Sempre più tensione sembra esserci intorno al rapporto tra i concetti d’integrazione e identità religiosa, soprattutto a proposito dei frequenti ‘incontri culturali’ che avvengono grazie ai flussi migratori. Sembra, infatti, che gran parte del processo d’integrazione degli immigrati debba passare necessariamente per l’ambito religioso, soprattutto in Europa. Tribunali e legislatori pressoché in tutto il mondo si trovano a dover intervenire, decidere e ragionare su questioni che potrebbero essere considerate futili (indossare un velo) così come su temi ritenuti cruciali (concetti di illegalità e crimine, ricorso a pratiche e terapie mediche, diritto di famiglia, matrimonio/divorzio, istruzione, etc.). Sempre, in un modo o nell’altro, il diritto è chiamato ad intervenire, a trattare le identità e le differenze culturali e religiose, non solo in relazione alle teorie del multiculturalismo ma anche e soprattutto alla luce delle numerose rivisitazioni e critiche dello stesso. È stato, infatti, già ampiamente dimostrato che spesso anche le strategie multiculturali più promettenti, progressiste ed aperte hanno condotto a soluzioni negative. Tale fenomeno è stato denominato da molti il ‘paradosso del multiculturalismo’.
La libertà di religione in Europa occidentale è diventato un argomento cruciale. I sistemi giuridici di tale area geografica sembrano basarsi su differenti forme e formule di (presunto) secolarismo e al momento si confrontano non solo con le fedi dei migranti, ma anche con un incremento del ‘tasso di religiosità’ tra gli stessi nativi. Le reazioni sono le più varie: vi sono stati che intendono dialogare – o comunque confrontarsi – con le autorità religiose, altri che si adoperano per la protezione – più o meno incondizionata – del principio dello stato laico, altri ancora che decidono di muoversi tra i nebulosi e spesso ambigui confini tra religiosità e secolarismo. Le cosiddette arene di tale confronto possono essere individuate essenzialmente nel diritto di famiglia, nelle politiche immigratorie, nella giustizia e nell’istruzione.
Finora le politiche dei paesi occidentali si sono basate – più o meno coscientemente – sull’idea che sia assolutamente possibile separare la sfera religiosa da quella laica, senza pensare non solo che è assai più comune la situazione inversa, ma anche non riconoscendo nelle stesse identità secolari occidentali i numerosi e ben radicati elementi e principi religiosi. Inoltre, è piuttosto inverosimile che le pratiche religiose possano essere relegate alla sola sfera privata, o dentro le mura della propria casa, chiesa, sinagoga, moschea. E ciò non avviene solo a proposito delle religioni considerate maggiormente ortodosse e rigide: molto spesso anche chi non si professa credente reagisce con vigore ed energia, quando è proposta la rimozione del crocefisso dalle aule scolastiche o la costruzione di una moschea nella propria città.
Se quindi anche per i ‘nativi’ i valori religiosi possono rientrare nell’insieme dei valori culturali di riferimento da difendere e proteggere, per i migranti la fede religiosa è spesso uno dei pochi sostegni – se non l’unico – nell’affrontare le difficili prove che comporta la vita in un paese nuovo e sconosciuto. La questione diventa problematica quando i valori spirituali e religiosi sembrano eguagliare o addirittura superare quelli civili o giuridici.
Come W. Kymlicka ha descritto nelle sue ricerche, le pratiche di multiculturalismo e la difesa dei diritti culturali sfociano assai spesso nella sfera religiosa. Il velo delle donne musulmane, il turbante dei Sikh o il sabato degli ebrei dimostrano quanto la vita quotidiana, l’economia, il lavoro, la scuola siano in realtà capillarmente collegati all’ambito della religione. E mentre sovente la religione è connessa a musica, cibo, bevande, pratiche, simboli o forme d’arte, è innegabile che essa al contempo eserciti un certo potere che va oltre la stessa vita spirituale di individui e paesi, influenzando sovente la politica, l’economia e ogni altro ambito della vita sociale.
Tra i diritti civili quello dedicato alla professione del proprio credo religioso è particolarmente sentito. Ma tale diritto viene inevitabilmente iscritto in un contesto politico, storico, economico e sociale. Nel caso degli immigrati, la professione religiosa può diventare chiave essenziale delle dinamiche e strategie di integrazione. Gli stati si ritrovano sovente davanti ad un bivio tra il rispetto delle differenze culturali e il timore che siano minate le tradizioni locali. Anche laddove, infatti, le differenti religioni vengano formalmente e legalmente riconosciute dallo stato, tale riconoscimento deve essere tradotto in politiche effettive e pratiche.
Il fatto stesso che uno stato che si professa assolutamente laico e democratico, altrettanto democraticamente obblighi un certo gruppo di persone ad un preciso codice di abbigliamento (proibendo ad esempio di indossare un velo, un turbante o un particolare copricapo) sembrerebbe già di per sé un controsenso. Ancor più marcato se tra le giustificazioni di tale obbligo vi è quella di contrastare il fatto che tali capi di abbigliamento vengono imposti dalle culture/religioni originali: poiché la tua religione ti obbliga ad indossare il velo, io ti obbligo a non indossarlo. Uno stato laico, democratico e multiculturale dovrebbe perlomeno permettere di scegliere tra una ricca varietà di possibilità, e non relegare la scelta ad una limitata, pre-selezionata e ristretta gamma di offerte, per così dire.
In Europa l’integrazione in realtà in molti casi è sottoposta a numerose condizioni, e ancor oggi subisce le dinamiche e le strategie di un assimilazionismo negato in teoria ma non nelle politiche e nelle pratiche. Dietro i valori della democrazia, dell’illuminismo e della cosiddetta civiltà occidentale europea si celano paure che alimentano un nuovo – o comunque rinato – ‘nativism’, per usare un termine anglosassone. Chi non è europeo, bianco e cristiano sovente non merita un trattamento paritario e non ha pieno accesso alla cittadinanza. E così come, dopo l’11 settembre 2001, Islam è – fin troppo facilmente e superficialmente – diventato sinonimo di terrorismo, il velo è diventato emblema per molti di subordinazione femminile e di mancanza di libertà, oltre che chiara espressione di una resistenza ad integrarsi nella società d’accoglienza. L’Europa ha così deciso di ‘salvare’, ‘emancipare’ e ‘liberare’ le donne subordinate, forzandole ed obbligandole a rinnegare un modo di vestire non solo legato alla religione ma anche alla propria cultura di origine. E così, sottoposti a ferrei divieti e rigidi obblighi, gli individui immigrati sarebbero finalmente ‘liberi’ di integrarsi…
Barbara Faedda
Bibliografia di riferimento
Adams M., Unlikely utopia, Viking Canada, 2007.
Casanova J., Immigration and the new religious pluralism: a EU-US comparison, 2005.
IRR, New report says Islamophobia warps integration efforts, 2008.
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