Impugnazione delle sanzioni disciplinari dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche

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Il percorso da seguire per definire un procedimento disciplinare dei dipendenti delle Amministrazioni pubbliche di cui al d. lgs. 30 marzo 2001, n. 165, risulta piuttosto complesso e risente dei vari interventi legislativi e negoziali, che si sono succeduti su una materia richiedente una normazione snella e di facile applicazione, anziché continue modifiche, soprattutto riguardo ai termini, che hanno generato  confusione e reso  farraginoso l’intero sistema sanzionatorio.

L’esigenza di una  semplificazione si percepisce ancor più se si considera che i soggetti chiamati a dare avvio ad un procedimento disciplinare non sempre hanno una capillare conoscenza della moltitudine di norme da applicare e dei vari pronunciati giurisprudenziali che, a volte, soprattutto quando sono  contrastanti, contribuiscono ad alimentare dubbi e incertezze.

A questo va anche aggiunto che le sanzioni disciplinari non vengono quasi mai accettate, sicchè  la percentuale di impugnazioni è altissima e il conseguente accoglimento piuttosto  consistente.

La possibilità di vedersi annullata una sanzione disciplinare era ancora più elevata allorquando erano chiamati a pronunciarsi sulle varie impugnazioni i Collegi Arbitrali di Disciplina dell’Amministrazione di appartenenza del lavoratore ( di cui all’art. 59 del d.lgs. 29/93), nel cui interno vi erano rappresentanti sindacali.

Questi organismi sono stati soppressi con la riforma  “Brunetta” di cui al d. lgs. 27 ottobre 2009 (art. 73) e una delle cause che ha giustificato questo intervento legislativo va ricercata nell’eccessivo favore delle decisioni nei confronti dei lavoratori.

Principali vizi delle impugnazioni

I principali vizi che determinano l’accoglimento delle impugnazioni sono soprattutto di forma e poche volte di sostanza. Tra i vizi formali ricorrono piuttosto frequentemente il  mancato rispetto dei termini perentori, l’affissione del codice disciplinare, la genericità delle contestazioni di addebiti, ecc.

Sui termini da osservare nel corso dell’intero iter punitivo, che porta all’irrogazione di una sanzione disciplinare, vi è stato sempre molto contenzioso e il legislatore, al fine di abbattere tale criticità, ha, con la riforma  “Madia” (d. lgs. 25 maggio 2017, n.75), stabilito che i termini sono ordinatori, ad eccezione del termine per la contestazione dell’addebito (trenta giorni) e del termine per la conclusione del procedimento (centoventi giorni), entrambi perentori.

Non bisogna credere, però, che tutto sia risolto, perchè il contenzioso inerente ai termini  è ancora significativo, in quanto gli avvocati si attivano per dimostrare che è stato irrimediabilmente leso il diritto di difesa oppure il principio di tempestività.

Per una più esaustiva esposizione di quanto appena detto, si riporta, di seguito, il comma 9-ter dell’articolo 55-bis :

La violazione dei termini e delle disposizioni sul procedimento disciplinare previste dagli articoli da 55 a 55-quater, fatta salva l’eventuale responsabilità del dipendente cui essa sia imputabile, non determina la decadenza dell’azione disciplinare né l’invalidità degli atti e della sanzione irrogata, purché non risulti irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del dipendente, e le modalità di esercizio dell’azione disciplinare, anche in ragione della natura degli accertamenti svolti nel caso concreto, risultino comunque compatibili con il principio di tempestività. Fatto salvo quanto previsto dall’articolo 55-quater, commi 3-bis e 3-ter, sono da considerarsi perentori il termine per la contestazione dell’addebito e il termine per la conclusione del procedimento.”

Come si può rilevare,  i termini infraprocedimentali (esempio: invio degli atti all’Ufficio Procedimenti Disciplinari, ecc.) sono ordinatori, anche se la tempestività dei vari adempimenti va comunque garantita, al fine di evitare responsabilità omissive dei soggetti tenuti a tali incombenze.

Non sono perentori, ma giustamente ordinatori, i termini molto brevi (ad esempio: sospensione dal servizio entro 48 ore)  che il legislatore ha fissato per  il procedimento inerente ai “furbetti del cartellino” e contestualmente si è preoccupato, con l’art. 55-quater, comma 3-bis, del d. lgs. 165/2001, di precisare che “la violazione di tale termine non determina la decadenza dell’azione disciplinare né l’inefficacia della sospensione cautelare, fatta salva l’eventuale responsabilità del dipendente cui essa sia imputabile”.

Tra i vizi sostanziali oggetto di contenzioso figura spesso la violazione del principio di proporzionalità, cioè si ritiene che la sanzione irrogata non sia proporzionata   e, quindi, adeguata  ai fatti che sono stati accertati nel corso del giudizio, sicchè si chiede l’annullamento totale della sanzione o una sanzione più adeguata.

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Il procedimento disciplinare nel pubblico impiego

Come in qualsiasi rapporto di lavoro subordinato, il contratto del dipendente della Pubblica Amministrazione prevede il diritto del datore di lavoro di esercitare un potere disciplinare, di natura sanzionatoria, a fronte di comportamenti del lavoratore che costituiscono inosservanza degli obblighi contrattuali. La sanzione disciplinare non è che l’ultimo atto di una procedura i cui termini e le cui fasi sono scrupolosamente sanciti dalla legge e dai contratti di lavoro. Non si può fare a meno di sottolineare che, nella stragrande maggioranza dei casi, il mancato rispetto della procedura rende nullo tutto l’iter disciplinare. In relazione a quest’ultima situazione, l’Autore ha approfondito il procedimento sanzionatorio partendo dall’esame dei doveri dei dipendenti pubblici – con le relative responsabilità – passando poi ad analizzare le singole sanzioni disciplinari ed il rigido percorso per giungere all’applicazione delle stesse. In questo modo, il testo risulta importante sia per il datore di lavoro, che deve applicare le sanzioni, sia per il dipendente che si trova coinvolto in un procedimento disciplinare, al fine di impostare correttamente la propria difesa. L’opera prende in considerazione le ultime modifiche in materia di procedimento disciplinare, con particolare riferimento alle nuove competenze degli Uffici procedimenti disciplinari, al rapporto tra il procedimento disciplinare e quello penale e alle nuove ipotesi di licenziamento disciplinare, novità tutte previste dal D.Lgs. n. 75/2017, dal D.Lgs. n. 118/2017 e dai Contratti Nazionali recentemente siglati. La modulistica ad uso del Responsabile della struttura e dell’Ufficio procedimenti, disponibile anche online in versione compilabile, completa il volume.   Livio BoieroAttualmente Dirigente regionale, è stato Vice Segretario del Comune di Venaria Reale.

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Potere di rideterminare la sanzione da parte del giudice

Riguardo a quest’ultimo punto può risultare utile far rilevare che, a seguito dell’intervento legislativo della riforma “Madia”, che ha aggiunto all’art. 63 del d. lgs. 165/2001 il comma 2-bis, è stato attribuito al  giudice del lavoro il potere di rideterminare la sanzione disciplinare annullata per difetto di proporzionalità.

In verità tale innovazione inizialmente non era voluta dal legislatore, in quanto nella bozza della riforma Madia, inviata il 28 febbraio 2017 al Consiglio di Stato per il prescritto parere, era previsto che il datore di lavoro, in caso di annullamento, da parte del giudice, della sanzione disciplinare per difetto di proporzionalità, dovesse  riaprire il procedimento disciplinare entro sessanta giorni dal passaggio in giudicato della sentenza  e adeguarsi al giudicato.

Il Consiglio di Stato, con il suo parere dell’11 aprile 2017, ha condiviso la volontà del legislatore di non lasciare impunito il dipendente nei cui confronti è stata annullata la sanzione per sproporzione punitiva, ma ha ritenuto non razionale “prevedere la sostanziale rinnovazione dell’intero procedimento disciplinare laddove il fatto storico della violazione disciplinare risulta definitivamente accertato ed è in gioco solo la misura della sanzione”.

Il Consiglio di Stato ha anche aggiunto che “ tale disposizione si espone al rischio di creare un vulnus al più generale principio del ne bis in idem, peculiare nel diritto punitivo, in cui si iscrive il potere disciplinare, e appare anch’essa in contrasto col principio di perentorietà dei termini del procedimento amministrativo”.

In buona sostanza il Consiglio di Stato, nell’esercizio di un compito istituzionale concernente il proprio parere su un testo legislativo, ha chiesto di evitare lo svolgimento ex novo di un secondo procedimento disciplinare e di affidare direttamente al giudice la possibilità di graduare la sanzione comminandone una più mite.

Il legislatore ha tenuto in debita considerazione il suggerimento e ha integrato l’art. 63 del d.lgs. 165/2001, aggiungendo il seguente comma 2-bis :“Nel caso di annullamento della sanzione disciplinare per difetto di proporzionalità, il giudice può rideterminare la sanzione, in applicazione delle disposizioni normative e contrattuali vigenti, tenendo conto della gravita’ del comportamento e dello specifico interesse pubblico violato.”

La materia delle impugnazioni delle sanzioni disciplinari è stata oggetto anche dell’intervento legislativo qualificato come “collegato lavoro”, che ha eliminato ogni differenza  tra dipendenti privati e dipendenti pubblici privatizzati, per tutto ciò che riguarda le ipotesi conciliative  e il procedimento concernente la tutela giudiziale.

Infatti, secondo quanto previsto dal comma 9 , art. 31, della legge 4 novembre 2010, n. 183 – collegato lavoro -, le disposizioni degli artt. 410, 411, 412, 412-ter e 412-quater del codice di procedura civile si applicano anche alle controversie di cui all’art. 63, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 e  conseguentemente gli articoli 65 e 66 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, sono stati abrogati.

Dopo le varie riforme che hanno riguardato il sistema sanzionatorio e ovviamente anche la parte inerente alla possibilità di tutela del lavoratore interessato da un provvedimento disciplinare, va detto che attualmente è possibile impugnare una sanzione disciplinare mediante :

  • ricorso al giudice ordinario del lavoro preceduto dal tentativo facoltativo di conciliazione previsto dall’art.410 del c.p.c.;
  • procedura di conciliazione e arbitrato prevista dagli artt. 412, 412-ter e 412-quater c.p.c.

Per quanto concerne i tempi per far ricorso al giudice ordinario del lavoro, essi devono essere computati nel termine della prescrizione quinquennale, ad eccezione del licenziamento (sanzione espulsiva), da impugnare nei sessanta giorni.

La presentazione del ricorso non sospende la sanzione inflitta, che potrà essere sospesa soltanto se il lavoratore abbia prodotto istanza cautelare e il giudice ne abbia disposto l’accoglimento.

Per quanto concerne la difesa in giudizio, allorquando trattasi di controversie relative a rapporti di lavoro dei dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni, l’art. 417-bis c.p.c.  ha  stabilito che,  limitatamente al giudizio di 1° grado,  le amministrazioni possono avvalersi dei propri impiegati che, ovviamente, dovranno avere una specifica competenza.

Procedura di conciliazione

Riguardo alla procedura di conciliazione va detto che il tentativo di conciliazione, in precedenza obbligatorio, a seguito dell’intervento legislativo del 2010 (legge  4-11-2010 n. 183 – collegato lavoro), è stato reso facoltativo, perchè si è compreso che le procedure transattive erano pochissime e i tempi processuali si allungavano senza grossi benefici.

Oggi, pertanto, chi, per sua scelta e non più per imposizione normativa, voglia percorrere la strada del tentativo di conciliazione deve produrre formale istanza all’Ispettorato Territoriale del Lavoro.

Siffatta  richiesta interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine  di decadenza.

La richiesta del tentativo di conciliazione, sottoscritta dall’istante, è consegnata o spedita mediante raccomandata con avviso di ricevimento e la relativa copia  deve essere consegnata o spedita – con le stesse modalità – a cura della  parte istante alla controparte.

La richiesta deve precisare:

-nome,cognome e residenza dell’istante e del convenuto;

-il luogo dove è sorto il rapporto ovvero dove si trova l’azienda o sua dipendenza alla quale è addetto il lavoratore o presso la quale egli prestava la sua opera al momento della fine del rapporto;

-il luogo dove devono pervenire alla parte istante le comunicazioni inerenti alla procedura;

-l’esposizione dei fatti e delle ragioni poste a fondamento della pretesa.

Se la controparte intenda accettare la procedura di conciliazione, deve depositare presso la commissione di conciliazione, entro venti giorni dal ricevimento della copia della richiesta, una memoria contenente le difese e le eccezioni in fatto e in diritto, nonché le eventuali domande in via riconvenzionale.

Ove ciò non avvenga, ciascuna delle parti è libera di adire l’autorità giudiziaria.

Entro i dieci giorni successivi al deposito,la commissione fissa la comparizione delle parti per il tentativo di conciliazione, che deve essere tenuto entro i successivi trenta giorni.

Dinanzi alla commissione il lavoratore può farsi assistere anche da un’organizzazione cui aderisce o conferisce mandato.

La conciliazione della lite da parte di chi rappresenta la Pubblica Amministrazione, anche in sede giudiziaria, ai sensi dell’art. 420 c.p.c., commi primo, secondo e terzo, non può dar luogo a responsabilità, salvi i casi di dolo e colpa grave.

L’art. 411 c.p.c. disciplina la fase successiva e stabilisce che, se la conciliazione esperita ai sensi dell’art. 410 c.p.c. vada a buon fine, anche limitatamente a una parte della domanda, debba essere redatto separato processo verbale sottoscritto dalle parti e dai componenti della commissione di conciliazione.

Il giudice, su istanza della parte interessata, lo dichiara esecutivo con decreto.

Se, invece, non si raggiunga l’accordo tra le parti, la commissione di conciliazione deve formulare una proposta per la bonaria definizione della controversia. Qualora la proposta non fosse accettata, se ne redige verbale riassumendo le valutazioni espresse dalle parti.

Delle risultanze della proposta formulata dalla commissione e non accettata senza adeguata motivazione il giudice tiene conto in sede di giudizio.

Da ultimo il legislatore dispone che, se il tentativo di conciliazione si sia svolto in sede sindacale, ad esso non si applicano le disposizioni di cui all’art. 410 c.p.c.

Il processo verbale di avvenuta conciliazione deve essere depositato presso l’Ispettorato Territoriale del Lavoro a cura di una delle due parti o per il tramite di un’associazione sindacale.

Il capo dell’Ispettorato, o un suo delegato, accertatane l’autenticità, deve depositarlo nella Cancelleria del Tribunale nella cui circoscrizione è stato redatto.

Il giudice, su istanza della parte interessata, accertata la regolarità formale del verbale di conciliazione , lo dichiara esecutivo con decreto.

Altre forme di conciliazione introdotte dalla legge 4 novembre 2010, n. 183 – collegato lavoro – sono quelle di cui agli articoli 412-ter c.p.c. e 412-quater c.p.c.

Riguardo all’art. 412-ter c.p.c. è previsto che la conciliazione e l’arbitrato, nelle materie di cui all’art. 409, possono essere svolti presso le sedi sindacali e con le modalità previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative.

L’art. 412-quater , poi, ha fissato altre modalità di conciliazione e arbitrato, stabilendo che, ferma restando la facoltà di ciascuna delle parti di adire l’autorità giudiziaria e di avvalersi delle procedure di conciliazione  e di arbitrato previste dalla legge, le controversie  di cui all’art. 409 c.p.c. possono essere, altresì, proposte innanzi al collegio di conciliazione e arbitrato irrituale.

In conclusione di questo scritto e a completamento di esso si rende necessario richiamare l’attenzione su quanto stabilito dal legislatore con l’articolo 55 , comma 3, del d. lgs. 165/2001, laddove viene sancito che “la contrattazione collettiva non può istituire procedure di impugnazione dei provvedimenti disciplinari”.

Si consente soltanto la facoltà di disciplinare, mediante contratti collettivi, procedure di conciliazione non obbligatorie, al di fuori, però, dei casi per i quali è prevista la sanzione disciplinare del licenziamento.

Per una sintesi di immediata lettura dei vari adempimenti e dei tempi per essi previsti si riporta, di seguito, un prospetto riepilogativo.

 

 

 

 

IMPUGNAZIONE IN SEDE GIUDIZIALE

I tempi per far ricorso al giudice ordinario del lavoro  devono essere  computati nel termine della prescrizione quinquennale, ad eccezione del licenziamento (in quanto trattasi di sanzione espulsiva) da impugnare nei 60 giorni.

La presentazione del ricorso non sospende la sanzione inflitta, che potrà essere sospesa soltanto se il lavoratore abbia prodotto istanza cautelare e il giudice ne abbia disposto l’accoglimento.

 

 

 

 

 

 

TENTATIVO FACOLTATIVO DI CONCILIAZIONE E PROCEDURE ARBITRALI

In alternativa al ricorso dinanzi al giudice ordinario del lavoro, chi, per sua scelta e non più per imposizione normativa,(perchè non più obbligatorio il tentativo di conciliazione), voglia percorrere la strada del  tentativo   di  conciliazione,   deve    produrre       formale   istanza all’ Ispettorato Territoriale del Lavoro.

Tale richiesta interrompe la prescrizione quinquennale del ricorso dinanzi al giudice ordinario del lavoro e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i 20 giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine  di decadenza.

Ne consegue che le sanzioni disciplinari irrogate nei confronti dei pubblici dipendenti possono essere impugnate sia attraverso l’esperimento del tentativo facoltativo di conciliazione di cui agli artt. 410 e 411 c.p.c., sia mediante procedure arbitrali ex artt. 412, 412-ter e 412-quater, ferma restando, comunque, l’esperibilità dell’azione giudiziaria (ricorso al giudice del lavoro) negli ordinari termini prescrizionali.

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Dott. Silvestro Pezzuto

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