Imputato sottoposto a custodia cautelare ed astensione degli avvocati

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L’astensione degli avvocati nei procedimenti e nei processi in relazione ai quali l’imputato si trovi in stato di custodia cautelare non può interferire con la disciplina della libertà personale dell’imputato: così ha sentenziato la Consulta, con sentenza n. 180 del 27 luglio 2018. 

E’ illegittimo costituzionalmente l’art. 2-bis della legge 13 giugno 1990, n. 146 (Norme sull’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e sulla salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati. Istituzione della Commissione di garanzia dell’attuazione della legge), nella parte in cui consente che il codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati – adottato in data 4 aprile 2007 dall’Organismo Unitario dell’Avvocatura (OUA) e da altre associazioni categoriali (UCPI, ANF, AIGA, UNCC), valutato idoneo dalla Commissione di garanzia per lo sciopero nei servizi pubblici essenziali con delibera n. 07/749 del 13 dicembre 2007 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3 del 2008 – nel regolare, all’art. 4, comma 1, lettera b), l’astensione degli avvocati nei procedimenti e nei processi in relazione ai quali l’imputato si trovi in stato di custodia cautelare, interferisca con la disciplina della libertà personale dell’imputato.

Il fatto e le argomentazioni prospettate nell’ordinanza di rimessione

Il Tribunale ordinario di Reggio Emilia, con ordinanza del 23 maggio 2017 (r.o. n. 75 del 2018), sollevava, in riferimento agli artt. 131324277097102 e 111 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2-bis della legge 13 giugno 1990, n. 146 (Norme sull’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e sulla salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati. Istituzione della Commissione di garanzia dell’attuazione della legge), nella parte in cui consente che il codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati (valutato idoneo dalla Commissione di garanzia con delibera n. 07/749 del 13 dicembre 2007, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3 del 2008) stabilisca (art. 4, comma 1, lettera b) che nei procedimenti e nei processi in relazione ai quali l’imputato si trovi in stato di custodia cautelare o di detenzione, analogamente a quanto previsto dall’art. 420-ter, comma 5, del codice di procedura penale, si proceda malgrado l’astensione del difensore solo ove l’imputato lo consenta.

Il rimettente – premesso che innanzi a sé si stava celebrando un processo con centocinquanta imputati per il reato di associazione per delinquere «di stampo ’ndranghetistico» e di molteplici reati fine – riferiva che, all’udienza del 23 maggio tutti i difensori, con il consenso degli imputati in stato di custodia cautelare in carcere, avevano aderito all’astensione proclamata dall’Organismo Unitario dell’Avvocatura (OUA).

Il Tribunale ordinario dava altresì atto di aver – in una precedente analoga occasione – investito la Commissione di garanzia per lo sciopero nei servizi pubblici essenziali (da ora: la Commissione) perché si pronunciasse su una serie di temi; in particolare, se il rinvio dell’udienza – sulla base della previsione del codice di autoregolamentazione che consente agli avvocati di dare corso alla dichiarazione di astensione in un processo con rilevante numero di imputati detenuti (oltre venti), in qualche caso sottoposti al regime di cui all’art. 41-bis della legge 26 aprile 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), là dove gli imputati prestino il consenso all’iniziativa dei propri difensori – presenti profili da sottoporre in via preliminare all’autonoma valutazione della Commissione affinché la stessa possa rivalutare il consenso dato al codice di autoregolamentazione, sulla base degli strumenti e delle forme che alla stessa Commissione sono conferiti dalla legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali.

Il rimettente – dopo aver esaminato la normativa risultante dalla disposizione censurata (art. 2-bis della legge n. 146 del 1990) e dall’art. 4, primo comma, lettera b), del codice di autoregolamentazione – dava poi conto ampiamente della sentenza della Corte di cassazione, sezioni unite penali, 27 marzo 2014 ‒ 29 settembre 2014, n. 40187, che, per un verso, aveva ribadito la valenza cogente erga omnes delle norme del codice di autoregolamentazione aventi forza e valore di normativa secondaria e regolamentare, per altro verso, aveva escluso la configurabilità nell’attuale assetto normativo di un potere giudiziale di bilanciamento tra il diritto all’astensione e gli altri diritti e valori di rilievo costituzionale, essendo tale bilanciamento già stato operato dal legislatore.

Il Tribunale rimettente, dopo aver precisato che la legge, integrata dal codice di autoregolamentazione approvato dalla Commissione, consente ai difensori nei processi penali di astenersi anche in processi con detenuti in custodia cautelare, a meno che gli imputati non chiedano espressamente che si proceda nonostante i difensori abbiano aderito all’astensione collettiva dalle udienze, affermava come la questione di legittimità costituzionale fosse «rilevante in relazione alla decisione che il tribunale deve adottare di disporre il rinvio dell’odierna udienza nella quale tutti i difensori hanno ritualmente dichiarato di aderire all’astensione collettiva proclamata dall’associazione delle Camere penali» e pertanto, in presenza di un’astensione collettiva conforme al codice di autoregolamentazione, il Tribunale, secondo il diritto vivente, non avrebbe avuto «alcuna possibilità di valutare autonomamente la legittimità dell’astensione e di bilanciare il diritto all’astensione con altri beni e valori costituzionalmente rilevanti ma deve disporre il rinvio, nonostante sia evidente il pregiudizio per altri fondamentali diritti della persona e del cittadino imputato, producendo conseguentemente gli effetti che si connettono al rinvio determinato dall’astensione dei difensori».

Il rimettente reputava quindi illegittima la disciplina che era chiamato ad applicare in quanto i valori costituzionali – quali la libertà personale, il diritto di difesa dell’imputato in vinculis, il giusto processo, la garanzia che il processo con imputati detenuti si svolga in tempi compatibili con la presunzione di non colpevolezza e quindi il giusto contemperamento tra esigenze di sicurezza, tempi processuali e tempi della custodia – risultavano essere considerati come subvalenti rispetto al diritto di astensione.

Secondo il Collegio rimettente vi sarebbe stata la violazione dell’art. 13, primo e quinto comma, Cost. in relazione all’art. 27 Cost., nella parte in cui stabilisce l’inviolabilità della libertà personale e la rigorosa definizione per via legislativa dei casi in cui l’imputato deve essere sottoposto a misura di custodia cautelare in carcere durante lo svolgimento del processo stante il fatto che l’imputato non può subire il protrarsi della restrizione della libertà personale per motivi diversi da quelli considerati espressamente dalla legge, con riferimento a quegli essenziali interessi pubblici che giustificano, per l’imputato, presunto non colpevole, il ricorso alla custodia cautelare in carcere.

La presunzione di non colpevolezza, che accompagna l’imputato fino al momento della sentenza definitiva, difatti comporta che non solo i casi di restrizione della libertà per esigenze processuali e di sicurezza nella fase processuale siano tassativamente definiti dalla legge, ma anche che la stessa durata della custodia sia fissata dal legislatore nell’esclusiva considerazione delle esigenze che giustificano un ragionevole contemperamento del diritto di libertà fino a sentenza irrevocabile.

Tal chè la tassatività dei casi di restrizione della libertà personale si estende anche alla durata della stessa, nel senso che le sole ragioni che possono giustificare per i tempi stabiliti dal legislatore la privazione della libertà devono essere espressamente considerate da quest’ultimo.

Sotto altro profilo, rileva sempre il giudice remittente, la disciplina dell’astensione dalle udienze degli avvocati in processi con imputati detenuti confliggerebbe con il quinto comma dell’art. 13 Cost., in relazione al principio di ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.), nonché al principio di subordinazione del giudice alla legge (art. 101 Cost.) giacchè solo il legislatore potrebbe stabilire il tempo massimo assegnato all’autorità giudiziaria per concludere il processo a carico di imputati detenuti avendo costui previsto un termine massimo per la pronuncia di una sentenza irrevocabile con imputato detenuto, contemperando le esigenze cautelari e l’esigenza pubblica di perseguire i reati con il diritto alla libertà personale.

Nei processi con imputati detenuti la custodia cautelare non si possono di conseguenza oltrepassare, in relazione a tutti i gradi di giudizio, i termini di durata complessiva fissati nell’ultimo comma dell’art. 303 cod. proc. pen. e ciò altro che non significa che il rinvio delle udienze nel primo grado di giudizio, a seguito dell’astensione dei difensori nei processi con imputati detenuti, non sarebbe affatto neutro, quanto agli effetti sulla possibilità di definire il giudizio nei diversi gradi entro i termini massimi complessivi, ma finisce con l’erodere il tempo che il legislatore ha ritenuto e assegnato come ragionevole per definire tempestivamente il processo prima della scadenza dell’invalicabile termine cumulativo dei termini massimi di fase.

L’ordinanza di rimessione metteva oltre a ciò in evidenza la torsione che la norma sull’astensione dalle udienze con imputati detenuti produceva sul diritto di difesa in quanto, il far dipendere dall’imputato detenuto la scelta di consentire al proprio difensore se astenersi, o meno, metterebbe sullo stesso piano soggetti che sono su un piano diverso, imponendo all’imputato detenuto, e quindi in condizioni di minorità, una scelta estranea al proprio interesse, che sarebbe quello alla definizione più rapida possibile del processo.

Vi sarebbe stata poi violazione dell’art. 3 Cost. sotto il profilo dell’intrinseca irragionevolezza della previsione normativa che finisce, nel solo caso degli avvocati, con attribuire alla manifestazione di protesta e alla rivendicazione di categoria un peso abnorme e sproporzionato, ben diverso e superiore rispetto a quello di altre categorie di lavoratori autonomi e professionisti.

Ancora sotto il profilo della violazione del principio di eguaglianza, l’ordinanza considerava come la legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali prevedesse una ben più cogente disciplina dello sciopero dei dipendenti del Ministero della giustizia, addetti al servizio di assistenza all’udienza penale dato che le prestazioni che tali dipendenti sono tenuti ad assicurare ai sensi degli artt. 1 e 2 della legge n. 146 del 1990, pur in costanza di astensione, sono sia l’assistenza alle udienze di convalida di arresti e fermi, sia le udienze con imputati detenuti, e anche il codice di autoregolamentazione dello sciopero dei magistrati stabilisce che l’astensione non è consentita nei procedimenti e processi con imputati detenuti.

Un ultimo profilo di intrinseca irragionevolezza della norma impugnata involgeva il fatto che il codice di autoregolamentazione prevede, alla lettera a) dello stesso art. 4, il divieto di astensione degli avvocati nei casi di assistenza al compimento degli atti di perquisizione e sequestro, alle udienze di convalida dell’arresto e del fermo, a quelle afferenti a misure cautelari, agli interrogatori ex art. 294 cod. proc. pen., all’incidente probatorio ad eccezione dei casi in cui non si verta in ipotesi di urgenza, come ad esempio di accertamento peritale complesso, al giudizio direttissimo e al compimento degli atti urgenti di cui all’art. 467 cod. proc. pen. e, le differenze tra gli istituti sopra indicati e i processi con imputati detenuti, non apparivano, ad avviso del Tribunale rimettente, tali da giustificare la disciplina differenziata.

Il medesimo Tribunale ordinario di Reggio Emilia, con successiva ordinanza del 13 giugno 2017 (r.o. n. 76 del 2018), sollevava, in riferimento agli artt. 1, 3, 13, 24, 27, 70, 97, 102 e 111 Cost., questioni di legittimità costituzionale del medesimo art. 2-bis della legge n. 146 del 1990, in termini e per motivi analoghi a quelli espressi nella precedente ordinanza.

Osservava, in particolare, il Tribunale rimettente come l’ulteriore proclamazione dell’astensione collettiva – la quinta in cinque mesi e mezzo – avesse riguardato le udienze dal 12 al 16 giugno 2017, nel cui intervallo cade l’udienza del 13 giugno.

Anche in relazione a tale ordinanza, il rimettente precisava come la questione del citato art. 2-bis della legge n. 146 del 1990 fosse rilevante in relazione alla decisione che il tribunale doveva adottare in ordine al rinvio dell’udienza del 13 giugno e, al riguardo, venivano ribadite le argomentazioni svolte nell’ordinanza r.o. n. 75 del 2018.

Parimenti, il Collegio sottolineava come non si potesse valutare il consenso dell’imputato al prolungamento della privazione della libertà personale oltre il tempo strettamente necessario alla celebrazione del processo visto che i tempi della custodia cautelare non possono essere ricondotti alla logica privatistica del consenso dell’avente diritto, essendo la durata della custodia cautelare regolata da norme imperative di diritto pubblico, rispetto alle quali, secondo i rispettivi codici di autoregolamentazione, non è ammessa alcuna interferenza della volontà dell’imputato.

Le argomentazioni sostenute dalle parti

Con atto del 5 giugno 2018, interveniva nei giudizi di legittimità costituzionale il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che chiedeva alla Corte di dichiarare inammissibili le questioni di costituzionalità sollevate dal Tribunale di Reggio Emilia.

In primo luogo, le questioni proposte sarebbero state inammissibili perché non avrebbero ad oggetto una norma di legge primaria, bensì una disposizione, come l’art. 4, comma 1, lettera b), del codice di autoregolamentazione, a cui la legge n. 146 del 1990 e la giurisprudenza (segnatamente la citata sentenza delle Sezioni unite penali n. 40187 del 2014) attribuiscono natura di fonte subprimaria, sostanzialmente regolamentare.

Le censure del rimettente, infatti, non riguarderebbero tanto l’art. 2-bis della legge n. 146 del 1990, nella parte in cui è rimesso ai codici di autoregolamentazione, valutati idonei, il contemperamento con i diritti della persona costituzionalmente tutelati; bensì si appuntano sulla modalità concreta con cui il codice in questione ha contemperato il diritto del difensore, discendente dalla libertà di associazione ex art. 18 Cost., di aderire a una protesta collettiva e quindi di astenersi dalle udienze, con i diritti fondamentali dell’imputato in stato di detenzione.

Conseguentemente, il giudice stesso avrebbe potuto procedere alla disapplicazione della disciplina di autoregolamentazione per contrasto con la legge n. 146 del 1990 e con i principi costituzionali invocati nell’ordinanza di rimessione.

Nel merito, la difesa dello Stato riteneva come la questione fosse infondata atteso che, ai sensi dell’art. 304, comma 6, cod. proc. pen., il termine di durata massima della custodia cautelare in una determinata fase è sospeso, e da ciò la difesa statale deduceva che ci sarebbe un’adeguata remora a che l’imputato in stato di custodia cautelare accetti l’astensione del proprio difensore posto che la gravità della conseguenza della sospensione del termine richiederebbe che l’interessato manifesti il proprio consenso solo dopo attenta ponderazione.

Con atti depositati in data 4 e 5 giugno 2018, si sono costituiti in entrambi i giudizi di legittimità costituzionale alcuni imputati nel giudizio a quo (V.P., P.R., G.B. e M.V.).

La difesa delle parti private sosteneva come le questioni di costituzionalità sollevate dal Tribunale di Reggio Emilia fossero inammissibili in quanto le censure si dirigevano direttamente nei confronti della disciplina in concreto adottata dal codice di autoregolamentazione, il quale è un atto di normazione secondaria.

Il rimettente, inoltre, richiederebbe (inammissibilmente) una sentenza additiva non «a rime obbligate».

La difesa delle parti private poneva, altresì, in rilievo un ulteriore profilo di inammissibilità incentrato sulla avvenuta sospensione solo delle due udienze del 23 maggio 2017 e del 13 giugno 2017, anziché di tutto il processo ai sensi dell’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale).

Nel merito, poi, non vi sarebbe stata lesione del diritto dell’imputato detenuto in custodia cautelare, perché la disposizione censurata contiene un bilanciamento a favore di quest’ultimo, tant’è che se l’imputato chiede espressamente di procedere malgrado l’astensione del difensore, il diritto del difensore di astenersi recede.

Peraltro, si osservava come in caso di rinvio per astensione in un processo con imputati sottoposti a custodia cautelare, si avesse la sospensione dei relativi termini massimi di custodia cautelare e di prescrizione dei reati; ciò risponde all’esigenza di evitare che la forzata inattività processuale si risolva in un ingiustificato vantaggio per l’imputato.

Con atto depositato in data 4 giugno 2018, interveniva nei giudizi di legittimità costituzionale l’Unione delle Camere Penali Italiane (d’ora in avanti: UCPI) chiedendo alla Corte, in primo luogo, di dichiarare l’ammissibilità dell’intervento e, poi, l’inammissibilità o la non fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale.

In punto di ammissibilità dell’intervento, si evidenziava innanzi tutto che l’UCPI fosse l’associazione riconosciuta come maggiormente rappresentativa dell’avvocatura penale, che promuove la conoscenza, la diffusione, la concreta realizzazione e la tutela dei valori fondamentali del diritto penale e del giusto processo.

Inoltre, l’UCPI, che aveva sottoscritto il codice di autoregolamentazione, affermava di avere un interesse specifico e qualificato immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio.

In punto di ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale e di non fondatezza, l’UCPI formulava argomentazioni analoghe a quelle svolte dalle parti costituite.

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Consulta

La Corte Costituzionale, prima di entrare nel merito delle questioni sottoposte al suo scrutinio giurisdizionale, reputava ammissibile l’intervento dell’UCPI visto che, se è vero che, secondo la costante giurisprudenza di legittimità costituzionale (ex plurimis, ordinanze allegate alle sentenze n. 16 del 2017, n. 237 e n. 82 del 2013, n. 272 del 2012, n. 349 del 2007, n. 279 del 2006 e n. 291 del 2001), la partecipazione al giudizio incidentale di legittimità costituzionale è circoscritta, di norma, alle parti del giudizio a quo, oltre che al Presidente del Consiglio dei ministri e, nel caso di legge regionale, al Presidente della Giunta regionale (artt. 3 e 4 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale), è possibile derogare tale disciplina  – senza venire in contrasto con il carattere incidentale del giudizio di costituzionalità – quando l’intervento è spiegato da soggetti terzi che siano titolari di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma oggetto di censura anche perché ove l’incidenza sulla posizione soggettiva dell’interveniente sia conseguenza immediata e diretta dell’effetto che la pronuncia della Corte costituzionale produce sul rapporto sostanziale oggetto del giudizio a quo, l’intervento è ammissibile (ex multis, sentenza n. 345 del 2005).

Declinando tale costrutto ermeneutico al caso in questione, si osservava come la posizione dell’interveniente, pur estranea al giudizio a quo, fosse suscettibile di restare direttamente incisa dall’esito del giudizio della Corte poichè l’interveniente è una delle associazioni che hanno sottoposto alla Commissione di garanzia per l’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali il codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati, poi valutato idoneo dalla Commissione stessa con delibera n. 07/749 del 13 dicembre 2007, il cui art. 4, lettera b), è richiamato dal Tribunale di Reggio Emilia nell’ordinanza di rimessione e quindi è

innegabile che un’eventuale pronuncia di accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale sul giudizio a quo avrebbe prodotto necessariamente un’immediata incidenza sulla posizione soggettiva dell’UCPI, ente rappresentativo degli interessi della categoria degli avvocati penalisti.

Pertanto, concludeva la Corte su punto, l’UCPI è portatore di un interesse specifico a contrastare le prospettate questioni di legittimità costituzionale e non già di un interesse solo generico (ex plurimis, sentenza n. 178 del 2015 e allegata ordinanza letta all’udienza del 23 giugno 2015; sentenza n. 171 del 1996; ordinanza n. 200 del 2015 e allegata ordinanza letta all’udienza del 22 settembre 2015) e dunque era ammissibile il suo intervento.

Affrontando altre questioni di ordine preliminare, e in primo luogo quella sollevata dalla difesa delle parti private, ossia quella in base alla quale si eccepiva l’inammissibilità delle questioni di costituzionalità perché il tribunale ordinario a quo, con ciascuna delle due ordinanze di rimessione rese nello stesso procedimento penale in sede dibattimentale, avesse sospeso non già l’intero giudizio, ma soltanto l’attività processuale che era prevista (e che altrimenti sarebbe stata compiuta) nelle udienze alle quali si riferiva la dichiarazione dei difensori di adesione all’astensione collettiva proclamata dall’OUA, si faceva presente come essa dovesse ritenersi infondata in quanto, una volta rilevato che il giudizio incidentale di costituzionalità ha necessariamente carattere pregiudiziale nel senso che la relativa questione si pone come antecedente logico di altra questione che il giudice rimettente deve decidere (art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, recante «Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale») e ciò comporta che il giudice non può definire l’attività processuale fin quando la Corte non abbia deciso la questione pregiudicante.

Pertanto, il giudice – riservata la decisione della questione pregiudicata, sulla quale egli delibererà solo dopo che la Corte costituzionale avrà deciso l’incidente di costituzionalità – «sospende il giudizio in corso» (art. 23, secondo comma, citato), nel disporre l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, si metteva in risalto che, nel caso in cui però cui il giudizio si svolga in distinti momenti o segmenti processuali, identificabili in ragione del fatto che la rilevanza della questione di costituzionalità possa ragionevolmente circoscriversi solo ad uno di essi, si ha che, pur restando che la pendenza della questione di costituzionalità condiziona la decisione dell’intero giudizio, è sufficiente che il giudice rimettente sospenda anche solo quel distinto momento processuale in cui la questione è rilevante, e che possa essere effettivamente isolato nella sequenza procedimentale del giudizio a quo.

Il citato art. 23 della legge n. 87 del 1953, interpretato alla luce del principio della ragionevole durata del processo che pervade ogni giudizio – civile, penale, o amministrativo che sia –, non esclude difatti che il giudice rimettente possa limitare il provvedimento di sospensione al singolo momento o segmento processuale in cui il giudizio si svolge, ove solo ad esso si applichi la disposizione censurata e la sospensione dell’attività processuale non richieda di arrestare l’intero processo, che può proseguire con il compimento di attività rispetto alle quali la questione sia del tutto irrilevante restando fermo il controllo da parte di questa Corte dell’effettiva possibilità di circoscrivere la rilevanza della questione, che rimane pur sempre incidentale e che, come tale, è pregiudiziale rispetto ad una decisione del giudice rimettente.

Nel caso in esame, si osservava come il giudizio penale pervenuto alla fase dibattimentale si articolasse in distinte udienze secondo un fitto calendario predeterminato tipico dei processi con numerosi imputati (cosiddetti maxi-processi) e dunque, se, in ogni udienza, la presenza del difensore dell’imputato è necessaria, ben può però accadere che specifiche udienze cadano nell’intervallo temporale dell’astensione collettiva dalle udienze, proclamata da un’associazione categoriale della professione forense.

Tal che se ne faceva conseguire che la questione dello svolgimento, o no, di attività processuale in quell’udienza, in ragione dell’adesione del difensore all’astensione collettiva, si ponesse solo in riferimento a tale udienza e non anche nelle molte altre udienze non interessate da alcuna proclamazione di astensione collettiva e quindi l’attività processuale in queste successive udienze era del tutto estranea alla questione di costituzionalità, nel senso che non è influenzata dal suo esito.

Da ciò si giungeva a ritenere possibile isolare – come distinti momenti o segmenti processuali – le udienze in cui vi era stata, in concreto, l’adesione del difensore all’astensione collettiva e di conseguenza, solo con riferimento a queste udienze, il giudice era chiamato ad applicare una normativa – quale appunto nella specie l’art. 2-bis della legge n. 146 del 1990, integrato dall’art. 4, comma 1, lettera b), del codice di autoregolamentazione – della cui legittimità costituzionale egli dubitava e solo in queste udienze la pregiudizialità della questione incidentale di costituzionalità richiede che l’attività processuale sia sospesa sicché, il giudice non si trovava di fronte a quella che sarebbe un’estrema alternativa tra rispettare il principio di legalità costituzionale, sollevando l’incidente di costituzionalità, al prezzo di determinare un arresto di tutto il processo, oppure proseguire nell’attività processuale per rispettare il principio della ragionevole durata del processo, tenendo in non cale un dubbio di legittimità costituzionale che pure egli nutriva in ordine alla norma che va ad applicare.

Infatti: Il principio di economia degli atti processuali, che deriva da quello di ragionevole durata del processo, verrebbe in sofferenza se il dubbio di costituzionalità in ordine ad un determinato atto processuale da compiere in una singola udienza – quello che dispone o nega il rinvio della stessa in ragione dell’adesione del difensore all’astensione collettiva – dovesse comportare una stasi generalizzata di ogni attività processuale anche nelle udienze su cui il dubbio di costituzionalità non rileva (perché il difensore può essere regolarmente presente in mancanza della proclamazione di alcuna astensione collettiva) perché, operandosi in tal guisa, sarebbero frustrati sia il diritto dell’imputato alla rapida verifica processuale della presunzione di non colpevolezza, sia l’istanza punitiva riconducibile all’esercizio dell’azione penale che tende anch’essa alla rapida conclusione del processo, e ciò è tanto più vero se l’imputato – così come nella specie – sia in stato di custodia cautelare, atteso che, secondo la giurisprudenza di legittimità (a partire da Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 6 luglio 1990 – 23 ottobre 1990, n. 9), il termine della sua durata massima, sia di fase che complessiva, non è suscettibile di sospensione per il solo fatto del promovimento dell’incidente di costituzionalità e della conseguente sospensione del giudizio.

Le considerazioni finora espresse convergevano, ad avviso della Corte verso un’interpretazione costituzionalmente adeguata dell’art. 23 della legge n. 87 del 1953 (nella parte in cui prevede che il giudice rimettente «sospende il giudizio in corso») – disposizione di rango primario, come tale anch’essa suscettibile di sindacato di costituzionalità (ordinanza n. 130 del 1971) – in sintonia, peraltro, con l’art. 18 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale il quale – considerando l’ipotesi della (sopravvenuta) «sospensione […] del processo principale» come non produttiva di effetti sul giudizio davanti alla Corte costituzionale – implica che non possa escludersi un’attività processuale nel giudizio a quo successiva all’ordinanza di rimessione mentre, se, invece, manca del tutto la statuizione circa la sospensione del giudizio a quo, allora viene meno tout court la pregiudizialità della questione di costituzionalità che, pertanto, è inammissibile (ordinanze n. 5 del 2012 e n. 285 del 1994).

Alla luce delle considerazioni sin qui esposte, il giudice delle leggi stimava che le questioni sollevate andassero parametrate alle sole udienza in cui era stata disposta la sospensione dell’attività processuale, e non altre.

Posto ciò, la Consulta, preso atto di come dovesse considerarsi che il Tribunale rimettente non aveva provveduto – e avrebbe dovuto provvedere (ora per allora) – in ordine alla richiesta di rinvio dell’udienza presentata dal difensore in ragione dell’adesione all’astensione collettiva, stimava ciò di per sé sufficiente per assicurare la rilevanza della questione perché il Tribunale dovrà applicare proprio la disposizione censurata (sentenza n. 162 del 2014).

Ancora in via preliminare, si affrontava l’eccezione sollevata dall’Avvocatura dello Stato nel senso che le censure di incostituzionalità, contenute nell’ordinanza del rimettente, ancorché testualmente indirizzate nei confronti di una norma primaria (art. 2-bis della legge n. 146 del 1990), in realtà riguardano la disciplina contenuta nell’art. 4, primo comma, lettera b), del citato codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze; disposizione quest’ultima che, in ragione della sua natura di norma subprimaria, non è suscettibile di sindacato di costituzionalità ad opera di questa Corte, ma dà luogo, in caso di violazione di legge o, a maggior ragione, di violazione di un parametro costituzionale, alla sua disapplicazione ad opera del giudice comune rilevandosi al contempo come analoga eccezione era stata sollevata dall’Avvocatura in un precedente giudizio incidentale avente ad oggetto (anche) la stessa disposizione di legge attualmente censurata (art. 2-bis); eccezione implicitamente superata da questa Corte (ordinanza n. 116 del 2008) che aveva invece dichiarato manifestamente inammissibile la questione perché in quel giudizio l’ordinanza di rimessione mirava a una pronuncia additiva a rime non obbligate.

Orbene, si considerava detta eccezione infondata poiché il rimettente aveva censurato la norma primaria (l’art. 2-bis) nella parte in cui consente alla norma subprimaria (l’art. 4, comma 1, lettera b) di regolare l’esercizio del diritto del difensore di astenersi dall’udienza, in ipotesi di processo penale con imputato in custodia cautelare, in adesione all’astensione collettiva proclamata dall’associazione di categoria, individuando le prestazioni indispensabili in termini tali che la regolamentazione così posta interferisce con la disciplina della libertà personale ed entra in conflitto con numerosi parametri costituzionali e la censura, pertanto, è diretta proprio alla norma primaria che non avrebbe dovuto consentire ciò che poi la norma subprimaria ha regolamentato.

Altro ulteriore profilo di dedotta inammissibilità delle questioni di costituzionalità riguardava il petitum del Tribunale rimettente che – secondo la difesa delle parti costituite, le quali hanno formulato in proposito distinta eccezione – sarebbe non ben definito e comunque non a rime obbligate veniva stimato non fondato stante il fatto che, dal tenore complessivo della motivazione delle ordinanze di rimessione emergeva con sufficiente chiarezza il verso delle sollevate questioni, che convergeva nella censura dell’art. 2-bis citato nella parte in cui consente al codice di autoregolamentazione di porre il divieto di astensione dalle udienze solo quando è lo stesso imputato, che si trovi detenuto in custodia cautelare, a dare l’assenso espresso o tacito (non formulando la richiesta espressa che si proceda malgrado l’astensione del suo difensore) in tal modo interferendo con la disciplina della libertà personale; secondo il tribunale ordinario rimettente, invero, la disposizione censurata, per essere rispettosa dei parametri evocati, dovrebbe precludere al codice di autoregolamentazione una tale interferenza e dunque, il petitum era, quindi, ben chiaro, mentre solo la sua indeterminatezza o ambiguità comporterebbero l’inammissibilità della questione (ex pluribus, sentenza n. 32 del 2016; ordinanze n. 227 e n. 177 del 2016 e n. 269 del 2015).

Una volta esaminate tali questioni pregiudiziali, la Consulta esaminava nel merito le questioni prospettate dal giudice remittente nei seguenti termini.

Si metteva in evidenza prima di tutto che le due ordinanze, lette congiuntamente in ragione del loro contenuto sostanzialmente sovrapponibile, indicavano numerosi parametri e ponevano plurime questioni fermo restando come era possibile ricondurre le censure essenzialmente a tre profili, il primo dei quali attiene al diritto di libertà dell’imputato sottoposto a custodia cautelare (art. 13 Cost.); il secondo al canone della ragionevole durata del processo, che esprime una regola di maggior rigore nel caso di imputato detenuto (art. 111 Cost.); il terzo riguarda la ragionevolezza intrinseca della disciplina censurata e la sua coerenza con il principio di eguaglianza in riferimento ad altre fattispecie indicate in comparazione (art. 3 Cost.).

Si precisava inoltre come le censure de quibus fossero circoscritte alla fattispecie del processo penale con imputato sottoposto a custodia cautelare sicchè tutto lo sviluppo argomentativo delle ordinanze di rimessione e la fattispecie all’esame del rimettente, in ordine al quale questi deve pronunciarsi (legittimità, o no, dell’astensione dichiarata dal difensore in adesione all’astensione collettiva), mostrava chiaramente che la fattispecie in riferimento alla quale fossero mosse le censure di costituzionalità è quella specifica dell’imputato in custodia cautelare nel processo per il quale si procede, e non già, in generale, dell’imputato detenuto, che può esser tale per altra causa estranea al processo in corso.

Chiarito ciò, il giudice delle leggi riteneva la questione posta in riferimento all’art. 13, quinto comma, Cost. fondata alla stregua delle susseguenti considerazioni.

Si evidenziava come occorresse in primo luogo prendere le mosse dalla sentenza n. 171 del 1996 con cui la Consulta aveva riconosciuto che «l’astensione dalle udienze degli avvocati e procuratori è manifestazione incisiva della dinamica associativa volta alla tutela di questa forma di lavoro autonomo», in relazione alla quale è identificabile, più che una mera facoltà di rilievo costituzionale, un vero e proprio diritto di libertà fermo restando un bilanciamento con altri valori costituzionali meritevoli di tutela, tenendo conto che il secondo comma, lettera a), dell’art. 1, della legge 146 del 1990 indica fra i servizi pubblici essenziali «l’amministrazione della giustizia, con particolare riferimento ai provvedimenti restrittivi della libertà personale ed a quelli cautelari ed urgenti nonché ai processi penali con imputati in stato di detenzione» e, segnatamente, nel senso che, nel bilanciamento tra questi valori, e il diritto del difensore di aderire all’astensione collettiva, i primi hanno una «forza prevalente» stante il fatto che è da privilegiare l’interpretazione costituzionalmente orientata che riconosce «al giudice il potere di bilanciare i valori in conflitto e, conseguentemente, di far recedere la “libertà sindacale” di fronte a valori costituzionali primari»; bilanciamento che nel processo penale non può dirsi realizzato con la nomina del difensore d’ufficio.

La legge n. 146 del 1990, che tra l’altro non ha operato tale bilanciamento non avendo affatto previsto l’astensione collettiva dei professionisti, dal canto suo, è risultata (all’epoca) carente in quanto non apprestava una razionale e coerente disciplina che includesse tutte le altre manifestazioni collettive capaci di comprimere detti valori primari e, a causa di ciò, con la sentenza n. 171 del 1996, detta normativa era stata dichiarata l’illegittimità costituzionale in relazione a quanto statuito dall’art. 2, commi 1 e 5, della legge n. 146 del 1990 nella parte in cui non prevedeva, nel caso dell’astensione collettiva dall’attività defensionale degli avvocati e dei procuratori legali, l’obbligo d’un congruo preavviso e di un ragionevole limite temporale dell’astensione e, altresì, nella parte in cui non prevedeva gli strumenti idonei a individuare e assicurare le prestazioni essenziali durante l’astensione stessa, nonché le procedure e le misure conseguenziali nell’ipotesi di inosservanza.

Si evidenziava dunque che, a seguito di questa pronuncia di incostituzionalità, il legislatore avrebbe dovuto introdurre «misure idonee ad evitare che vengano compromessi i beni primari della convivenza civile che non tollera la paralisi della funzione giurisdizionale e, quindi, esige prescrizioni volte ad assicurare, durante l’astensione dell’attività giudiziaria, le pre­stazioni indispensabili» (sentenza n. 171 del 1996) e, a tal fine, si evidenziava come il Governo avesse inizialmente presentato un disegno di legge (A.S. 1268), che elencava una serie di fattispecie di «prestazioni indispensabili» da assicurare in caso di astensione collettiva degli avvocati, prevedendo, in particolare, che l’astensione non era consentita nei procedimenti relativi ad imputati in stato di custodia cautelare ma il legislatore, però, era intervenuto solo qualche anno dopo, con la legge 11 aprile 2000, n. 83 (Modifiche ed integrazioni della legge 12 giugno 1990, n. 146, in materia di esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e di salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati), inserendo nella legge n. 146 del 1990 il censurato art. 2-bis.

La scelta di fondo, che appartiene alla discrezionalità legislativa, era stata dunque diversa: non più una disciplina diretta da parte della legge delle fattispecie che richiedono l’effettuazione di «prestazioni indispensabili», ma il coinvolgimento delle associazioni di categoria mediante il richiamo del «codice di autoregolamentazione» in un’ottica, più avanzata, di assetto partecipativo degli strumenti di composizione del conflitto, insito nella proclamazione dell’astensione collettiva di categoria.

Il legislatore, pertanto, operando in tal guisa, da una parte, aveva riconosciuto, in linea di continuità con la citata sentenza n. 171 del 1996, il diritto di astensione collettiva anche a lavoratori autonomi, professionisti o piccoli imprenditori, ma, d’altra parte, aveva chiamato in causa le loro associazioni rappresentative per individuare le fattispecie di «prestazioni indispensabili» che comunque devono essere assicurate perché non siano lesi i diritti della persona costituzionalmente tutelati, indicati dall’art. 1 della stessa legge n. 146 del 1990, concernenti segnatamente, per quanto qui rileva, «l’amministrazione della giustizia, con particolare riferimento ai provvedimenti restrittivi della libertà personale ed a quelli cautelari ed urgenti, nonché ai processi penali con imputati in stato di detenzione».

La disciplina di fonte legale così formatasi era quindi destinata a saldarsi con quella eteroprodotta dal codice di autoregolamentazione.

In questa diversa ottica si faceva presenta come la norma primaria (art. 2-bis) si limitasse a definire il perimetro di riferimento: riconoscere il diritto (sindacale) di «astensione collettiva dalle prestazioni, a fini di protesta o di rivendicazione di categoria» e fissare, al contempo, il principio del necessario «contemperamento con i diritti della persona costituzionalmente tutelati», attraverso il successivo coinvolgimento degli stessi destinatari di questo bilanciamento richiedendo l’adozione, da parte «delle associazioni o degli organismi di rappresentanza delle categorie interessate», di «codici di autoregolamentazione». In particolare – oltre ad indicare un criterio molto puntuale, essendo prescritto che il codice deve in ogni caso prevedere un termine di preavviso non inferiore a quello indicato al comma 5 dell’art. 2 (dieci giorni) e l’indicazione della durata e delle motivazioni dell’astensione collettiva – l’art. 2-bis fissava nel resto, in termini ampi, la missione affidata al codice: assicurare in ogni caso un livello di prestazioni compatibile con le finalità di cui al comma 2 dell’art. 1 della medesima legge.

Il meccanismo di questo rinvio – che è formale perché rimette alla disciplina subprimaria il completamento della regolamentazione, ossia l’individuazione delle fattispecie di «prestazioni indispensabili», e non già materiale, che richiede invece che «il richiamo sia indirizzato a norme determinate ed esattamente individuate dalla stessa norma che lo effettua» (sentenza n. 311 del 1993; ordinanza n. 484 del 1993) – si articola nella promozione, da parte della Commissione di garanzia, del codice di autoregolamentazione delle associazioni o degli organismi di rappresentanza delle categorie interessate e nella successiva valutazione di idoneità ad opera della stessa Commissione ed è quest’ultima – deputata ad esercitare una funzione eminentemente pubblicistica – che con la delibera di idoneità del codice attrae quest’ultimo, tipico atto di autonomia privata, nell’orbita delle fonti (subprimarie) del diritto.

Quindi, il codice di autoregolamentazione, ove ritenuto “idoneo” dalla Commissione di garanzia, viene ritenuto in questa pronuncia una vera e propria normativa subprimaria e non già solo un atto di autonomia privata delle associazioni categoriali che raggruppano gli avvocati nell’esercizio del diritto di associarsi (art. 18 Cost.) e, in tal senso, si citava quell’univoco orientamento della giurisprudenza di legittimità nella sua massima espressione nomofilattica costituita dalle sezioni unite, nella specie penali, della Corte di cassazione (Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza 30 maggio 2013 – 19 giugno 2013, n. 26711, e soprattutto Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza 27 marzo 2014 – 29 settembre 2014, n. 40187), con cui venne in particolare sottolineato l’esigenza di uniformità (id est applicabilità erga omnes) della disciplina delle prestazioni indispensabili nei servizi pubblici essenziali; esigenza presente parimenti in caso di vero e proprio sciopero nell’area del lavoro privato e pubblico (sentenza n. 344 del 1996) ritenendosi ciò coerente con il sistema delle fonti del diritto.

Una norma primaria, difatti, può autorizzare un’altra fonte, come tale sottordinata e quindi  subprimaria, a dettare una determinata disciplina avente carattere generale ed astratto; fonte che può anche originare nell’ambito dell’autonomia privata, se mediata da un atto di ricezione, derivazione o validazione di natura pubblicistica anche perché nel passato era stato ritenuto in giurisprudenza (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 20 dicembre 1993, n. 12595) che tipici atti di autonomia privata, quali gli accordi collettivi nazionali per il personale sanitario a rapporto convenzionale, acquisissero natura di normazione subprimaria, in ragione della dichiarazione di esecutività, con decreto del Presidente della Repubblica (ex art. 48 della legge 23 dicembre 1978, n. 833, recante «Istituzione del servizio sanitario nazionale»).

Tra l’altro, si osservava come nella fattispecie in esame fosse la stessa disposizione censurata (art. 2-bis della legge n. 146 del 1990) ad assegnare alla Commissione di garanzia, quale autorità amministrativa indipendente, il potere di verificare la “idoneità” dei codici di autoregolamentazione per le categorie previste dalla stessa disposizione (lavoratori autonomi, professionisti o piccoli imprenditori) e, in caso di ritenuta inidoneità del codice categoriale ovvero di mancata presentazione dello stesso da parte della categoria interessata, di deliberare la «provvisoria regolamentazione»; pertanto, tale valutazione di idoneità del codice di autoregolamentazione dell’astensione collettiva dalle prestazioni di una determinata categoria (nella specie, quella forense), sussume al livello di normazione subprimaria questo codice che altrimenti rimarrebbe un tipico atto di autonomia privata (quale, ad esempio, si ritiene che sia il codice deontologico forense: Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 25 giugno 2013, n. 15873).

Tal che se ne faceva conseguire, costituendo il codice di autoregolamentazione, qualificato idoneo dalla Commissione di garanzia, una normazione subprimaria valida erga omnes, come il giudice fosse tenuto ad applicarne le disposizioni in quanto conformi alla legge (art. 101, secondo comma, Cost.) ed è nei confronti della legge – come sopra rilevato − che è rivolta la questione di legittimità costituzionale; in altri termini, dal momento che costituisce appunto regola di diritto quella che il Tribunale rimettente è chiamato ad applicare per stabilire se la richiesta di rinvio del difensore, che dichiari di aderire all’astensione collettiva, sia legittima, o no.

Chiarita la natura normativa, seppur di natura sub primaria, del codice di autoregolamentazione delle associazioni o degli organismi di rappresentanza delle categorie interessate, si osservava che, da una parte, l’art. 2-bis della legge n. 146 del 1990 prevede che, in caso di astensione collettiva dalle prestazioni, a fini di protesta o di rivendicazione di categoria, da parte di lavoratori autonomi, professionisti o piccoli imprenditori, vanno rispettate le misure dirette a consentire l’erogazione delle prestazioni indispensabili per assicurare la funzionalità dei servizi pubblici essenziali, quale l’amministrazione della giustizia «con particolare riferimento ai provvedimenti restrittivi della libertà personale ed a quelli cautelari ed urgenti, nonché ai processi penali con imputati in stato di detenzione», dall’altra parte, l’art. 4, comma 1, lettera b), del codice di autoregolamentazione prescrive che l’astensione non è consentita nella materia penale in riferimento ai «procedimenti e nei processi in relazione ai quali l’imputato si trovi in stato di custodia cautelare o di detenzione, ove l’imputato chieda espressamente, analogamente a quanto previsto dall’art. 420-ter, comma 5 (introdotto dalla legge n. 479/1999) del codice di procedura penale, che si proceda malgrado l’astensione del difensore» e, in tal caso, il difensore di fiducia o d’ufficio non può legittimamente astenersi ed ha l’obbligo di assicurare la propria prestazione professionale.

A sua volta la disposizione del codice di autoregolamentazione (art. 4, comma 1, lettera b) richiama in particolare l’art. 420-ter, comma 5, cod. proc. pen. che stabilisce che il giudice provvede a norma del comma 1, rinviando ad una nuova udienza, nel caso di assenza del difensore, quando risulta che l’assenza stessa è dovuta ad assoluta impossibilità di comparire per legittimo impedimento, con conseguente sospensione dei termini di durata massima della custodia cautelare ai sensi dell’art. 304 cod. proc. pen., salvo che l’imputato chieda che si proceda in assenza del difensore impedito e quindi la disposizione del codice di autoregolamentazione espressamente mira ad introdurre – ed introduce – una fattispecie analoga e parallela a quella legale che, dando rilievo all’assenso dell’imputato, incide parimenti sul prolungamento, o no, dei termini di durata massima della custodia cautelare, e finisce per toccare proprio la disciplina legale di tali termini.

Ebbene, rileva la Corte, mentre lo stesso art. 4, comma 1, alla lettera a), si limita a prevedere che l’astensione del difensore non è consentita in una serie di ipotesi relative, tra l’altro, alle misure cautelari, e quindi anche ai procedimenti ed ai processi aventi ad oggetto proprio la stessa custodia cautelare, rimanendo regolati per legge i termini della sua durata massima e la loro sospensione o proroga, invece, nell’ipotesi della lettera b), concernente i procedimenti e i processi in relazione ai quali l’imputato si trovi in stato di custodia cautelare o di detenzione, non si limita a fare il contemperamento tra diritto del difensore di aderire all’astensione collettiva e i diritti della persona costituzionalmente tutelati, ma introduce una regolamentazione dell’assenso dell’imputato sottoposto a custodia cautelare che ha una diretta ricaduta sul suo stato di libertà.

Il problema che quindi si pone la Corte costituzionale è espressa nei seguenti termini: con riferimento al primo dei tre richiamati profili delle censure di illegittimità costituzionale, è decisiva la prescrizione della riserva di legge, di carattere assoluto, che pone l’art. 13, quinto comma, Cost.: è la legge che stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva, oggi custodia cautelare (sentenza n. 293 del 2013) posto che la libertà personale, diritto fondamentale espressamente definito inviolabile (art. 13, primo comma, Cost.), è presidiata da un’ampia riserva di legge che riguarda innanzi tutto i casi ed i modi in cui è ammessa la detenzione con atto motivato dell’autorità giudiziaria (art. 13, secondo comma, Cost.) o con provvedimento provvisorio dell’autorità di pubblica sicurezza (art. 13, terzo comma, Cost.), e concerne poi, in particolare, i limiti massimi della custodia cautelare (art. 13, quinto comma, Cost.); difatti, la tutela della libertà personale, che si realizza attraverso i limiti massimi di custodia cautelare, che l’art. 13, quinto comma, Cost. demanda alla legge di stabilire, è «un valore unitario e indivisibile, che non può subire deroghe o eccezioni riferite a particolari e contingenti vicende processuali» (sentenza n. 299 del 2005).

Si rilevava al riguardo, per un verso, che il codice di rito prevede un’articolata disciplina dei termini di durata, fissando termini finali complessivi, in funzione di limite massimo insuperabile, sì da coprire l’intera durata del procedimento, garantendo, da un lato, un ragionevole limite di durata della custodia cautelare, e, dall’altro, attribuendo al giudice una discrezionalità vincolata nella valutazione della sussistenza dei presupposti per la sua sospensione ex art. 304 cod. proc. pen. (sentenza n. 204 del 2012), per altro verso, che la Corte costituzionale avesse precisato che i «limiti che deve incontrare la durata della custodia cautelare, discendono direttamente dalla natura servente che la Costituzione assegna alla carcerazione preventiva rispetto al perseguimento delle finalità del processo, da un lato, e alle esigenze di tutela della collettività, dall’altro, tali da giustificare, nel bilanciamento tra interessi meritevoli di tutela, il temporaneo sacrificio della libertà personale di chi non è ancora stato giudicato colpevole in via definitiva» (sentenze n. 219 del 2008 e n. 229 del 2005).

A completamento della analisi sin qui svolta, si chiariva inoltre la finalità che contraddistingue la riserva di legge di cui all’art. 13, quinto comma, Cost. ritenendo essa strettamente funzionale a disegnare lo statuto di tutela della libertà personale, collocato a livello di normazione primaria dato che solo la legge deve assicurare il minor sacrificio della libertà personale, cui ripetutamente aveva fatto riferimento la Consulta a partire dalla fondamentale sentenza n. 64 del 1970; la quale – aprendo la via alla vigente disciplina in tema di termini massimi (di fase, complessivi e finali) della custodia cautelare – aveva evidenziato come, con l’art. 13, quinto comma, la Costituzione avesse voluto evitare che il sacrificio della libertà determinato dalla custodia cautelare «sia interamente subordinato alle vicende del procedimento; ed ha, pertanto, voluto che, con la legislazione ordinaria, si determinassero i limiti temporali massimi della carcerazione preventiva, al di là dei quali verrebbe compromesso il bene della libertà personale, che […] costituisce una delle basi della convivenza civile».

Di talchè si giungeva a postulare come la disposizione censurata violasse la riserva di legge posta dall’art. 13, quinto comma, Cost. nella parte in cui consente al codice di autoregolamentazione di interferire nella disciplina nella libertà personale; interferenza consistente nella previsione che l’imputato sottoposto a custodia cautelare possa richiedere, o no, in forma espressa, di procedere malgrado l’astensione del suo difensore, con l’effetto di determinare, o no, la sospensione, e quindi il prolungamento, dei termini massimi (di fase) di custodia cautelare.

Venivano a questo riguardo precisate anche gli effetti conseguenti a questa violazione, non nel senso indicato dall’Avvocatura dello Stato, ossia nei termini di una mera disapplicazione della norma subprimaria ad opera del giudice comune e quindi anche del Tribunale rimettente, quanto piuttosto di una questione di costituzionalità della norma primaria nella parte in cui ha consentito a quella subprimaria di incidere sulla durata della custodia cautelare prevedendo tale facoltà dell’imputato detenuto, e ciò proprio in ragione del fatto che l’art. 2-bis della legge n. 146 del 1990 è costituzionalmente illegittimo in quanto consente – nel senso che non preclude − al codice di autoregolamentazione di andare ad incidere sulla disciplina legale dei limiti di restrizione della libertà personale, prevedendo una facoltà dell’imputato – quella di richiedere, o no, che si proceda malgrado la dichiarazione di astensione del suo difensore che abbia aderito all’astensione collettiva – con diretta ricaduta sui termini di durata della custodia cautelare.

Si dichiarava quindi l’illegittimità costituzionale dell’art. 2-bis della legge n. 146 del 1990, nella parte in cui consente che il codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati − adottato in data 4 aprile 2007 dall’OUA e da altre associazioni categoriali (UCPI, ANF, AIGA, UNCC), valutato idoneo dalla Commissione di garanzia per lo sciopero nei servizi pubblici essenziali con delibera n. 07/749 del 13 dicembre 2007, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3 del 2008 − nel regolare, all’art. 4, comma 1, lettera b), l’astensione degli avvocati nei procedimenti e nei processi in relazione ai quali l’imputato si trovi in stato di custodia cautelare, interferisca con la disciplina della libertà personale dell’imputato restando però fermi, per il passato, i provvedimenti di sospensione del termine di custodia cautelare stante il rinvio dell’attività processuale su richiesta del difensore ovvero a causa della sua mancata presentazione o partecipazione.

Conclusioni

La sentenza in argomento pone il delicato rapporto tra bilanciamento di diverse libertà, e le fonti del diritto che possono determinare detto bilanciamento in un senso, o in un altro.

Difatti, il diritto del difensore di chiedere il rinvio dell’udienza come mezzo per esercitare un ulteriore suo diritto, e segnatamente il suo diritto di astensione che trova fondamento in una fonte sub primaria del diritto (codice di autoregolamentazione) e quindi, la sua libertà sindacale,viene meno rispetto alla libertà personale del ristretto la cui durata di privazione della sua libertà, durante il regime di custodia cautelare, può avvenire, per effetto della riserva assoluta di legge stabilita dall’art. 13, c. 5, Cost., solo appunto ex lege.

Per rimediare, ove si ritenga necessario farlo, alla situazione venutasi a verificare per effetto di questa pronuncia, una soluzione normativa praticabile potrebbe essere quella di modificare l’art. 420 ter, c. 5, c.p.p. prevedendo la sostituzione del precetto normativo in esso previsto con il seguente (la parte modificata è inserita in grassetto): “Il giudice provvede a norma del comma 1 nel caso di assenza del difensore, quando risulta che l’assenza stessa è dovuta ad assoluta impossibilità di comparire per legittimo impedimento, purché prontamente comunicato. Tale disposizione non si applica se l’imputato è assistito da due difensori e l’impedimento riguarda uno dei medesimi ovvero quando il difensore impedito ha designato un sostituto o quando l’imputato, anche se detenuto o ristretto in regime di custodia cautelare, chiede che si proceda in assenza del difensore impedito”.

Operando in tal guisa, difatti, si evincerebbe, argomentando a contrario, l’introduzione di una norma giuridica che consenta l’astensione del difensore come legittimo impedimento per determinare il rinvio dell’udienza a norma dell’art. 420 ter, c. 1, c.p.p. anche nel caso in cui l’assistito sia sottoposto ad una misura cautelare personale e ciò proprio in ragione del fatto che il legislatore non avrebbe (come allo stato ovviamente non ha fatto trattandosi di una proposta de jure condendo suggerita in questo articolo dallo scrivente) concesso anche l’imputato (e quindi anche all’indagato stante quanto previsto dall’art. 61 c.p.[1]) che sia sottoposto ad una misura custodiale di natura cautelare, il diritto di procedere in assenza del difensore impedito, se il rinvio dell’udienza, in detto caso, non fosse di norma possibile.

Una riforma di questo genere dell’art. 420 ter, c. 5, c.p.p., tra l’altro, determinerebbe il venir meno dei presupposti di illegittimità costituzionale che hanno indotto la Consulta a dichiarare costituzionalmente illegittimo l’art. 2-bis della legge n. 146 del 1990 e quindi si riavrebbe una reviviscenza di questa norma nella parte in cui consente(iva) che il codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati − adottato in data 4 aprile 2007 dall’OUA e da altre associazioni categoriali (UCPI, ANF, AIGA, UNCC), valutato idoneo dalla Commissione di garanzia per lo sciopero nei servizi pubblici essenziali con delibera n. 07/749 del 13 dicembre 2007, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3 del 2008 − nel regolare, all’art. 4, comma 1, lettera b), l’astensione degli avvocati nei procedimenti e nei processi in relazione ai quali l’imputato si trovi in stato di custodia cautelare, interferisca con la disciplina della libertà personale dell’imputato restando però fermi, per il passato, i provvedimenti di sospensione del termine di custodia cautelare stante il rinvio dell’attività processuale su richiesta del difensore ovvero a causa della sua mancata presentazione o partecipazione.

Con una emenda di questo genere, difatti, la riserva di legge sancita dall’art. 13 Cost. sarebbe osservata senza incertezza alcuna anche perché, in relazione alla questione inerente la sospensione dei termini di durata massima della custodia cautelare, una volta elaborata questa regola giuridica, rileverebbe quell’orientamento nomofilattico secondo il quale, in tema di termini di durata della custodia cautelare, l’astensione dei difensori dalle udienze, costituendo esercizio di un diritto e non un legittimo impedimento, determina la sospensione dei termini di durata della custodia cautelare ex art. 304, comma primo, lett. b) cod. proc. pen.[2] (tra le tante, Cass. pen., sez. II, 5/11/2015, n. 45525).

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[1]Secondo cui: “1. I diritti e le garanzie dell’imputato si estendono alla persona sottoposta alle indagini preliminari. 2. Alla stessa persona si estende ogni altra disposizione relativa all’imputato, salvo che sia diversamente stabilito”.

[2]Alla stregua del quale: “I termini previsti dall’articolo 303 sono sospesi, con ordinanza appellabile a norma dell’articolo 310, nei seguenti casi: (…) b) nella fase del giudizio, durante il tempo in cui il dibattimento è sospeso o rinviato a causa della mancata presentazione, dell’allontanamento o della mancata partecipazione di uno o più difensori che rendano privo di assistenza uno o più imputati”.

Sentenza collegata

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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