Con l’ordinanza del 16 novembre 2022, n. 33682 la Corte di Cassazione ha stabilito che la percentuale del 10% dell’attivo ereditario da imputare, ai fini del calcolo dell’imposta di successione, a denaro, gioielli e mobilio non comprende i saldi di c/c detenuti dal de cuius presso gli intermediari finanziari.
Ciò in quanto tali somme sono di proprietà degli intermediari e non del cliente, il quale vanta, su di esse, soltanto un diritto di credito.
1. Il punto
Occorre preliminarmente ricordare che l’articolo 9, comma 2 del decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 346 (TUS), stabilisce che “si considerano compresi nell’attivo ereditario denaro, gioielli e mobilia per un importo pari al dieci per cento del valore globale netto imponibile dell’asse ereditario […]”.
In altri termini si presume che nell’attivo ereditario vi siano denaro, gioielli e mobilio per un valore (determinato forfettariamente) pari al 10% del valore complessivo netto dell’asse ereditario.
La presunzione in esame è relativa: è dunque possibile superarla.
La parte finale del citato articolo 9 prevede, infatti, che la presunzione si considera superata se il contribuente, mediante un inventario analitico redatto dal cancelliere o dal notaio ai sensi dell’articolo 769 c.p.c., dimostra l’effettivo valore di denaro, gioielli e mobilio compreso nell’asse ereditario.
Detta presunzione, poi, non opera ove l’erede dichiari, per “denaro, gioielli e mobilia” un importo pari o superiore a quello presunto (cfr. Cass. 31806/2019).
Con riferimento al denaro la Suprema Corte ha già avuto modo di chiarire (cfr. Cass. 21901/2020) che lo stesso rientra nell’ambito di applicazione della norma in commento solo quando su di esso il defunto esercita un diritto di proprietà e non quando lo stesso forma oggetto di un diritto di credito.
Il denaro, dunque, concorre alla costituzione dell’attivo ereditario in sé e per sé, non rientrando nella presunzione di cui al citato articolo 9 TUS (cfr. Cass. 8191/2011 e Cass. 8198/2011).
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2. Il caso
Nella fattispecie de qua, gli eredi avevano indicato nella dichiarazione di successione un ammontare di denaro (tra cui quello detenuto su vari c/c dal de cuius) pari al 10% del valore dell’asse ereditario, ritenendo, in tal modo, di aver rispettato il dettato normativo sopra richiamato.
Di diverso avviso la sede territoriale dell’Agenzia delle Entrate che in sede di controllo emetteva un avviso di liquidazione, ritenendo che i beni da considerare ai fini della presunzione del 10% sopra descritta fossero solo i beni di proprietà del defunto.
A seguito dell’impugnazione presentata dall’erede, le commissioni tributarie di primo e di secondo grado hanno ritenuto illegittimo l’avviso di liquidazione.
Con l’ordinanza in commento la Suprema Corte, invece, accoglie il ricorso dell’Amministrazione finanziaria cassando la sentenza impugnata rinviando alla corte di giustizia tributaria di secondo grado in diversa composizione.
Nello specifico i giudici di legittimità hanno ricordato che, con riferimento alla presunzione di cui all’articolo 9 del TUS, “[…] il denaro rientra nell’ambito di applicazione della norma stessa solo quando su di esso il defunto esercitasse un diritto di proprietà e non quando formasse oggetto di un diritto di credito” (v. sentenza 21901/2020 e sentenza 19160/2003).
Nello specifico, con riferimento alle somme depositate presso un intermediario finanziario, la proprietà del denaro spetta a quest’ultimo mentre il cliente gode di un diritto di credito (artt. 1834 e 1852 c.c.).
Alla luce di ciò il saldo del deposito in conto corrente costituisce un credito del defunto e non una sua proprietà.
La Suprema Corte accoglie dunque il ricorso confermando che i beni da indicare in dichiarazione per un valore pari al 10% dell’asse ereditario non includono il denaro depositato in banca.
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Cristina Cerrai, Stefania Ciocchetti, Patrizia La Vecchia, Ivana Enrica Pipponzi, Emanuela Vargiu | Maggioli Editore 2022
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