La riforma del 2017
L’articolo 1, comma 87 della l. 205/2017 (la c.d. Legge di Bilancio 2018), ha apportato significative modifiche agli articoli 20 e 53-bis del D.P.R. n. 131/1986 (Testo Unico delle disposizioni in materia di imposta di registro, d’ora in avanti T.U.R.), rubricati rispettivamente “Interpretazione degli atti” e “Attribuzioni e poteri degli Uffici”, le novità sono apprezzabili in quanto chiariscono la portata applicativa dell’art. 20 TUR in modo tale da restituire all’imposta di registro l’originaria veste di “imposta d’atto”. In particolare viene espressamente vietato di utilizzare elementi estranei all’atto ai fini dell’interpretazione di quest’ultimo, di conseguenza non potrà più essere l’art. 20 TUR il metro per risolvere le eventuali discrepanze tra effetti negoziali e sostanziali dell’atto da registrare. Dall’altra parte, il richiamo dell’art. 10-bis l. 212/2000 nel corpo dell’art. 53-bis consente all’amministrazione finanziaria di riqualificare l’operazione elusiva, anche mediante atti collegati o elementi extra-testuali, solo se ravvisa la violazione dei principi dell’abuso del diritto.
Sono finalmente risolte le incertezze del passato?
L’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986, anteriormente alle modifiche ad esso apportate con la Legge di Bilancio 2018, prevedeva che: “l’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente”.
Secondo un primo orientamento che potremmo definire “tradizionale”, la disposizione testé richiamata richiedeva che ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro, bisognava avere riguardo precipuamente al contenuto delle clausole negoziali e agli effetti giuridici dell’atto soggetto a registrazione, indipendentemente dal nomen iuris ad esso attribuito e aldilà dalla volontà delle parti, a nulla rilevando gli effetti economici di tale atto e gli elementi esterni all’atto stesso[1] .
Negli ultimi quindici anni, tuttavia, si è formato un filone giurisprudenziale, soprattutto in Cassazione, che ha attribuito alla disposizione in commento una portata ben più ampia, dando rilievo, per la determinazione dell’imposta applicabile, all’intera operazione economica realizzata e ciò avveniva mediante la valorizzazione del collegamento dell’atto sottoposto a registrazione con elementi extra-testuali[2].
A queste conclusione la S.C. vi era giunta a seguito dell’elaborazione di due approcci: in base al primo veniva riconosciuta una portata essenzialmente antielusiva[3] dell’art. 20 TUR, il quale, pertanto, aveva una funzione analoga a quella dell’oggi abrogato art. 37-bis, D.P.R. n. 600/1973.
Successivamente, la Corte di legittimità ha abbandonato la concezione dell’art. 20 T.U.R. quale clausola antielusiva, ritenendo che la norma consentisse comunque di oltrepassare il nomen iuris e gli effetti negoziali dell’atto sottoposto a registrazione, per ricostruire la “causa reale” dell’intera operazione economica realizzata[4].
Alla stregua di questo approccio, l’art. 20 T.U.R. non era solo «una norma interpretativa degli atti registrati», bensì una «disposizione intesa a identificare l’elemento strutturale del rapporto giudico tributario»[5] che imponeva di dare rilevanza principale nell’imposizione di un negozio giuridico, alla causa reale e alla regolazione degli interessi realmente perseguita dalle parti anche se attraverso ulteriori accordi extra-testuali[6], prescindendo però da «intenti elusivi» che potevano eventualmente ricorrere[7] .
In estrema sintesi, alla luce di questa tesi, veniva sottoposto a imposizione, non già l’atto in sé, bensì l’intera operazione economica che l’atto intendeva realizzare, operazione che veniva individuata anche mediante il collegamento negoziale con elementi extra-testuali alla luce dell’obiettivo economico perseguito e delle intenzioni delle parti.
Tale impostazione ha fatto sì che all’amministrazione finanziaria potesse riqualificare in sede di accertamento alcune operazioni nella prassi molto frequenti, riqualificazioni che hanno consentito l’applicazione dell’imposta di registro in misura proporzionale piuttosto che fissa, aumentando notevolmente l’onere fiscale.
Si pensi ad esempio al conferimento di azienda seguito dalla cessione totalitaria delle quote o azioni della società assimilata dall’amministrazione finanziaria e dalla giurisprudenza a una cessione di azienda, dal momento che realizzerebbe gli stessi effetti giuridici ed economici di quest’ultima operazione, costituiti dal trasferimento delle attività e delle passività della società[8].
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Altro caso controverso è quello del conferimento di un immobile e del contestuale accollo alla società conferitaria di un debito contratto dal soggetto conferente.
Si tratta di un’operazione già disciplinata dal TUR, l’articolo 50, infatti, prevede che, nel caso del conferimento di immobili, «la base imponibile è costituita dal valore dei beni o diritti conferiti al netto delle passività e degli oneri accollati alle società». Nonostante che l’articolo in commento ammetta esplicitamente questa operazione, l’amministrazione finanziaria e la giurisprudenza hanno sistematicamente disapplicato questa norma[9], ritenendo che la “causa reale” dell’operazione di conferimento fosse in effetti una compravendita dell’immobile, di conseguenza si ha un’imposizione di una doppia compravendita: la prima, con la quale il conferente compra l’immobile e la seconda, con la quale il conferente cede l’immobile alla società conferitaria, in quest’ultimo caso non è ammessa la possibilità di scomputo della passività accollata dalla base imponibile.
Lo scenario sembra essere cambiato con le recenti modifiche introdotte dalla Legge Bilancio 2018, la nuova formulazione dell’art. 20 TUR così recita: «L’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, sulla base degli elementi desumibili dall’atto medesimo, prescindendo da quelli extra-testuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi».
Vengono, quindi, sostituite le parole «degli atti presentati» con la locuzione «dell’atto presentato» e ha aggiunto, dopo la parola «apparente», un importante argine all’interpretazione dell’atto da registrare: la natura dell’atto deve essere determinata solo sulla base degli elementi contenuti nell’atto stesso dovendosi prescindere da elementi e atti ulteriori.
Nella relazione illustrativa che accompagna il disegno di legge, viene, infatti, affermato che: «non rilevano, inoltre, per la corretta tassazione dell’atto, gli interessi oggettivamente e concretamente perseguiti dalle parti nei casi in cui gli stessi potranno condurre ad una assimilazione di fattispecie contrattuali giuridicamente distinte (non potrà, ad esempio, essere assimilata ad una cessione di azienda la cessione totalitaria di quote)».
Risulta evidente dalla lettera della nuova norma che il legislatore abbia avvertito l’esigenza di porre un limite all’attività riqualificatoria perpetrata dall’Ufficio negli ultimi anni il quale non potrebbe fare più affidamento ad elementi extra-testuali nella qualificazione di un atto da sottoporre registrazione.
In buona sostanza, sembra essere recepito il principio in base al quale quando l’ordinamento prevede più forme giuridiche alternative per i risultati pratici perseguibili, l’Amministrazione finanziaria non può sostituire una forma giuridica legittima con un’altra soltanto perché ha un onere fiscale maggiore[10].
Vi sono, tuttavia, due principali criticità connesse alla novella legislativa: 1) i dubbi circa l’applicazione retroattiva delle novità introdotte; 2) l’eventuale rilevanza degli elementi extra-testuali nell’ambito dell’abuso del diritto ex art. 10-bis l. 212/2000.
Per quanto concerne il primo ordine di criticità, occorre rilevare che le novità in discorso sebbene non prevedano espressamente la loro applicazione ad atti antecedenti alla loro entrata in vigore (1° gennaio 2018), in sostanza hanno lo scopo di risolvere i dubbi ermeneutici riguardanti la portata applicativa dell’art. 20 TUR, di conseguenza, valutatane positivamente la valenza interpretativa, è possibile una loro applicazione retroattiva.
Tale valenza interpretativa risulta evidente dalla lettura della relazione illustrativa della l. 205/2017 la quale così recita: «La modifica è volta a dirimere alcuni dubbi interpretativi sorti in merito alla portata applicativa dell’articolo 20 del DPR 26 aprile 1986 n. 131 (…). La norma introdotta è volta, dunque, a definire la portata della previsione di cui all’articolo 20 del TUR, al fine di stabilire che detta disposizione deve essere applicata per individuare la tassazione da riservare al singolo atto presentato per la registrazione, prescindendo da elementi interpretativi esterni all’atto stesso (ad esempio, i comportamenti assunti dalle parti), nonché dalle disposizioni contenute in altri negozi giuridici “collegati” con quello da registrare. Non rilevano, inoltre, per la corretta tassazione dell’atto, gli interessi oggettivamente e concretamente perseguiti dalle parti nei casi in cui gli stessi potranno condurre ad una assimilazione di fattispecie contrattuali giuridicamente distinte».
Questa impostazione è stata, tuttavia, sconfessata dalla recente sentenza della Cassazione n°. 2007 del 2018, la quale afferma la portata innovativa dell’art. 1 comma 87 della l. n. 205/2017; ciò in quanto, secondo i giudici di legittimità, la norma pone dei limiti all’attività di qualificazione giuridica precedentemente non previsti. Conseguentemente, in base a questa ricostruzione interpretativa, gli atti registrati prima del 1° gennaio 2018 continuano a essere tassati in base alla vecchia formulazione dell’art. 20 TUR che permetterebbe all’amministrazione finanziaria di poterli riqualificare facendo riferimento ad elementi extra-testuali e agli interessi realmente perseguiti dalle parti[11].
La natura innovativa delle modifiche introdotte è stata ribadita nelle recenti sentenze della Corte di Cassazione n. 4407 del 23 febbraio 2018 e n. 4589 del 28 febbraio 2018. In particolare i giudici di legittimità negano la portata retroattiva delle novità apportate dalla legge Bilancio 2018 per diverse ragioni: in primis perché non c’è esplicita previsione dell’efficacia retroattiva all’interno della norma stessa; poi in quanto mancano gli «adeguati motivi di interesse generale» che giustificherebbero la retroattività della norma, trattandosi, anzi, di disciplina che non asseconda gli interessi del Fisco e quindi della collettività in generale, nulla rilevando le esigenze di certezza del diritto che, a quanto pare, non sono di interesse per «la collettività in generale» . I giudici di legittimità proseguono sostenendo che il nuovo art. 20 TUR non può ritenersi né che sia portatore di «un’interpretazione più aderente all’originaria volontà del legislatore» né che persegua lo scopo di superare un «dibattito giurisprudenziale irrisolto».
Per quanto riguarda l’«interpretazione più aderente all’originaria volontà del legislatore», la S.C. ribadisce che la norma ha introdotto limiti all’attività di qualificazione giuridica che prima non erano previsti, fermo restando la possibilità di dimostrare l’abuso del diritto ex art. 10-bis dello Statuto del Contribuente, il quale dà rilevanza al collegamento negoziale ma soltanto nell’ambito dell’abuso del diritto, pertanto secondo la Cassazione «non può certo dirsi che la nuova versione dell’art. 20 porti un’interpretazione del vecchio testo che fosse in qualche modo desumibile da quest’ultimo».
Quanto, invece, al «dibattito giurisprudenziale irrisolto» la S.C. non lo ritiene sussistente alla luce del orientamento di legittimità sulla rilevanza qualificatoria anche di elementi extra-testuali e sui collegamenti negoziali riconducibili all’atto da sottoporre a registrazione, che seppur contrastato da gran parte della dottrina e da alcune pronunce di merito, poteva definirsi come consolidato.
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La Suprema Corte, infine, smorza la portata chiarificatrice espressa all’interno relazione illustrativa della Legge Bilancio 2018, sottolineando il dato formale espresso all’art. 1 comma 87 nel quale viene espressamente dichiarato di apportare «modificazioni» all’art. 20 TUR, che in quanto tali hanno portata innovativa.
Dalle decisioni di legittimità citate si discostano due recenti sentenze di merito. La prima in ordine cronologico è quella della CTP di Reggio Emilia (sentenza n. 4 del 31 gennaio 2018) la quale sostiene la natura interpretativa delle modifiche introdotte, poiché: «nel momento in cui il legislatore sceglie una tra le varie, possibili, interpretazioni di una norma, la norma che cristallizza la scelta del legislatore non può che qualificarsi come norma di natura interpretativa al di là del fatto che, formalmente, non sia qualificata come tale».
Per i giudici reggiani non appare ragionevole affermare la natura innovativa della norma per il solo fatto che la stessa abbia apportato delle modificazioni al testo previgente.
Le argomentazioni della CTP di Reggio Emilia appaiono condivisibili, e risultano conformi alla giurisprudenza della Corte Costituzionale la quale qualifica come interpretative «quelle norme obiettivamente dirette a chiarire il senso di norme preesistenti ovvero a escludere o a enucleare uno dei sensi fra quelli ragionevolmente ascrivibili alla norma interpretata». Secondo la Consulta, inoltre, i caratteri dell’interpretazione autentica, quindi, sono desumibili da un rapporto fra norme «tale che il sopravvenire della norma interpretante non fa venir meno la norma interpretata, ma l’una e l’altra si saldano fra loro dando luogo a un precetto normativo unitario»[12].
Alla luce dei principi espressi dal Giudice delle Leggi, risulta necessario un nesso logico-funzionale fra norma interpretante e norma interpretata, nesso che nel caso oggetto di analisi risulta evidente, in quanto, come ha sempre sostenuto la dottrina e parte della giurisprudenza, l’art. 20 TUR (norma interpretata) ha sin da principio fatto riferimento effetti giuridici degli atti sottoposti a registrazione.
La seconda sentenza di merito in argomento è la n. 571 della CTP di Milano del 12 febbraio 2018 nella quale viene condivisa la tesi della Cassazione sulla irretroattività delle modifiche, giungendo tuttavia ad esiti diversi. Secondo la Commissione milanese da questa impostazione interpretativa «non discende, in via diretta ed automatica, la necessità di attribuire alla norma previgente, proprio in considerazione del processo di modificazione cui è stata sottoposta, un contenuto precettivo opposto a quello di nuova introduzione».
Pertanto, in base al principio costituzionale di ragionevolezza, occorre dare un significato al “vecchio” art. 20 TUR, pur nel rispetto degli «ordinari criteri ermeneutici», quanto più aderente alla volontà del legislatore manifestata all’interno della novella legislativa.
La Commissione conclude, quindi, che l’art. 20 ante-2018, sebbene consenta all’amministrazione finanziaria di non accogliere acriticamente la qualificazione prospettata dalle parti, ma nega tuttavia che essa, nell’attività riqualificatoria consentita dalla norma, possa «travalicare lo schema negoziale tipico nel quale l’atto risulta inquadrabile, pena l’artificiosa costruzione di una fattispecie imponibile diversa da quella voluta e comportante differenti effetti giuridici»[13].
Peculiare, infine, è il parere espresso dall’Agenzia delle Entrate in occasione del Telefisco 2018. Secondo l’amministrazione finanziaria, le nuove norme non hanno effetto sugli «avvisi di accertamento già notificati in data antecedenti il 1° gennaio 2018, ancorché non definitivi». Dunque, in base, a quest’ultima interpretazione, sarebbe possibile un’applicazione anticipata delle modifiche introdotte con la legge di Bilancio 2018 per gli avvisi di accertamento relativi ad anni passati ma non ancora notificati.
Il secondo ordine di criticità riguarda, invece, il rapporto fra l’interpretazione ex art. 20 TUR e la disciplina dell’abuso del diritto ex art. 10-bis l. 212/2000. Se da un lato, come si è visto, il solo art. 20 non consente di oltrepassare i limiti dati dagli effetti negoziali dell’atto, l’applicazione dell’art. 10-bis l. 212/2000 potrà essere valutata quale chiave di lettura di eventuali discrepanze tra effetti giuridici ed effetti economici dell’atto da registrare. L’amministrazione finanziaria a questo punto potrà riqualificare una pluralità di atti in un’unica operazione solo nei limiti della disciplina dell’abuso del diritto.
Il principio della prevalenza della sostanza sulla forma, tanto caro alla giurisprudenza di legittimità, viene, quindi, salvaguardato, non attraverso una distorta applicazione dell’art. 20, ma mediante l’applicazione dell’art. 10-bis dello Statuto del Contribuente mercé l’espresso richiamo effettuato all’interno dell’art. 53-bis che impone la prova dell’abuso del diritto aldilà della qualificazione formale dell’atto.
In conclusione, per rispondere al quesito posto in introduzione, la novella legislativa non ha risolto completamente i dubbi legati all’applicazione dell’articolo 20, ciò sia perché non è del tutto chiaro il trattamento fiscale di atti registrati prima del 2018, stanti le diverse interpretazioni fornite da giurisprudenza di legittimità, merito e Agenzia delle Entrate, sia perché la “causa reale” e gli elementi extra-testuali possono tornare in giuoco all’interno della disciplina dell’abuso del diritto.
Occorre, tuttavia, sottolineare che, almeno per gli atti registrati successivamente all’entrata in vigore della riforma, l’amministrazione finanziaria non potrà più sostenere che il contribuente tra due operazione sostanzialmente equiparabili debba necessariamente scegliere quella con un carico fiscale maggiore.
La riforma è infine apprezzabile perché ha ridisegnato l’assetto sottostante l’intera imposta di registro, affermando due principi fondamentali: a) la valenza non elusiva dell’art. 20 TUR che è utilizzato ai soli fini dell’interpretazione dell’atto in sede di registrazione; b) la separata applicazione della disciplina antiabuso ex art. 10-bis l. 212/2000.
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[1] Cfr.: Busani, L’imposta di registro, Milano-Assago, 2009; Falsitta, Manuale di diritto Tributario, Padova, 2016, p. 971 ss.; in giurisprudenza si veda: Cass. 25005/2016; Id. 2054/2017; Id. 11959/1993; Id. 75/1997.
[2] Cfr: Tassani, “Conferimento di azienda e cessione della partecipazione ai fini del registro: l’alba di un revirement giurisprudenziale?”.
[3] In questo senso, Cass., Sez. trib., n. 14900/2001; Id., n. 6835/2013; Id., n. 10273/2007. Così anche l’Agenzia delle entrate nella nt. Dir. Centr. Acc. n. 84127 del 18 maggio 2007 .
[4] Tra le più recenti, si segnalano Cass., Sez. trib., n. 7335 del 28 marzo 2014; Id., n. 25487 del 18 dicembre 2015; Id., n. 25001 dell’11 dicembre 2015; Id., n. 3562/2917, cit. (aventi ad oggetto il caso di conferimento di azienda con cessione di quote); cass. n. 25484 del 18 dicembre 2015 (per l’ipotesi di conferimento di immobili in società con successiva cessione di quote). Nella sentenza n. 9582 dell’11 maggio 2016, la Corte ha utilizzato il criterio della “causa reale” per negare la qualificazione di negozio traslativo (assimilabile alla vendita) di un atto di conferimento di ramo di azienda immobiliare ai fini del godimento di una agevolazione fiscale. Si segnala infine la con la sentenza n. 6758 15 marzo 2017, in cui la S. C. ribadisce la tesi secondo cui l’art. 20, D.p.r. n. 131/1986 (“T.u.r.”) detterebbe una disposizione interpretativa e non una regola antielusiva imponendo “[…] una qualificazione oggettiva degli atti secondo la causa concreta dell’operazione negoziale complessiva[…]”.
[5] Cass., n. 25001/2015.
[6] Nel senso della rilevanza del risultato economico conseguito dal collegamento tra più negozi si veda Cass. 4 maggio 2009, n. 10180; Cass., 19 giugno 2013, n. 15319; Cass. 25 febbraio 2002, n. 2713; Cass. 23 novembre 2001, n. 14900.
[7] Così: Cass., n. 7335/2014; Cass., n. 19752/2013.
[8] Cfr.: Cass. Sent. n. 11873/2017; ID n. 6758/2017 ; Id n. 3562/2017; Id. n. 9582/2016; Id. n. 8542/2016; Id. n. 2636/2016; Id. n. 8655/2015; Id. n. 21770/2014.
Caso simile è quello della riqualificazione di un trasferimento di ramo d’aziende e della vendita con atto separato delle rimanenze in un’unica operazione di cessione d’azienda (Cfr.: Cass. , Sez. trib., Pres. Bruschetta, Est. Tinarelli – Ord. N. 21767 del 22 maggio 2017, dep. Il 20 settembre 2017, nella cui massima: «appare indubbio il le- game funzionale con la cessione di azienda, e dunque l’unicita` dell’intera operazione, dei separati atti di cessione delle rimanenze, escluse originariamente dal contratto di cessione d’azienda e successivamente tutte cedute (in parte con rapporto diretto tra cedente e cessionario, in parte attraverso l’interposizione di altra societa` partecipata e controllata dalla cessionaria), costituendo le stesse “beni a servizio della impresa” (iscritte nello stato patrimoniale) e dunque, a tutti gli effetti, beni appartenenti al complesso aziendale ceduto»).
[9] Cfr.: Sent. Cass. 536/01; Id. n. 16768/02; Id. n. 9541/13; Id. 9580/13; Id. n. 3444/14; Id. n. 23234/15; Id. n. 23239/15; Id. n. 475/18; Id. n. 2007/18
[10] Così: Andreani, Cessioni d’azioni e cessione d’azienda non equiparabili anche per il passato, in IPSOA Quotidano, 2018.
[11] Così Cass. 26 genn. 2018, n°. 2007: «L’art.1, comma 87, lett. a), della legge 27 dicembre 2017, n. 205 (che ha novellato l’art. 20 Dpr 131/1986) non avendo natura interpretativa, ma innovativa, non esplica effetto retroattivo; conseguentemente, gli atti antecedenti alla data di sua entrata in vigore (1^ gennaio 2018) continuano ad essere assoggettati ad imposta di registro secondo la disciplina risultante dalla previgente formulazione dell’art. 20 d.P.R. 131/86. Alla norma non si può riconoscere l’effetto interpretativo di quella previgente poiché essa introduce dei limiti all’attività di riqualificazione giuridica della fattispecie che prima non erano previsti, fermo restando che l’amministrazione finanziaria può dimostrare la sussistenza dell’abuso del diritto previsto dall’ art. 10 bis della legge 212/2000 (introdotto dal D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128), il quale, alla lettera a), attribuisce espressamente rilevanza al collegamento negoziale, ma nel solo ambito, appunto, dell’abuso del diritto e non più in quello della mera riqualificazione giuridica. Ne consegue che la riqualificazione dell’atto da registrare in base al mero contenuto dello stesso senza potere ricorrere ad elementi extratestuali o al collegamento con altri negozi può operare soltanto per gli atti successivi all’entrata in vigore del nuovo art. 20».
[12] Corte Cost. sentenze: n. 132 del 2008; n. 311 del 1995; n. 94 del 1995; n. 397 del 1994; n. 424 del 1993, n. 455 del 1992.
[13] La CTP di Milano accoglie in pieno l’orientamento minoritario della Cassazione espresso nella sentenza n. 2054/2017.
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