma, e 14, secondo comma, Cost..

Difatti, a mente dell’art. 13, secondo comma, Cost., le perquisizioni personali – al pari delle ispezioni personali e di ogni altra restrizione della libertà personale – possono essere disposte solo «per atto motivato» dell’autorità giudiziaria e tale garanzia è estesa dall’art. 14, secondo comma, Cost. alle perquisizioni – oltre che alle ispezioni e ai sequestri – eseguiti nel domicilio rilevandosi al contempo che la motivazione dell’atto è evidentemente funzionale alla tutela della persona che subisce la perquisizione la quale deve essere posta in grado di conoscere – così da poterle, all’occorrenza, anche contestare – le ragioni per quali è stata disposta una limitazione dei suoi diritti fondamentali alla libertà personale e domiciliare mentre un’autorizzazione telefonica – che, di per sé, non lascia alcuna traccia accessibile delle sue ragioni, né per l’interessato né per il giudice – non soddisfa tale requisito, e ciò in ragione del fatto che se i motivi, per i quali è stata consentita la perquisizione, restano nel chiuso di un colloquio telefonico tra pubblico ministero e polizia giudiziaria, la tutela prefigurata dalle norme costituzionali resta inevitabilmente vanificata.

Al riguardo, si notava tra l’altro come non assumesse alcun rilievo la circostanza – già posta in evidenza e rispondente a un consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità – che la perquisizione prevista dall’art. 103, comma 3, t.u. stupefacenti si differenzi da quella ordinaria regolata dal codice di rito potendo avere una finalità non solo repressiva, ma anche preventiva, atteso che lo scopo – preventivo o repressivo – della perquisizione costituisce una variabile indifferente ai fini dell’operatività delle garanzie stabilite dagli artt. 13 e 14 Cost. a tutela dei diritti fondamentali dell’individuo.

Detto questo, una volta osservato che, al fine di rimuovere il vulnus costituzionale denunciato, il rimettente chiedeva alla Consulta di imporre al pubblico ministero una «successiva documentazione formale» delle ragioni che lo avevano indotto ad autorizzare oralmente la perquisizione, se si rilevava, da un lato, come il petitum del giudice a quo non potesse essere evidentemente recepito tal quale posto che una simile soluzione, ad avviso dei giudici di legittimità costituzionale, avrebbe lasciato nel vago quando e come il pubblico ministero debba adempiere il su detto obbligo, dall’altro, si metteva in evidenza il fatto che però l’intervento della Consulta non può trovare ostacolo nella circostanza che, in linea astratta, siano prospettabili plurime soluzioni alternative per evitare il su detto vuoto normativo dato che, nella sua giurisprudenza più recente, si è ripetutamente affermato che, a fronte della violazione di diritti costituzionali, «[l]’ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale risulta […] condizionata non tanto dall’esistenza di un’unica soluzione costituzionalmente obbligata, quanto dalla presenza nell’ordinamento di una o più soluzioni costituzionalmente adeguate, che si inseriscano nel tessuto normativo coerentemente con la logica perseguita dal legislatore» (sentenza n. 99 del 2019) e idonee, quindi, a porre rimedio nell’immediato al vulnus riscontrato ferma restando la facoltà del legislatore di intervenire con scelte diverse (sentenze n. 40 del 2019, n. 233, n. 222 e n. 41 del 2018, n. 236 del 2016) occorrendo infatti evitare che l’ordinamento presenti zone franche immuni dal sindacato di legittimità costituzionale: «posta di fronte a un vulnus costituzionale, non sanabile in via interpretativa – tanto più se attinente a diritti fondamentali – la Corte è tenuta comunque a porvi rimedio» (sentenze n. 242 del 2019, n. 162 del 2014 e n. 113 del 2011).

Orbene, nella specie, secondo la Corte costituzionale, la soluzione con il più immediato aggancio nella disciplina vigente – essendo questo offerto, in pratica, dalla stessa norma censurata – è quella di richiedere che anche la perquisizione autorizzata telefonicamente debba essere convalidata entro il doppio termine delle quarantotto ore ma tale soluzione presenta l’apparente elemento di anomalia connesso al fatto che, in linea di principio, la convalida successiva si rende necessaria quando è mancato l’assenso preventivo dell’autorità giudiziaria: assenso che qui invece vi era stato anche se in forma orale trattandosi però di assenso che non risponde ai requisiti richiesti dall’art. 13, secondo comma, Cost. ed è proprio questo che, per la Consulta, rende necessaria la convalida.

Oltre a ciò, si riteneva altresì necessario considerare, d’altro canto, che l’art. 103 t.u. stupefacenti amplia i poteri della polizia giudiziaria rispetto a quanto previsto dall’art. 352 cod. proc. pen. consentendole di eseguire perquisizioni anche in assenza di una situazione di flagranza di reato apprezzabile ex ante e ciò giustifica per il Giudice delle leggi un plus di garanzie – non pregiudizievole, peraltro, rispetto alle esigenze di celerità dell’operazione – imponendo alla polizia giudiziaria di munirsi di un assenso preventivo informale del pubblico ministero salvo che sussistano motivi di necessità e urgenza che non consentano nemmeno quest’ultimo: assenso che non esclude, peraltro, una successiva convalida formale dell’operazione in occasione della quale il pubblico ministero può avere anche modo di verificare quanto riferitogli dalla polizia giudiziaria per telefono, magari in modo frammentario, e comunque sia posto nella condizione di verificare le modalità con le quali la perquisizione è stata eseguita fermo restando che tale soluzione presuppone che, pur in assenza di espressa indicazione in questo senso, la convalida prevista dalla disposizione censurata debba essere resa con provvedimento motivato rilevandosi a tal riguardo che, pur nel silenzio dell’art. 352, comma 4, cod. proc. pen., l’opinione prevalente è nel senso che anche la perquisizione “ordinaria” d’iniziativa della polizia giudiziaria debba essere convalidata dal pubblico ministero con decreto motivato, proprio per un’esigenza di rispetto degli artt. 13 e 14 Cost..

Infatti, è ben vero che il riferimento all’«atto motivato» è presente solo nel secondo comma dell’art. 13 Cost., a proposito della perquisizione disposta ab origine dall’autorità giudiziaria, e non pure nel successivo terzo comma, a proposito della convalida dei «provvedimenti provvisori» adottati dall’autorità di sicurezza, nei casi eccezionali di necessità ed urgenza tassativamente indicati dalla legge ma, in proposito, per la Consulta, coglieva nel segno il rilievo del giudice a quo secondo cui l’esigenza della motivazione anche della convalida deve ritenersi implicita nel dettato costituzionale rimanendo altrimenti frustrata la ratio della garanzia apprestata dall’art. 13 Cost. posto che non avrebbe senso che la norma costituzionale richieda l’«atto motivato» quando l’autorità giudiziaria, titolare ordinaria del potere, operi di sua iniziativa, e non pure nell’ipotesi – più delicata – in cui sia chiamata a verificare se la polizia giudiziaria abbia agito nell’ambito dei casi eccezionali di necessità e urgenza nei quali la legge le consente di intervenire.

Oltre a ciò, si osservava come, a livello di legge ordinaria, non si sia mancato di rilevare, d’altro canto, in dottrina, come una esegesi letterale dell’art. 352, comma 4, cod. proc. pen., il quale non richiede esplicitamente la motivazione del decreto di convalida, determinerebbe una ingiustificabile differenza di disciplina rispetto alla analoga ipotesi della convalida del sequestro per la quale invece la motivazione è richiesta (art. 355, comma 2, cod. proc. pen.): rilievo, questo, estensibile anche alla convalida prevista dalla norma denunciata.

Sotto altro profilo, si notava che, pur essendo le censure del rimettente rivolte in modo indistinto all’art. 103 t.u. stupefacenti, la declaratoria di illegittimità costituzionale doveva colpire in modo specifico il comma 3, ove è contenuta la disposizione produttiva del vulnus tenuto conto altresì del fatto che la pronuncia va, inoltre, limitata ai casi in cui l’autorizzazione abbia ad oggetto una perquisizione personale o domiciliare perché è solo a queste che risultano riferite le garanzie previste dagli artt. 13, secondo comma, e 14, secondo comma, Cost..

Alla luce di quanto precede, l’art. 103, comma 3, t.u. stupefacenti veniva quindi dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevedeva che anche le perquisizioni personali e domiciliari autorizzate per telefono debbano essere convalidate mentre la censura di violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 CEDU, restava assorbita.

Infine, una volta fatto presente che anche in questo caso rimane ferma la facoltà del legislatore di introdurre, nella sua discrezionalità, altra, e in ipotesi più congrua, disciplina della fattispecie, purché rispettosa dei principi costituzionali, la Corte costituzionale dichiarava l’illegittimità costituzionale dell’art. 103, comma 3, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), nella parte in cui non prevede che anche le perquisizioni personali e domiciliari autorizzate per telefono debbano essere convalidate.

Conclusioni

La decisione in esame è assai interessante nella parte in cui dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 103, comma 3, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) (“Gli ufficiali di polizia giudiziaria, quando ricorrano motivi di particolare necessita’ ed urgenza che non consentano di richiedere l’autorizzazione telefonica del magistrato competente, possono altresi’ procedere a perquisizioni dandone notizia, senza ritardo e comunque entro quarantotto ore, al procuratore della Repubblica il quale, se ne ricorrono i presupposti, le convalida entro le successive quarantotto ore”) nella parte in cui non prevede che anche le perquisizioni personali e domiciliari autorizzate per telefono debbano essere convalidate.

Di conseguenza, per effetto di questa pronuncia, in presenza delle condizioni di necessità ed urgenza prevedute dalla norma summenzionata, non è più sufficiente che le perquisizioni personali e domiciliari compiute dagli ufficiali di polizia giudiziaria vengano autorizzate per telefono dal pubblico ministero essendo per contro necessario che esse siano convalidate da costui.

Tale sentenza, quindi, deve essere presa nella dovuta considerazione ove invece tale convalida difetti ben potendosi eccepire la regolarità di una perquisizione compiuta in questo modo nei modi e nelle forme previste dal codice di rito penale.

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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