Immunità parziale per Trump: un vulnus alla democrazia?

A pochi mesi dalle elezioni presidenziali l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump risulta imputato in tre procedimenti penali relativi rispettivamente all’incitamento all’insurrezione  nell’assalto al Palazzo del Congresso del 6 gennaio 2021 divenuto oggetto della procedura di impeachment conclusosi con l’assoluzione,  alla frode alle banche e compagnie di assicurazione per aver sopra stimato il valore di numerose azioni e ai pagamenti alla pornostar Stormy Daniels nel quale in data 31 maggio 2024 è stato ritenuto colpevole per tutti i 34 capi di imputazione. L’udienza per determinare il quantum della pena è stata fissata per l’11 luglio 2024 e poi rinviata. Ma come un fulmine a ciel sereno in data 1° luglio 2024 è intervenuta la decisione della Corte Suprema di concedere all’ex presidente una immunità parziale in relazione al citato assalto a Capitol Hill. Tuttavia, si ritiene che i procedimenti penali a carico di Trump non rientrino nelle ipotesi previste dalla sentenza della Corte Suprema; ma, poiché è altamente improbabile che il processo si concluda prima di novembre, quando sono in programma le elezioni presidenziali, la decisione della Corte Suprema spianerà senz’altro la strada a Trump verso la Casa Bianca.

Indice

1. L’istituto dell’Impeachment negli Stati Uniti d’America e l’art. 90 della Costituzione italiana


Per comprendere meglio la decisione della Corte Suprema statunitense si ritiene opportuno partire dall’esame dell’istituto dell’impeachment ed analizzare alcuni profili comparatistici con il nostro ordinamento giuridico.
Tale istituto(termine traducibile come messa in stato di accusa) è presente in diversi Stati del mondo e prevede il rinvio a giudizio di titolari di cariche pubbliche qualora si ipotizza che abbiano commesso determinati illeciti nell’esercizio delle loro funzioni.[1]
L’impeachment è un antico istituto di common law, sviluppatosi dapprima in Inghilterra in un arco di tempo che va dal 1376, anno in cui il Parlamento inglese mise in stato d’accusa alcuni ministri di Edoardo III e la sua amante per corruzione e incapacità, al XVIII secolo, quando è evoluto nella responsabilità ministeriale del gabinetto del Re.
Successivamente, nella versione di memento “ai cittadini che il loro presidente è umano e può sbagliare come ogni altro cittadino”, è stato poi previsto e disciplinato dai padri costituenti degli Stati Uniti d’America nella Costituzione di Filadelfia del 1787.
Nell’ordinamento giuridico statunitense, i soggetti sottoposti al procedimento sono i componenti del potere esecutivo, dal Presidente al vice Presidente, fino ai funzionari delle amministrazioni statali, e i giudici intesi come membri delle giurisdizioni federali.
Negli Stati Uniti d’America, inoltre, soggetti attivi dell’impeachment (promotori del procedimento) sono la Camera dei Rappresentanti, investita della funzione di discutere i presupposti dell’accusa ed eventualmente elevarla (con voto a maggioranza semplice dei presenti), e il Senato investito del ruolo di giudice (con voto a maggioranza dei due terzi dei presenti).
Il problema principale di tale procedura, come anche di quella prevista dalla nostra Costituzione, è la definizione degli illeciti; la Costituzione statunitense prevede, infatti, le fattispecie di tradimento (treason), corruzione (bribery) e di altri gravi crimini e misfatti (high crimes and misdemeanours). Proprio su questi ultimi termini sono nate le controversie maggiori; mentre i primi sono più facilmente definibili, high crimes and misdemeanours sono espressioni molto generiche e di non facile definizione.
Le sanzioni contemplate sono la rimozione o destituzione dalla carica (removal from office) e l’interdizione dai pubblici uffici (disqualification). È ormai accettato nella giurisprudenza e nella letteratura giuridica statunitense che l’imputato può essere sottoposto parallelamente a procedimento della giustizia ordinaria, anche in contemporanea a quello dell’impeachment, come avvenuto per Trump.
Per quanto concerne i componenti dell’esecutivo, sono stati sottoposti a impeachment i Presidenti democratici Andrew Johnson (1868) e Bill Clinton (1998) e, da ultimo, Donald Trump. Non si può invece propriamente parlare di impeachment per il caso di Richard Nixon (1973, per lo scandalo Watergate), poiché le sue dimissioni chiusero la procedura prima che venisse avviata formalmente.
Il 18 dicembre 2019, dopo il si della Camera dei Rappresentanti, Donald Trump è diventato il terzo presidente nella storia degli Stati Uniti ad essere messo ufficialmente sotto accusa. Ad oggi, ancora nessun Presidente è stato rimosso dall’incarico attraverso l’istituto in argomento.
Nella fattispecie dell’assalto al Congresso  del 6 gennaio 2021, i comportamenti  addebitabili al Presidente uscente potrebbero essere costituiti dal reato di istigazione a delinquere ed incitamento all’insurrezione, pubblicamente concretizzatasi nel discorso tenuto in pubblico lo stesso giorno, comportamento che ha determinato, tra l’altro, cinque vittime e numerosi feriti; ma soprattutto nell’attacco alle istituzioni democratiche rappresentate dal Parlamento, comportamento che in Italia potrebbe integrare la fattispecie di attentato alla Costituzione ex art. 90 della Carta costituzionale.
Il partito democratico, quindi, in data 12 gennaio 2021 ha presentato la mozione di inpeachment contro il Presidente uscente Trump per incitamento all’insurrezione. In data 13 gennaio 2021, prima che si insediasse il nuovo Congresso a maggioranza democratica, con una procedura lampo la Camera ha approvato la mozione di impeachment contro Donald Trump per aver incoraggiato i suoi sostenitori ad assaltare il Congresso e a impedire la certificazione della vittoria di Joe Biden.
In data 13 febbraio, poi, l’ex presidente è stato assolto al Senato dall’accusa di istigazione all’insurrezione. Trump, quindi, è stato ritenuto non colpevole per la seconda volta in un procedimento di impeachment ed è il primo caso nella storia in cui questo procedimento viene avviato contro un Presidente non più in carica.
Tuttavia, le difficoltà dogmatiche e probatorie evidenziate rendono auspicabile l’introduzione di un più rigoroso inquadramento delle fattispecie delittuose, attenuando il carattere prevalentemente politico delle procedure in esame e riaffermando in questo modo la piena sovranità popolare.
Per quanto concerne la normativa costituzionale italiana l’art. 90 Cost. così recita: “Il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione.
In tali casi è messo in stato d’accusa dal Parlamento in seduta comune, a maggioranza assoluta dei suoi membri”.
L’articolo in argomento, nella parte riguardante la messa in stato d’accusa, è stato ulteriormente definito ed integrato dalla legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1, agli artt. 12 e 13 e dal regolamento parlamentare approvato con la legge 5 giugno 1989, n. 219 recante “Nuove norme in tema di reati ministeriali e di reati previsti dall’articolo 90 della Costituzione”.
Le due ipotesi di reato, contemplate da queste norme e la relativa disciplina processuale, non hanno avuto nel tempo la stessa sorte dei delitti comuni, anche perché manca una giurisprudenza che ne chiarisca le incertezze, mentre sono numerosi gli orientamenti dottrinari spesso discordanti.
Infatti, per intendere il reato di “attentato alla Costituzione” occorre tener presente la funzione del Capo dello Stato nella nostra Costituzione che non è solo quella di “arbitro”, ma è anche fondamentale per quanto riguarda il funzionamento degli organi costituzionali. Infatti, nella parte dedicata all’ordinamento della Repubblica, la figura del Presidente viene subito dopo il Parlamento e prima del governo e della magistratura. Il Parlamento può essere costituito senza l’intervento del Presidente della Repubblica, ma può essere sciolto solo da lui ed il governo non può venire alla luce senza il Capo dello Stato che, allo stato, individua il Presidente del Consiglio dei Ministri e nomina i ministri. Il Presidente della Repubblica è, quindi, la cerniera tra il potere legislativo e quello esecutivo e le sue funzioni, elencate dall’art. 87 Cost., definiscono come lo stesso deve realizzare l’unità nazionale, tutelare diritti e doveri, il potere legislativo e attivare quello esecutivo. Tuttavia, bisognerà attendere l’approvazione definitiva del disegno di legge costituzionale sul premierato per definire meglio le prerogative del Capo dello Stato.
Nella storia della Repubblica si sono verificati solo due casi di richiesta di messa in stato d’accusa: nel 1991 e nel 2014. In particolare, il 6 dicembre 1991 fu presentata una richiesta di messa in stato di accusa dell’allora Presidente Cossiga ed il caso è stato solo in questione formalmente dibattuto in vista di un’eventuale messa in stato d’accusa. Tuttavia la discussione sull’imputazione non fu rimessa all’organo giurisdizionale, ma come prevede la Costituzione, al Parlamento, per definizione organismo prevalentemente politico e più precisamente si svolse in una commissione prevista dal citato regolamento parlamentare approvato con legge n. 219/1989.
Oggi la dottrina prevalente interpreta le fattispecie di alto tradimento ed attentato alla Costituzione nel senso della responsabilità costituzionale. Secondo tale interpretazione, l’attentato alla Costituzione darebbe luogo ad un illecito di carattere costituzionale in deroga ai moduli della forma di governo parlamentare.
Al di là delle considerazioni teoriche, va detto che la natura politica del procedimento ex art. 90 Cost., nonché del giudizio dinanzi alla Corte costituzionale, si ricavano dal fatto che l’organo al quale è demandata la messa in stato d’accusa del Presidente, id est il Parlamento, è a sua volta un organo di natura politica, in quanto espressione della sovranità popolare. L’organo addetto al giudizio, invece, è la Corte Costituzionale: essa, nonostante il suo ruolo giurisdizionale, ha molti tratti politici (ad esempio, il numero dei giudici eletti dalle Camere ed il numero nominato di quelli nominati dal Presidente stesso). Quest’ultima considerazione induce a ritenere che il procedimento in cui si innesta il giudizio penale-costituzionale dell’operato del Presidente abbia natura preminentemente politica. E tali considerazioni sono più rilevanti per la Corte Suprema americana.
Tuttavia, si ritiene di sottolineare un aspetto che la dottrina ha trascurato e cioè che la Corte Costituzionale viene integrata con altri sedici giudici aggregati: cittadini con i requisiti di eleggibilità a senatore, ai sensi dell’art.58 Cost., estratti a sorte da un elenco apposito compilato dal Parlamento ogni nove anni. Si costituisce, quindi, un collegio giudicante di ventuno membri in cui i giudici aggregati sono la maggioranza. Tale circostanza non è di poco conto e mitiga senz’altro il carattere politico del giudizio della Corte.

2. La sentenza della Corte Suprema contro Trump in data 1° luglio 2024


Appare opportuno preliminarmente analizzare la Costituzione americana e i compiti della Corte Suprema per valutare compiutamente il significato della decisione in esame.
La Corte suprema degli Stati Uniti d’America (abbreviato SCOTUS, lett. “Supreme Court of the United States”) è la più alta corte della magistratura federale. Essa ha ampia giurisdizione di appello di ultima istanza su tutti i casi di tribunali federali e tribunali degli Stati federati, come nel caso di specie, e possiede giurisdizione originale su una ristretta gamma di casi, in particolare “tutti i casi che riguardano ambasciatori, altri ministri e consoli pubblici e quelli in cui uno Stato è parte”.[2]
Istituita dall’Articolo III della Costituzione degli Stati Uniti la Corte è composta dal presidente e otto giudici associati. Ogni Giudice ha un mandato a vita, il che significa che continua il suo ufficio fino a quando muore, si dimette o viene rimosso dall’incarico. Quando un posto è vacante, il Presidente degli Stati Uniti, con il consenso del Senato, nomina un nuovo Giudice. E nell’attuale composizione ben tre giudici sono stati nominati dall’ex Presidente Trump.[3]
L’Articolo II della Costituzione degli Stati Uniti conferisce, poi, al Presidente degli Stati Uniti il potere di proporre e, con il consenso confermativo del Senato, di nominare funzionari pubblici, compresi i giudici della Corte suprema. Questa disposizione è un esempio del principio democratico fondamentale dei pesi e contrappesi (checks and balances) concernente la Costituzione americana. Il Presidente ha il potere di proporre, mentre il Senato possiede il poter di respingere o confermare il candidato. Tuttavia, si ritiene che il consesso in questione non abbia quell’inderogabile carattere di terzietà presente in molti sistemi giudiziari di civil law.
Venendo all’esame della fattispecie, si rappresenta che, con sentenza in data 1° Luglio 2024, la Corte Suprema americana ha riformato una decisione di una corte d’appello federale che a febbraio aveva stabilito che l’ex Presidente Trump non dovesse godere dell’immunità per via dei presunti crimini commessi durante la sua presidenza, nel tentativo di annullare i risultati delle elezioni presidenziali americane del 2020 vinte da Joe Biden.
La Corte ha quindi deciso di concedere una parziale immunità presidenziale a Trump nel processo che lo vede imputato per l’aggressione al Congresso da parte dei suoi sostenitori dopo la sconfitta subita alle elezioni presidenziali del novembre 2020. Tuttavia l’immunità riconosciuta è parziale perché vale ed è assoluta solo per gli atti ufficiali, ossia le azioni adottate in base ai poteri costituzionali attribuiti al Presidente. Pertanto, Trump non può godere di alcuna immunità per le azioni compiute come cittadino, candidato, leader di partito o comunque compiute al di fuori dell’esercizio delle prerogative presidenziali.[4]
È la prima volta dalla fondazione della nazione nel XVIII secolo che la Corte suprema dichiara che gli ex presidenti in alcuni casi possono essere protetti da accuse penali. Tuttavia, il Presidente della Corte Suprema John G. Roberts Jr. durante la lettura del dispositivo ha specificato in modo chiaro come “nonostante la concessione dell’immunità, il presidente non è al di sopra della legge”.
Pertanto, in base a quanto stabilito dalla sentenza sull’immunità presidenziale, sarà il giudice della Corte distrettuale degli Stati Uniti a Washington, a dover decidere quali accuse sono da archiviare in base ai poteri costituzionali del presidente e le sue azioni intraprese.
Il procuratore federale nominato a novembre di quest’anno consigliere speciale del Dipartimento Giustizia, accusa Trump di quattro reati collegati al suo presunto piano di rimanere al potere dopo la sconfitta alle presidenziali del 2020 conclusesi con la vittoria di Biden.
In particolare le accuse riguardano cospirazione per frodare gli Stati Uniti, cospirazione per ostacolare la certificazione formale della vittoria di Biden, ostacolo a un procedimento del Congresso e cospirazione contro i diritti di voto. 
La decisione della Corte Suprema consentirà dunque al processo di proseguire, ma saranno inevitabili ulteriori rallentamenti in quanto nel corso del dibattimento dovranno essere distinti, di volta in volta, gli atti ufficiali da quelli privati. Quindi il processo penale che vede imputato l’ex presidente per il ruolo avuto nell’assalto a Capitol Hill si prolungherà quasi certamente oltre le presidenziali dell’inizio di novembre di quest’anno e, se Trump sarà rieletto alla Casa Bianca, potrebbe bloccarlo definitivamente insieme agli due procedimenti penali in corso.
Il caso in esame torna pertanto nelle mani della giudice Tanya Chutkan che dovrà decidere se una parte delle accuse deve essere archiviata sulla base della distinzione operata dalla Corte Suprema tra azioni decise nell’ambito dei poteri costituzionali del presidente e azioni intraprese nell’ambito della sua sfera privata. Questo comporterà inevitabilmente un ulteriore slittamento dei tempi del dibattimento sicuramente oltre l’election day del prossimo novembre. 

3. Conclusioni


Si osserva preliminarmente che la decisione della Corte Suprema, nonostante sia stata adottata da un collegio giudicante in maggioranza nominato da Presidenti del partito repubblicano, non può ritenersi, alla luce di un’analisi comparatistica, un monstrum giuridico. Infatti, molte costituzioni continuano a proclamare il tradizionale principio monarchico della irresponsabilità del Capo dello Stato per gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni a tutela non della persona, ma della carica, come sostanzialmente avviene anche in Italia (“Il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni…”, art. 90 Cost. citato).
Ciò non vale però per alcuni reati tipici, per i quali il Presidente è soggetto ad una responsabilità penale speciale che tende ad assumere una coloritura politica. Tali reati presidenziali sono variamente indicati: attentato alla Costituzione o violazione della Costituzione; violazione di leggi; alto tradimento; gravi reati; azioni scorrette, incapacità, condotte illegali o incompatibili con la carica (in Italia per alto tradimento o per attentato alla Costituzione, art. 90 Cost. citato). Talune di queste fattispecie potrebbero applicarsi ai comportamenti di Trump.
Invece per gli atti extra funzionali nella maggioranza degli ordinamenti democratici non è prevista alcuna immunità; in alcuni ordinamenti è richiesta l’autorizzazione a procedere da parte del Parlamento, mentre in altri è stabilita l’improcedibilità fino al termine del mandato da una disposizione di rango costituzionale.[5]
Si ritiene, comunque, che i comportamenti dell’ex Presidente degli Stati nei tre casi che hanno determinato i conseguenti procedimenti penali potrebbero non considerarsi “ufficiali” come ha statuito la sentenza (atti compiuti nell’esercizio delle proprie funzioni, secondo la dottrina); pertanto tali procedimenti potrebbero essere portati a termine dai giudici merito. Nel caso di assalto al Congresso, infatti, è difficile considerare che gli atti dell’ex presidente (fare pressioni sul vice presidente Pence, chiedere ai manifestanti di attaccare il Parlamento) possano considerarsi “ufficiali”.
È certo, tuttavia, che Trump è uscito rafforzato dalla decisione della Corte suprema di garantirgli l’immunità presidenziale parziale e “creare un re” com’è stato definito non troppo implicitamente dalla giudice Sonia Sotomayor (“un re al di sopra della legge”).
Per converso uno dei padri fondatori degli Stati Uniti, Alexander Hamilton, aveva scritto chiaramente quale fosse la differenza tra il re d’Inghilterra “sacro e inviolabile” e il presidente degli Stati Uniti, che “sarebbe suscettibile a punizioni personali e disonore”. La decisione della Corte Suprema potrebbe aver messo in crisi quel valore fondante della democrazia americana in quanto “re Donald” potrebbe far rinviare uno dopo l’altro tutti i processi che lo vedono imputato o quanto meno ritardarli fino a dopo le elezioni che potrebbe vincere facendolo tornare così alla Casa Bianca. 

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Note


[1] P. Gentilucci, Attentato alla democrazia, in L’Adriatico del 21 febbraio 2021.
[2]  About the Supreme Court, in United States Courts del 17 settembre 2021.
[3]  Essays on Article III: Good Behavior Clause, in Heritage. URL del il 17 settembre 2021.
[4] L. Veronese, La Corte Suprema concede a Trump l’immunità parziale per i fatti di Capitol Hill, in Sole 24 ore del 1° luglio 2024.
[5] G. Morbidelli, L. Pegoraro, A. Rinella, M. Volpi, Diritto pubblico comparato, Giappichelli, Torino, 2016.

Prof. Paolo Gentilucci

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