- Questioni aperte dall’istituto di nuovo conio e problematiche (vecchie e nuove) sorte dalla sua introduzione
- L’improcedibilità dell’azione penale per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione di cui all’art. 344-bisp.p. Un istituto meramente processuale o misto con effetti sostanziali?
- Declaratoria di improcedibilità dell’azione penale di cui all’art. 344-bisp.p. ed inammissibilità della impugnazione per manifesta infondatezza
- Declaratoria di improcedibilità dell’azione penale di cui all’art. 344-bisp.p. ed art. 129 c.p.p.
Questioni aperte dall’istituto di nuovo conio e problematiche (vecchie e nuove) sorte dalla sua introduzione
Come è noto, la Legge n° 134/2021 ha introdotto, nel nostro codice di procedura penale, un istituto di nuovo conio.
E cioè l’improcedibilità dell’azione penale per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione, prevista dall’art. 344-bis c.p.p.
Tale norma è entrata in vigore dal 19.10.2021.
Dalla sua introduzione (ad oggi) si sono succedute pronunce su questioni processuali aperte da tale istituto sulla cui natura, portata ed estensione, si è scatenato un vivace dibattito, tutt’ora in corso, oltre alle prime pronunce della Corte di Cassazione (che hanno, fino ad ora, rigettato per manifesta infondatezza le questioni di legittimità costituzionale della disciplina transitoria laddove ne esclude l’applicazione retroattiva ai reati commessi prima del 1.1.2020). Il confronto e la discussione su tale istituto è destinato tuttavia a protrarsi ed arricchirsi di nuovi interventi e pronunce.
Si tratta di una previsione ragionevole perché l’istituto della improcedibilità dell’azione penale è un “ibrido” di nuova creazione che determina la non punibilità della persona e evita l’irrogazione di una pena e, quindi, quale norma di favore per l’imputato, non si può fare meno di interrogarsi sui limiti della sua applicazione ed estensione ad una fase nevralgica del processo penale quale quella della impugnazione che postula, quale prima cosa, la individuazione della sua precisa natura, processuale o con effetti sostanziali, e dei suoi rapporti con la prescrizione, con l’inammissibilità per manifesta infondatezza del gravame che la Corte di merito o quella di Cassazione abbia ad esempio rilevato ed anche, necessariamente, con l’art. 129 c.p.p. e le statuizioni civilistiche contenute nella sentenza oggetto del gravame.
Un bel numero di questioni, insomma, di non piana ed agevole soluzione sulle quali ragionevolmente si discuterà per anni, con esiti forse non scontati e sempre ragionevoli nell’ottica di assicurare all’imputato la ragionevole durata di una fase essenziale e cruciale del processo penale quale il giudizio di impugnazione; obiettivo che, pur avuto di mira dal Legislatore, rischia di perdersi sullo sfondo nel mare magnum delle questioni agitate e poste dalla nuova norma. L’analisi non può che prendere le mosse da una riflessione sulla ratio, nonché sulla natura, dell’istituto della improcedibilità di cui all’art. 344-bis c.p.p., per poi provare a trarne delle conclusioni quanto più possibili ragionevoli.
L’improcedibilità dell’azione penale per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione di cui all’art. 344-bis c.p.p. Un istituto meramente processuale o misto con effetti sostanziali?
L’art. 344-bis c.p.p. ha introdotto, nel Titolo III del Codice di Procedura Penale CONDIZIONI DI PROCEDIBILITA’, l’improcedibilità dell’azione penale per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione.
La nuova norma prevede che vi sia un termine di durata massima del giudizio di appello e di quello di cassazione (fissato in anni 2 e rispettivamente in anni 1, quale regola generale prevista dall’art. 344-bis c.p.p.) entro il quale lo stesso deve essere definito.
La mancata definizione del giudizio di impugnazione penale entro tale termine produce, come conseguenza, l’estinzione del rapporto processuale penalistico. Il rapporto processuale si chiude così con una sentenza che, accertata la violazione del termine di durata massima del giudizio di impugnazione, dichiara l’improcedibilità dell’azione penale.
La ratio della introduzione della norma è, evidentemente, quella di assicurare la ragionevole durata del giudizio di impugnazione, nel rispetto del principio stabilito dall’art. 111 comma 2 Cost. e della stessa equità del giudizio (potendo assai difficilmente considerarsi equo un processo il cui giudizio di impugnazione, volto cioè alla revisione critica della tenuta e quindi della correttezza della pronuncia adottata in primo grado tanto più se di condanna, abbia una durata eccessiva). La necessità di assicurare il rispetto di tale basilare principio costituzionale anche nella fase di gravame ha indotto il Legislatore a prevedere un meccanismo processuale del tutto analogo, quanto ai suoi effetti concreti e pratici, a quello della prescrizione (destinata ad operare in relazione, oggi, soltanto al primo grado di giudizio, in relazione ai reati commessi prima del 1.1.2020, in considerazione della stabilizzazione della c.d. regola Bonafede di cessazione del corso della prescrizione con l’emissione della sentenza che definisce il giudizio di prime cure).
Un meccanismo che non riguarda però il c.d. diritto all’oblio (e cioè il diritto dell’imputato a non essere sottoposto a giudizio o condannato dopo il decorso di un lasso di tempo tale da determinare il ragionevole affidamento sulla cessazione e la rinuncia dello Stato all’esercizio della potestà punitiva per il reato da lui commesso, e che, conseguentemente, determina l’estinzione del reato per il mancato rispetto del termine di cui all’art. 157 c.p.), ma che, investe, invece, direttamente, l’azione penale. E ne preclude il perdurante esercizio impedendo l’emissione di una sentenza di merito sull’interposto gravame.
Si tratta, in tutta evidenza, di un meccanismo a orologeria, che determina, con il mero decorso del termine di durata massima, l’estinzione del rapporto processuale penalistico e l’impossibilità di proseguire con l’adozione di una pronuncia di merito.
Insomma, l’improcedibilità di cui all’art. 344-bis c.p.p. ha l’effetto di determinare una chiusura del giudizio di impugnazione.
Il che significa impedire una pronuncia ed una decisione nel merito del gravame.
Ed anche (specialmente quando in primo grado è stata emessa una condanna ed applicata una pena per il reato ascritto all’imputazione) escludere la punibilità della persona ed impedire che venga assoggetta alla pena prevista.
Già queste considerazioni preliminari consentono di intravedere, e rendersi conto, della natura “ibrida” della improcedibilità.
Se è pur vero che l’istituto sembra avere natura processuale (come confermato dal suo inserimento nel codice di procedura penale tra le condizioni di procedibilità e dal fatto che esso riguarda l’azione penale), la conclusione che la giurisprudenza ne ha tratto della sua natura esclusivamente processuale, e quindi di soggezione al principio del tempus regit actum – con conseguente esclusione retroattiva della sua applicazione quale norma più favorevole ex art. 2 comma 4 c.p. anche ai reati commessi anteriormente alla data del 1.1.2020 – non risulta, ad avviso dello scrivente, del tutto convincente. O quantomeno non lo è completamente.
Tale tesi non tiene infatti debitamente conto del fatto che l’improcedibilità dell’azione penale ha anche degli effetti sostanziali.
Infatti, come si è visto, la sua applicazione – mediante il meccanismo processuale che sanziona la violazione del termine massimo di durata del giudizio di impugnazione con l’improcedibilità dell’azione penale e, quindi, con la chiusura del giudizio di impugnazione con un sostanziale nulla di fatto – determina, quale necessaria conseguenza, che viene preclusa una pronuncia di merito sul gravame.
E che quindi l’imputato evita, con la declaratoria di improcedibilità dell’azione penale, una condanna e l’applicazione di una pena.
Si tratta di conseguenze – quali la non punibilità della persona e la mancata applicazione di una sanzione criminale – di non secondaria importanza e rilievo che il Legislatore ha avuto di mira o comunque si deve essere rappresentato quando ha introdotto l’art. 344-bis c.p.p.
Dal momento, dunque, che tale istituto determina la non punibilità di una persona sottoposta a giudizio ed evita che la stessa venga assoggettata ad una pena – specialmente quando in primo grado vi era stata, invece ed al contrario, una dichiarazione ed affermazione di penale responsabilità dell’imputato e la applicazione ai danni dello stesso di una sanzione per il reato ascrittogli – incidendo indirettamente anche sul rapporto sostanziale e producendo effetti favorevoli sulla posizione giuridica dell’imputato, non si comprende la ragione per cui l’art. 344-bis c.p.p. non possa applicarsi anche ai reati commessi prima del 01.01.2020 ex art. 2 comma 4 c.p. trattandosi di norma improntata ad un maggior favore per il reo.
La conclusione che l’improcedibilità dell’azione penale non sia un’istituto di natura esclusivamente processuale, ma che invece sia misto (al pari della querela), quanto ai suoi effetti diretti e concreti sul rapporto sostanziale nella misura in cui evita/preclude la punibilità dell’imputato per il reato a lui ascritto e ne evita l’assoggettamento ad una pena o ne impedisce la applicazione, appare, dunque, maggiormente convincente ed anche aderente al dato testuale.
L’art. 344-bis c.p.p. infatti – non a caso, ad avviso dello scrivente – sanziona la mancata definizione del giudizio con l’improcedibilità dell’azione penale.
Ed anche l’istituto della querela (le cui disposizioni sono in parte contenute nel codice penale ed in parte in quello di procedura) riguarda l’azione penale e la sua mancanza, iniziale o sopravvenuta, determina l’improcedibilità dell’azione penale, con la conseguente impossibilità di iniziarla o di proseguirla.
E la declaratoria di estinzione del reato.
Non può negarsi un parallelismo tra i due istituti (entrambi di natura processuale, anche se non esclusivamente tali, e che sono inseriti, non a caso, nello stesso Titolo III) in quanto essi, pur incidendo formalmente sulla procedibilità dell’azione penale, determinano l’estinzione del reato (quanto alla querela) e l’impossibilità di proseguire il processo penale evitando così l’assoggettamento ad una pena e ad una condanna dell’imputato (quanto all’art. 344-bis c.p.p.), producendo così, quest’ultima norma, attraverso il meccanismo processuale che sanziona con la chiusura del processo la violazione del termine massimo di durata del giudizio di impugnazione, lo stesso effetto sostanziale e concreto di evitare che il processo si chiuda con l’applicazione o la conferma di una pena e che quindi l’imputato venga dichiarato responsabile del reato a lui ascritto.
Significativa, in tal caso, è la previsione contenuta al comma 7, secondo cui la declaratoria di improcedibilità di cui all’art. 344-bis c.p.p. (destinata ad applicarsi ai giudizi di impugnazione, quello di appello e di cassazione, ed anche al giudizio di rinvio da annullamento da parte della Suprema Corte di cui all’art. 627 c.p.p.): “…non ha luogo quando l’imputato chiede la prosecuzione del processo”.
Al di là della non chiarezza e della mancanza di precisione della formula usata e della sua non perfetta sovrapponibilità con quella usata per la prescrizione (che richiede, per la sua paralisi, una rinunzia espressa da parte dell’imputato o da parte di procuratore speciale), appare chiaro che la declaratoria di improcedibilità dell’azione penale costituisce un diritto personalissimo dell’imputato – come si desume dal fatto che essa è destinata a non operare soltanto se lui chiede che, nonostante la violazione del termine di durata massima del giudizio di impugnazione, si proceda oltre nel processo e si arrivi quindi ad una decisione nel merito, altrimenti preclusa – del quale soltanto il prevenuto può disporre e che produce indubbi effetti favorevoli per la sua posizione giuridica.
Non vi sono dunque ragioni, ad avviso dello scrivente, per impedire che l’art. 344-bis c.p.p. possa trovare applicazione retroattiva, quale norma più favorevole quanto agli effetti positivi che produce dal punto di vista sostanziale sulla posizione giuridica dell’imputato (evitandone la condanna o comunque impedendone la punibilità per il reato ascrittogli), anche ai reati commessi anteriormente al 1.1.2020.
Neppure convince (almeno non del tutto e fino in fondo) l’argomento secondo cui l’applicazione retroattiva dell’art. 344-bis c.p. non sarebbe possibile perché comporterebbe la indebita duplicazione e sovrapposizione dell’ambito di operatività di cause di estinzione del reato diverse, quali la prescrizione e di quella di nuovo conio della improcedibilità, anche per reati anteriori al 1.1.2020.
Il che condurrebbe a porre nel nulla con l’applicazione retroattiva dell’art. 344-bis c.p.p. un gran numero di processi per cui il termine di prescrizione non è ancora maturato e non maturerà se non dopo molto tempo.
La tesi – pur essendo suggestiva – non risulta (ad avviso di chi scrive) fondata.
Sostenere che vi sia una completa sovrapposizione e coincidenza tra l’operatività dei due istituti, prescrizione e improcedibilità, non è del tutto esatto.
L’improcedibilità infatti potrà applicarsi soltanto quando il termine massimo di prescrizione del reato (specialmente per i reati commessi anteriormente al 1.1.2020, mentre per i reati successivi la questione neanche si pone perché, nella maggior parte o quasi totalità dei casi anche in considerazione della lunghezza dei termini e della cessazione del corso della prescrizione con la sentenza di primo grado, la prescrizione non verrà mai applicata) non è spirato.
E’ del tutto evidente, del resto, che l’improcedibilità dell’azione penale per superamento del termine di durata massima della impugnazione potrà venire in rilievo soltanto se il reato non è stato, precedentemente, dichiarato prescritto ex art. 157 c.p.
Senza contare che l’improcedibilità dell’azione penale riguarda il giudizio di impugnazione, di appello o di cassazione, ed è dunque destinata ad applicarsi soltanto in tale ambito (con esclusione della fase del primo grado di giudizio).
Ne consegue che la possibilità di un incrocio o di una sovrapposizione tra i due istituti è eventualità più teorica che pratica in quanto se un reato commesso prima del 1.1.2020 arriva a prescriversi nelle more dell’appello (o, a maggior ragione, si è già prescritto nel primo grado di giudizio) non si potrà, poi, dichiarare l’improcedibilità dell’azione penale.
E nel caso in cui nel giudizio di impugnazione maturi il termine di prescrizione del reato (sempre per reati anteriori al 1.1.2020, si intende), sarà tale causa di estinzione ad operare ed ad essere applicata essendo evidente che l’irragionevolezza della durata del processo riguarda, in simili ipotesi, la fase del primo grado di giudizio, e non tanto e in particolare, quella del giudizio di impugnazione che vi viene ad incidere relativamente (e per cui dunque il relativo termine di durata massima potrebbe anche essere stato rispettato).
In caso di concorrenza, poi, delle due cause di proscioglimento, verrà comunque in rilievo prima l’estinzione del reato per prescrizione della improcedibilità dell’azione penale; la declaratoria di improcedibilità di cui all’art. 344-bis c.p.p., in quanto relativa al grado successivo di gravame, potrebbe essere dichiarata del resto soltanto nel caso in cui manchi una richiesta di proseguire il giudizio da parte dell’imputato (una rinunzia alla prescrizione ne impedirebbe, ad avviso dello scrivente, l’applicazione in quanto conterrebbe, al suo interno, l’espressione e la manifestazione di volontà dell’imputato di proseguire nel processo, nonostante l’eventuale decorso del termine massimo di durata del giudizio di gravame, al fine di ottenere una sentenza di merito sull’impugnazione, senza che dunque abbia rilievo, a quel punto, la violazione del termine di durata massima del processo di appello o di legittimità).
Se invece vi fosse, nel giudizio di gravame, una richiesta dell’imputato di proseguire nel processo e coerentemente venisse dallo stesso effettuata una rinunzia alla prescrizione la Corte di Appello dovrebbe decidere, giocoforza, nel merito del gravame e una declaratoria di improcedibilità di cui all’art. 344-bis c.p.p. non potrebbe mai avere luogo.
Non potrebbe dunque mai, nel caso di cui sopra, dichiararsi l’estinzione del rapporto processuale per violazione del termine massimo di durata del giudizio di impugnazione perché tanto la richiesta del prevenuto di proseguire nel processo quanto la operata rinunzia alla prescrizione impedirebbero la declaratoria di improcedibilità, che non potrebbe avere mai luogo in considerazione della indifferenza della durata del giudizio (di quello di impugnazione, nella fase di merito di appello oppure di legittimità) per avere l’imputato derogato al suo diritto costituzionale alla ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 comma 2 Cost. con la sua dichiarazione espressa di rinuncia alla prescrizione e con la sua mancata richiesta di proseguire oltre nel processo.
Chiariti tali aspetti controversi, si osserva che la questione della improcedibilità è rilevabile anche di ufficio, non essendo necessario, ai fini della emissione della relativa declaratoria, che vi sia una eccezione sollevata dalla parte interessata ad una simile pronuncia (che, va ribadito, produce effetti favorevoli per la posizione dell’imputato, per le ragioni sopra indicate).
La mancata deduzione della questione della improcedibilità da parte della difesa dell’imputato non comporta, dunque, la sanatoria del vizio di violazione del termine di durata massima e non preclude la possibilità di proporla nell’eventuale ricorso per Cassazione.
Qualora, invece, l’imputato abbia dichiarato di voler proseguire nel processo (tale manifestazione di volontà deve essere espressa e risultare dagli atti in modo inequivoco), una simile dichiarazione comporta, evidentemente, la rinunzia e l’impossibilità di far valere la questione del superamento del termine di durata massima del giudizio di impugnazione nel successivo ed eventuale grado di giudizio che la parte intenda promuovere.
Inoltre, va osservato, per completezza, che il termine di durata massima del giudizio stabilito dal comma 1 e 2 dell’art. 344-bis c.p.p. non è fisso.
Esso – oltre a decorrere dal novantesimo giorno successivo alla scadenza del termine previsto per il deposito delle motivazioni della sentenza, suscettibile di eventuale proroga (previsione ragionevole in quanto il giudizio di impugnazione è volto alla revisione critica di una precedente pronuncia che deve quindi esistere ed essere stata impugnata, logicamente, prima ancora che si possa far partire e decorrere qualunque termine relativo ad un giudizio di impugnazione e che si possa coerentemente verificare il rispetto del requisito della ragionevole durata del giudizio di gravame) – è sospeso nel caso di irreperibilità dell’imputato ex art. 159 c.p.p. occorrendo effettuare ricerche e, nel giudizio di appello, quando si debba rinnovare l’istruttoria dibattimentale.
Si tratta di una previsione assolutamente ragionevole in quanto la necessità di espletare ricerche ai fini del rintraccio di uno o più imputati (meno ragionevole appare la estensione della sospensione del termine di durata massima del giudizio anche per tutti gli altri imputati, anche di quelli che siano stati invece reperibili e nei confronti del quale il rapporto processuale si sia già potuto correttamente e ritualmente instaurato con la loro vocatio in ius) per poter notificare il decreto di citazione a giudizio in grado di appello all’imputato e renderlo edotto della pendenza del giudizio in grado di appello legittima una proroga del termine di durata massima del giudizio di impugnazione il cui dies a quo non può che ritenersi quello in cui l’imputato viene raggiunto dalla valida notifica dell’atto processuale di citazione in giudizio (non potendosi ritenere costituito ancora il rapporto processuale in appello, e quindi parlarsi di rispetto di qualsiasi termine di durata massima, se l’imputato non riceve alcun atto processuale per irreperibilità e non raggiunge un grado di conoscenza effettiva del processo che consenta di ritenere validamente costituito il rapporto processuale e il contraddittorio nel grado di appello).
Altrettanto ragionevole appare la previsione della sospensione del termine di durata massima del giudizio di impugnazione nel caso di rinnovazione istruttoria in appello (istituto assolutamente eccezionale, in considerazione del principio della completezza dell’istruttoria dibattimentale di primo grado) in quanto la necessità di espletare una rinnovazione parziale dell’istruttoria dibattimentale in appello (ad esempio, con il riascolto di alcuni testimoni della cui deposizione la parte impugnante deduca nel gravame l’erronea valutazione o il travisamento, in caso di overturning, oppure con l’espletamento di una C.T.U. o di un supplemento di indagine peritale su una questione scientifica in cui vi sia stato contrasto tra il consulente tecnico di parte del P.M. e quello della difesa e che non sia possibile dirimere diversamente) implica un fisiologico prolungamento della durata del giudizio di impugnazione della cui violazione nessuno può dolersi nei limiti, ovviamente, in cui la prosecuzione del processo avvenga soltanto per il tempo strettamente necessario all’espletamento degli incombenti necessari a consentire l’emissione di una sentenza nel merito sul gravame e la definizione del grado di appello (che altrimenti non potrebbe avvenire, perché, nelle ipotesi sopra date, evidentemente la Corte di Appello non è in grado assolutamente di decidere allo stato degli atti, e, quindi, deve essere messa in condizione di acquisire gli elementi necessari mediante il supplemento di istruttoria che ritenga indispensabile e necessaria a tali fini).
Il Legislatore, consapevole di tale necessità (che venga quanto più possibile il tempo necessario, eccedente quello di durata massima, laddove occorra espletare una rinnovazione istruttoria in appello), ha infatti previsto che il periodo di sospensione tra un’udienza e quella successiva non possa comunque eccedere sessanta giorni.
Ciò in modo che si accellerino, quanto più possibile, le operazioni e che si possa arrivare prima possibile a sentenza da parte della Corte di Appello.
Quel che manca, in questa previsione, però è la sanzione processuale.
Se, infatti, la Corte di Appello fissa, nell’ambito della disposta rinnovazione istruttoria, un calendario di udienze senza rispettare il suddetto termine, l’unica conseguenza pare essere – dalla lettura della norma – che la sospensione del termine di durata massima opera soltanto per 60 giorni mentre il periodo eccedente deve essere calcolato, ai fini della verifica del rispetto del termine di durata massima del giudizio, e può, altrettanto legittimamente, incidere sull’eventuale superamento dello stesso dando luogo alla declaratoria di improcedibilità di cui all’art. 344-bis c.p.p.
Prima di passare alle altre questioni poste dalla nuova norma che ancora rimangono da trattare (e che, nell’ambito della presente esposizione, difficilmente si riuscirà ad esaminare funditus, ma solo a sfiorare ed accennare), occorre adesso esaminare la tematica relativa alla proroga del termine di durata massima del giudizio di impugnazione disposta dal giudice con ordinanza motivata ricorribile per Cassazione.
Come abbiamo già detto, il termine di durata massima del giudizio di impugnazione, per come è stato stabilito al comma 1 e 2 dell’art. 344-bis c.p.p., non è fisso ed inderogabile.
Esso ammette delle sospensioni (per l’espletamento delle ricerche ex art. 159 c.p.p. o per la rinnovazione della istruttoria).
E può anche essere prorogato.
La possibilità di una proroga del termine di durata massima del giudizio di impugnazione, nell’ottica di assicurare la ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.), dovrebbe essere – ad avviso dello scrivente – del tutto eccezionale ed essere tassativamente e specificamente regolata dalla legge processuale quanto ai suoi presupposti in fatto ed in diritto ed ai suoi limiti, al fine di evitare che venga attribuita un’eccessiva discrezionalità al giudicante suscettibile di sconfinare facilmente e tradursi, quando viene esercitata al di fuori di precisi parametri e criteri, in potenziali arbitri o abusi.
Se infatti appare ragionevole consentire la proroga del termine di durata massima del giudizio di impugnazione quando si procede per delitti gravissimi che generano un elevato allarme sociale oppure che sono espressivi di una accentuata pericolosità sociale del loro autore (come, ad esempio, i delitti con finalità di terrorismo o di eversione, l’associazione a delinquere di stampo mafioso, oppure quella finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti), maggiori perplessità suscita la previsione della possibilità di una proroga nel caso previsto dall’art. 344-bis comma 4 prima parte c.p.p. e cioè: “quando il giudizio di impugnazione è particolarmente complesso, in ragione del numero delle parti o delle imputazioni o del numero o delle complessità delle questioni di fatto o di diritto da trattare”.
I parametri stabiliti, per legittimare una proroga del termine massimo di durata massima del giudizio di impugnazione, sono del tutto vaghi ed imprecisi, nel loro contenuto, incorrendo la previsione normativa in un’evidente deficit di tassatività e determinatezza.
Che cosa significa che un giudizio di impugnazione è particolarmente complesso in ragione del numero delle parti?
Quante debbono essere, di preciso, le parti processuali (come numero) per legittimare una proroga?
E’ sufficiente per una proroga che siano 7 o 8 o devono essere più di 10?
La norma non lo chiarisce e lascia spazio ad un intervento che più che interpretativo non può che essere creativo e riempitivo della lacuna normativa – e quindi al di là dei suoi poteri e compiti, limitati alla applicazione della legge – da parte del Giudice, che dunque può concedere la proroga senza che sia consentito disporre di parametri obiettivi e certi per verificare la correttezza dell’esercizio del potere discrezionale sul punto e quindi la legittimità del prolungamento della durata del giudizio di impugnazione oltre un termine massimo che sia già stato superato.
Stessa vaghezza affligge il parametro del numero delle imputazioni.
Quante devono essere, di preciso, per rendere particolarmente complesso (anche questa formula significa poco o nulla) il giudizio di impugnazione?
La norma non lo dice e non lo chiarisce, a priori, ed, avviso di chi scrive, avrebbe dovuto farlo, in modo da consentire un’obiettiva verifica sulla legittimità della proroga del termine che sia stata disposta con conseguente vanificazione di qualsiasi possibilità di controllo successivo sul corretto esercizio di quello che più che essere un potere discrezionale appare una delega in bianco al giudice, dallo stesso riempibile a piacere.
Anche il riferimento effettuato al numero o alle complessità delle questioni di fatto o di diritto da trattare incontra altrettanti, ed evidenti, limiti descrittivi che potrebbero portare ad un abuso dello strumento della proroga, dilatando irragionevolmente la durata massima del giudizio di impugnazione e senza la possibilità di un effettivo e concreto vaglio successivo della legittimità della proroga che sia stata disposta.
A quest’ultimo proposito (la possibilità di ricorrere per Cassazione contro l’ordinanza motivata di proroga nel termine di 5 giorni, il cui rispetto è previsto a pena di inammissibilità) va osservato che si tratta di un rimedio del tutto insufficiente ed incongruo almeno per come è stato concepito.
Infatti, essendo così vaghi ed astratti i criteri che legittimano la proroga (al pari, e forse di più, dei parametri e criteri di cui all’art. 133 c.p.), nel ricorso per Cassazione non si potrà che finire per censurare la valutazione, necessariamente di merito, data dal giudice sulla particolare complessità del giudizio di impugnazione desumibile dal numero delle parti, dalla complessità delle questioni in fatto o in diritto, dal numero delle imputazioni, il che è, notoriamente, operazione preclusa nel giudizio di legittimità.
Ciò non potrà – ad avviso dello scrivente – che determinare una gran mole di dichiarazioni di inammissibilità da parte della Suprema Corte, laddove le pronunce di accoglimento saranno limitate ai casi (pochi, in percentuale) di totale assenza di motivazione o di sua manifesta contraddittorietà o illogicità.
Ne consegue che il rimedio concepito contro un potenziale abuso dello strumento della proroga è strutturalmente inefficace ed inidoneo (anche perché finirà per ingolfare ulteriormente il giudice di legittimità di ricorsi e lo chiamerà, alla fine fine, ad esprimere valutazioni e giudizi di merito, sulla particolare complessità del giudizio di impugnazione, che sono preclusi al massimo organo con funzione nomofilattica e che non rientrano nella sua natura) a consentire una seria ed obiettiva verifica del corretto esercizio del potere discrezionale della proroga del termine di durata massima del giudizio di impugnazione. Ciò posto, occorre affrontare adesso la questione del rapporto e della interazione della causa di improcedibilità di cui all’art. 344-bis c.p.p. con le altre cause estintive – diverse dalla prescrizione – che possano maturare o sorgere nel giudizio di impugnazione introdotto con appello o con ricorso per cassazione.
Declaratoria di improcedibilità dell’azione penale di cui all’art. 344-bis c.p.p. ed inammissibilità della impugnazione per manifesta infondatezza
Una questione che si pone – processuale, ma che comporta conseguenze pratiche rilevanti – è se la declaratoria di improcedibilità di cui all’art. 344-bis c.p.p. possa avere luogo in presenza di una impugnazione ritenuta inammissibile per manifesta infondatezza.
Ad eccezione infatti dei casi di inammissibilità per tardività della impugnazione (che non consentono di ritenere correttamente e validamente instaurato il rapporto processuale e precludono l’operatività di cause di estinzione del reato nel giudizio di gravame), viene da chiedersi se la violazione del termine di durata massima di cui all’art. 344-bis c.p.p. – rilevata nel giudizio di legittimità ad istanza di parte o di ufficio – possa dar luogo ad una declaratoria di improcedibilità pure in presenza di ricorso inammissibile per manifesta infondatezza.
La questione è di non poco momento, posto che la categoria della inammissibilità per manifesta infondatezza (non prevista dal codice, che contempla la sola inammissibilità c.d. semplice, ma creata giurisprudenzialmente) coinvolge un gran numero ed una percentuale molto grande dei ricorsi devoluti alla cognizione della Corte di Cassazione.
Prevedere che la violazione del termine di durata massima del giudizio di impugnazione, rilevata nel giudizio di legittimità e alla cui devoluzione la parte contro-interessata non abbia inteso rinunziare chiedendo la prosecuzione del processo, possa essere dichiarata anche quando il ricorso – cioè l’atto introduttivo del giudizio di gravame – sia inammissibile perché manifestamente infondato significherebbe estendere, di molto, di fatto l’area della non punibilità ed evitare l’assoggettamento dell’imputato ad una pena/sanzione per il reato a lui ascritto al capo di imputazione che pure gli sia stata applicata nei precedenti gradi di merito oppure anche soltanto in quello di appello.
Se si opta per la tesi della natura squisitamente ed esclusivamente processuale dell’istituto, si dovrebbe rispondere negativamente al quesito, in quanto l’inammissibilità originaria dell’impugnazione per manifesta infondatezza – non consentendo la valida instaurazione del rapporto processuale nel giudizio di gravame – impedisce di rilevare e dichiarare l’improcedibilità di cui all’art. 344-bis c.p.p.
Tale soluzione appare, ad avviso di chi scrive, non del tutto condivisibile.
Così interpretando la nuova norma, infatti, si finirebbe per negare l’applicazione ed operatività di una disposizione, improntata ad un maggior favore per l’imputato, che ha (come si è visto) indubbi riflessi ed effetti sostanziali positivi sulla posizione giuridica dell’imputato nella misura in cui comporta la non punibilità di una persona ed impedisce una condanna e l’applicazione di una pena per il reato contestato al prevenuto, anche laddove egli abbia interesse ed il diritto ad invocarne l’applicazione per la violazione del termine di durata massima del giudizio di impugnazione di legittimità ed non abbia inteso abdicare/rinunciare al proprio diritto costituzionale ad un processo di impugnazione di durata ragionevole.
Queste considerazioni (unitamente alla natura non squisitamente processuale, ma mista, quanto ai suoi effetti sostanziali, dell’istituto della improcedibilità) inducono a ritenere che la declaratoria di improcedibilità di cui all’art. 344-bis c.p.p. possa essere adottata nel giudizio di legittimità anche in presenza di un ricorso inammissibile per manifesta infondatezza, purché non tardivo.
Ciò analogamente a quanto avviene per la remissione di querela e la declaratoria di estinzione ad essa conseguente che comporta l’annullamento, senza rinvio, della sentenza impugnata anche in presenza di ricorso inammissibile, purché esso risulti tempestivamente proposto.
Declaratoria di improcedibilità dell’azione penale di cui all’art. 344-bis c.p.p. ed art. 129 c.p.p.
Altra questione è quella dei rapporti tra l’istituto della improcedibilità di cui all’art. 344-bis c.p.p. e il disposto dell’art. 129 c.p.p.
Il problema non si pone tanto per le cause di estinzione del reato che siano maturate nel giudizio di impugnazione (morte dell’imputato, remissione di querela, prescrizione), che debbono essere dichiarate immediatamente e che prevalgono sulla eventuale e successiva rilevazione del superamento del termine di durata massima del giudizio precedendo ed impedendo logicamente così l’adozione di una simile declaratoria, quanto, piuttosto, per i casi di evidenza della prova della innocenza di cui all’art. 129 comma 2 c.p.p.
Per semplificare: che cosa succede quando l’imputato, in assenza di cause estintive del reato, nel giudizio di impugnazione in cui sia stato violato il termine di durata massima del processo, sia evidentemente innocente e tale evidenza risulti dagli atti richiedendosi soltanto una constatazione ed apprezzamento dell’ovvio (senza alcuna analisi e valutazione critica della impugnazione)?
Si deve adottare un proscioglimento nel merito ex art. 129 comma 2 c.p.p., senza dubbio anche più favorevole per l’imputato?
Oppure il superamento del termine di durata massima (in assenza di una richiesta che il giudizio prosegua) impone che venga adottata la declaratoria di improcedibilità di cui all’art. 344-bis c.p.p., con la conseguente chiusura del giudizio, senza che vi sia spazio e modo di una pronuncia nel merito sulla fondatezza o meglio sulla palese insussistenza delle accuse ?
La soluzione preferibile (ed anche maggiormente garantista per l’imputato, la cui innocenza risulti evidente dagli atti in termine di constatazione senza margini di apprezzamento) è che l’art. 129 comma 2 c.p.p. possa e debba operare imponendo il prosciogliendo nel merito dell’imputato anche in caso di violazione del termine di durata massima del giudizio di impugnazione.
Ciò in quanto il proscioglimento ex art. 129 comma 2 c.p.p. è formula più favorevole per il prevenuto la cui adozione comporta oltretutto l’esclusione di qualsivoglia responsabilità nel merito dell’imputato e l’eliminazione di eventuali statuizioni civilistiche che dovessero essere state adottate a suo danno dalla sentenza gravata (a differenza della declaratoria di improcedibilità di cui all’art. 344-bis c.p.p. che, escludendo un proscioglimento di cui all’art. 129 c.p.p. e quindi che ricorra l’evidenza della prova della innocenza dell’imputato, comporta pur sempre l’annullamento con rinvio della sentenza dinanzi al giudice civile che potrà decidere e valutare utilizzando anche le prove assunte nel processo penale).
Ciò premesso, va detto che l’ipotesi di una sovrapposizione o confusione nei rapporti tra l’art. 344-bis c.p.p. e l’art. 129 comma 2 c.p.p. è più teorica che pratica.
Infatti, posto che si può adottare una sentenza di proscioglimento ai sensi dell’art. 129 comma 2 c.p.p. soltanto quando dagli atti emerga con evidenza la prova positiva della innocenza dell’imputato (e quindi non basta che la prova sia carente o contraddittoria) e che tale evidenza deve essere valutata in termini di mero apprezzamento e constatazione, saranno ben pochi i casi in cui vi sia quella evidenza della prova della innocenza che possa legittimare un simile proscioglimento nel merito dalle accuse.
In tutti gli altri casi in cui sia stato violato il termine di durata massima del giudizio di impugnazione, quando la prova piena della evidenza della innocenza dell’imputato non vi sia, non potrà quindi che essere applicato l’art. 344-bis c.p.p. ed essere adottata soltanto tale declaratoria.
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