In assenza di un valido titolo esecutivo, l’opposizione va qualificata come istanza al g.e.

Vito Carella 26/04/21
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Trib. Potenza, 4.03.2021 (G.E. dott.ssa Daniela Di Gennaro)

Non potendo proseguire l’esecuzione forzata promossa in assenza di un valido titolo esecutivo, l’opposizione, proposta al riguardo dall’esecutato a norma dell’art. 615 c.p.c., va qualificata come istanza al g.e. perché eserciti i suoi poteri d’ufficio, onde verificare la validità del titolo azionato dal creditore procedente.

Una significativa pronuncia su un (essenziale) principio inespresso nel codice, ma (virtualmente) contenuto nel sistema del processo esecutivo: un input per la Cassazione ed un monito per il legislatore.

Sommario: 1. La fattispecie esaminata – 2. La scelta del Tribunale di Potenza – 3. L’art. 474 c.p.c. e i poteri (officiosi) del giudice circa l’esistenza del titolo – 4. Sull’opportunità di un (celere) imprimatur nomofilattico e di una (confacente) sensibilità de lege ferenda

  1. La fattispecie esaminata

Un istituto di credito agisce esecutivamente nei confronti di un correntista, in virtù di un contratto di apertura di credito in conto corrente (recte: di finanziamento in forma di apertura di credito in conto corrente) stipulato per atto pubblico, ponendo a base dell’espropriazione immobiliare l’anzidetto contratto, munito di formula esecutiva.

Il debitore esecutato propone opposizione all’esecuzione e ne chiede la sospensione, assumendo che il contratto di apertura di credito bancario non possa assurgere al rango di titolo esecutivo.

Il Tribunale, qualificata l’opposizione «quale istanza di sollecitazione dei poteri officiosi del G.E. di verificare la sussistenza di un valido titolo esecutivo posto a sostegno della espropriazione forzata», rileva – per le (medesime) ragioni addotte dall’opponente ex art. 615 c.p.c – l’inammissibilità dell’intrapresa azione esecutiva per «difetto di una condizione dell’azione», in quanto, nel caso concreto, il contratto azionato dalla banca pignorante non integra un titolo idoneo a fondare l’esecuzione forzata.

In virtù dell’anzidetto ragionamento, il Giudice dell’esecuzione dichiara l’improcedibilità della procedura esecutiva, con contestuale ordine al conservatore dei registri immobiliari di cancellare la trascrizione del pignoramento.

  1. L’art. 474 c.p.c. e i poteri (officiosi) del giudice circa l’esistenza del titolo

L’azione esecutiva, in grado di incidere sul patrimonio del debitore attraverso l’elisione dei diritti oggetto di pignoramento, deve fondarsi su un diritto «certo». E, per dirla col Verde, si tratta di una «certezza sufficiente perché l’organo esecutivo si adoperi per attuare la conseguente modificazione della realtà materiale, nella quale si proietta il momento ultimo della domanda di giustizia e, quindi, la stabilità dell’assetto».[1] Una certezza, dunque, cristallizzata in specifici documenti, ovvero i titoli (giudiziali e stragiudiziali) elencati dall’art. 474 c.p.c., documenti in grado di attestare (secondo il legislatore) quella «certezza sufficiente» perché possano incidere nella realtà verso la quale si proiettano. In considerazione di tale “forza” del titolo esecutivo, sia il legislatore del 1865 sia quello del 1940 stabilirono che solo il giudice (quello che aveva reso la sentenza o quello del gravame) potesse attribuire efficacia esecutiva alla sentenza di primo grado (art. 282 c.p.c., nella sua primigenia formulazione): prima della novella del 1990, rare erano le ipotesi di esecutorietà ope legis. Successivamente, però, una richiesta di giustizia «sovralimentata dal desiderio di celerità»[2] ha spinto alla modifica dell’art. 282 c.p.c. e sottratto al giudice ogni valutazione circa l’opportunità di anticipare gli effetti esecutivi della sentenza di primo grado.

Il titolo esecutivo, in definitiva, viene a costituire «il dato di certezza iniziale da cui scaturisce l’azione esecutiva».[3]

L’art. 474 c.p.c., conseguentemente, ribadisce (perentoriamente) la regola nulla executio sine titulo[4], tant’è che la giurisprudenza (da sempre), ha rimarcato che, essendo l’azione esecutiva strettamente legata al titolo, quale condicio sine qua non per procedere esecutivamente, il controllo su di esso attiene all’ordine pubblico, sicché la sua mancanza può rilevarsi d’ufficio in ogni fase del giudizio.[5]

Corollario di questa regola è che il titolo deve esistere sin dal momento iniziale dell’esecuzione escludendosi, quindi, ogni rilevanza alla sua venuta ad esistenza, o alla sua integrazione[6] in un momento successivo: nel sistema antecedente alla modifica dell’art. 282 c.p.c., ad esempio, si considerava non validamente intrapresa l’esecuzione in base ad una sentenza di primo grado non esecutiva, pur se (indebitamente) provvista di formula esecutiva, quantunque nel corso dell’esecuzione l’appello fosse stato rigettato o dichiarato improcedibile.[7]

Nel solco di questa interpretazione, la giurisprudenza di legittimità ha (ri)affermato il potere-dovere del giudice dell’esecuzione di verificare d’ufficio, e a prescindere da una opposizione del debitore (quindi, anche laddove il debitore non si sia neppure costituito), l’esistenza del titolo esecutivo[8]: in caso di mancanza o di inefficacia (parziale o totale) di quest’ultimo, il predetto giudice deve dichiarare il processo non più proseguibile per difetto di valido titolo esecutivo, emettendo un provvedimento di improcedibilità.[9]

 

  1. La scelta del Tribunale di Potenza

Il Giudice dell’esecuzione, nel caso che ci tiene occupati, avendo rilevato che non costituisse titolo esecutivo l’atto negoziale utilizzato dal creditore procedente, ha dichiarato l’improcedibilità dell’esecuzione, precisando di avere esercitato i suoi poteri officiosi al riguardo, benché il debitore si fosse avvalso – al fine di dedurre l’inidoneità del titolo per le medesime ragioni fondanti l’ordinanza di improcedibilità – del rimedio contemplato dall’art. 615 c.p.c.

Giova rilevare che, secondo gli Ermellini, il giudice dell’esecuzione – sempreché propenda per la fondatezza della censura – potrebbe, anziché dichiarare non più proseguibile l’azione esecutiva, adottare una soluzione alternativa e, cioè, sospendere la procedura esecutiva stessa e fissare il termine per l’inizio del giudizio di merito[10].

Ebbene, la pronuncia del Tribunale di Potenza si discosta dal dictum appena esposto. Infatti, nonostante la presenza di un’opposizione all’esecuzione (e della sua sospensione disposta inaudita altera parte), pare abbia ritenuto non percorribile l’una o l’altra delle opzioni indicate, bensì di avere un’unica possibilità: l’esercizio dei propri poteri officiosi, in virtù dei quali, verificata l’inesistenza del titolo esecutivo, ha dichiarato l’improcedibilità dell’esecuzione.

Coerentemente, dunque, ha riqualificato la domanda di parte (formalizzata attraverso l’opposizione ex art. 615 c.p.c.), come un mero sollecito all’esercizio dell’officium che, essendo doveroso, precluderebbe la scelta alternativa affermata dalla Cassazione, rendendo ineludibile la menzionata pronuncia di improcedibilità. Non a caso nell’ordinanza si legge che la «la domanda di espropriazione è inammissibile per difetto di una condizione dell’azione, in quanto il pignoramento non è sorretto da un valido titolo esecutivo».

La scelta si è risolta in un’affermazione del ruolo di centralità che il codice di rito del 1942, secondo quanto si legge nella Relazione al re (§ 31), aveva inteso attribuire al giudice dell’esecuzione ed al quale non è consentito “abdicare”, così come aveva fatto per il giudice istruttore (ora unico, in molti casi) nella direzione del processo di cognizione, proprio al fine di assicurare quell’«ordine sistematico», obiettivo dei conditores, come affermato nell’anzidetta Relazione.

Questo ruolo di centralità impone al giudice dell’esecuzione, così come al giudice della cognizione, di verificare l’esistenza del presupposti processuali, ovvero i requisiti perché il processo possa validamente costituirsi e svolgersi e, dunque, impone loro di sincerarsi che non vi siano cause litis ingressum impedientes. In assenza di un valido titolo esecutivo, presupposto della tutela in executivis, il giudice dell’esecuzione dovrà statuire, come si legge nella parte motivazionale dell’ordinanza in commento, che «la domanda di espropriazione è inammissibile», così come il giudice della cognizione dichiara l’improponibilità della domanda quando difetti un presupposto processuale (si pensi alle ipotesi in cui non sia stato esperito il tentativo di conciliazione stabilito dall’art. 46 della l. n. 203/1982, o in quella di omessa preventiva richiesta di risarcimento dei danni imposta dall’art. 145 del d.lgs. n. 209/2005, il c.d. “codice delle assicurazioni private”).[11]

L’esercizio dei poteri officiosi, tra l’altro, impone la dichiarazione di improcedibilità anche qualora il debitore, mediante l’opposizione ex art. 615 c.p.c., abbia dedotto un vizio differente da quello rilevato dal giudice dell’esecuzione, senza che ciò possa risolversi in una violazione della regola sulla (intima) correlazione tra l’istanza e la decisione (art. 112 c.p.c.).[12]

Conclusivamente, va osservato che, ancorché quod effectum, la declaratoria di improcedibilità possa essere assimilata all’estinzione del processo esecutivo ascrivibile alle (tassative) ipotesi codicistiche della rinuncia agli atti e dell’inattività delle parti (art. 629 e ss. c.p.c.)[13] – tant’è che viene definita estinzione “atipica”[14] – essa comporta un riflesso riguardo al regime impugnatorio cui è assoggettata: il provvedimento non sarà reclamabile col rimedio previsto dal terzo comma dell’art. 630 c.p.c., costituente lo strumento riservato alle ipotesi di estinzione tipica, ma (esclusivamente) mediante l’opposizione agli atti esecutivi (art. 617 c.p.c.).[15]

  1. Sull’opportunità di un (celere) imprimatur nomofilattico e di una (confacente) sensibilità de lege ferenda

L’esercizio dei poteri del giudice dell’esecuzione, al fine della definizione delle questioni sul titolo esecutivo, risulta essenziale per garantire un ordinato svolgimento del processo.

Sarebbe, allora, auspicabile una celere rimeditazione, da parte della Cassazione, dell’orientamento espresso con la (precitata) sentenza n.15605/2017, sì da sancire il superamento dell’alternativa tra la sospensione dell’esecuzione e la sua improcedibilità, optando senz’altro per quest’ultima. In altre parole, il giudice dell’esecuzione, allorquando ravvisi un vizio (intrinseco) del titolo esecutivo (o meglio, del documento azionato) tale da escluderne la sua giuridica esistenza come titolo esecutivo, dovrebbe (come ha fatto il Tribunale di Potenza) optare senz’altro per la declaratoria di improseguibilità dell’esecuzione: e ciò anche nell’ipotesi in cui il (ravvisato) vizio sia il medesimo denunciato col rimedio ex art. 615 c.p.c.

Tale opzione interpretativa rileverebbe sotto un duplice aspetto.

Da un lato, risulterebbe in linea con i poteri officiosi del giudice dell’esecuzione e, quindi, col suo ruolo di centralità nel corso della procedura esecutiva, conformemente all’intentio legis (v. supra).

Dall’altro, risulterebbe vantaggiosa per i soggetti coinvolti: i creditori non correrebbero il rischio di vedere il processo esecutivo arrestarsi a distanza di molti anni dal suo inizio ed il debitore non sarebbe esposto ad un’esecuzione illegittima in particolare quando il documento (impropriamente) utilizzato dal creditore come titolo esecutivo solo apparentemente rientri nell’area di previsione dell’art. 474 c.p.c.: ciò, oltre che nel caso caso deciso dal Giudice dell’esecuzione del Tribunale di Potenza – avente ad oggetto un titolo stragiudiziale – anche alle ipotesi in cui detto titolo sia di formazione giudiziale. Anche in tale evenienza, infatti, il titolo – ancorché contenente l’affermazione dell’esistenza dell’obbligo ad una prestazione – può non costituire il presupposto per l’esecuzione coattiva, come accade allorché il capo condannatorio sia legato (inscindibilmente) al capo costitutivo della decisione.[16]

Analoga riflessione dovrebbe coinvolgere anche il legislatore, spingendolo a valutare l’inserimento di una norma di “sbarramento”, per porre un limite temporale all’accertamento circa l’idoneità del titolo: si potrebbe, ad esempio, pensare che l’ordinanza di vendita contenga un’implicita pronuncia sulla validità del titolo azionato dal pignorante e che, pertanto, sarebbe rimuovibile solo attraverso l’opposizione agli atti esecutivi, con la conseguenza che, in difetto, la validità del titolo non potrebbe più essere messa in discussione. Né, in verità, s’introdurrebbe una discrasia nel sistema, atteso che si farebbe applicazione di un principio proprio del giudicato (res iudicata facit de albo nigrum), rendendo incontestabile l’accertamento di situazioni non più rivisitabili per effetto di decadenza, ossia l’istituto fondante le preclusioni connesse alla regiudicata.

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Note

[1] Così, Verde, nella sua relazione al XV Convegno Nazionale dell’Associazione Italiana fra gli studiosi del processo civile – Bari, 4-5 ottobre 1985.

[2] Lombardi, Il periculum dell’art. 283 c.p.c.: concordanze e discordanze tra le corti di merito, in www.judicium.it, 23.07.2018.

[3] Così, Corsaro – Bozzi, Manuale dell’esecuzione forzata, Milano, 1987, pag.7.

[4] Correlata a tale principio è la regola del numerus clausus dei titoli esecutivi: sul punto, v. Capponi, Del titolo esecutivo e del precetto, in Commentario del codice di procedura civile, diretto da Comoglio, Consolo, Sassani, Vaccarella, vol. VI, Torino, 2013, pag. 4 e ss.; Castoro, Il processo di esecuzione nel suo aspetto pratico, Milano, 1998, pag. 7 e ss.

[5] Così, già App. Palermo, 27.09.1957, in Giust. civ., Rep. 1957, voce Esecuzione forzata in genere, n.167.

[6] Di qui, l’aspra critica di Delle Donne a Cass., ss.uu., 2.07.2012, n. 11067, In morte della regola “nulla executio sine titulo”: impressioni su S.U. n.11067/2012, in www.judicium.it.

[7] Cass., 12.06.1968, n. 1883, in Foro it., Rep. 1968, voce Esecuzione forzata in genere, n.16; Cass., 10.04.1973, n. 1041, in Giust. civ., 1974, I, 117. Coerentemente era stato affermato che la successiva dichiarazione di estinzione dell’appello, in quanto operante retroattivamente (art. 307, 4° co., c.p.c.), non incideva sulla validità dell’esecuzione in precedenza intrapresa: Cass., 19.08.1964, n. 2336, in Giust. civ, 1964, I, 2186; Cass., 1.04.1958, n. 1132, in Foro it., 1958, I, 1214; Cass., 5.08.1961, n. 1910, in Mon. trib., 1963, 1104).

[8] Cfr., Cass., 22.06.2017, n.15605; Cass., 19.05.2011, n. 11021; Cass., 28.07.2011, n. 16610, Cass., 26.03.2003, n. 4491; Cass. 9.07.2001, n. 9293; Cass., 23.06.2000, n.8559 e Cass., 10.09.1996, n. 8215.

[9] Così, Cass., 22.06.2017, n.15605 cit.

[10] Così, Cass., 22.06.2017, n.15605 cit.

[11] Cfr., Cass., 15.07.2008, n.19436, in Giust. civ., 2009, 2, I, 375; Cass., 31.05.2019, n.14873, in Dir. & Giust., 3.06.2019, con nota di Summa.

[12] Ovviamente, come chiarito da Felloni, Interferenze tra improcedibilità dell’esecuzione e sospensione ex art. 624 c.p.c., in Giur. it., 2017, 11, 2385, resta precluso al giudice dell’esecuzione il potere di introdurre fatti non concernenti la validità del titolo e, cioè, i fatti modificativi, impeditivi ed estintivi del diritto azionato, i quali possono essere fatti valere, mediante l’opposizione all’esecuzione, soltanto dal debitore.

[13] Ossia le «cause estintive classiche», come le definisce Castoro, Il processo di esecuzione nel suo aspetto pratico, cit., pag. 883.

[14] Cass., 18.10.2018, n.26275; Cass., 28.6.2019, n.17440; Cass., 29.4.2020, n.8404.

[15] In dottrina, V. Oriani, Il processo esecutivo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1993, 303 e ss; ID., L’opposizione agli atti esecutivi, Napoli, 1987, pag. 149; Felloni, Interferenze tra improcedibilità dell’esecuzione e sospensione, cit. In giurisprudenza, v. Cass., 23.12.2008, n.30201; Cass., 28.09.2011, n.19858; Cass., 20.12.1991, n.13771, in Giust. civ., 1992, 1816; Trib. Cassino, 29.06.1990, in Foro it., 1992, I, 235.

[16] Sul punto si registrano interventi chiarificatori: v., ad es., Cass., ss.uu., 22.02.2010, n.4059, in Guida al diritto 2010, 11, con nota di Piselli, nonché Cass.,3.05.2016, n. 8693, ove è precisato che la provvisoria esecutività della sentenza ex art. 2932 c.c. sia circoscritta ai soli capi della decisione compatibili con la produzione dell’effetto costitutivo in un momento successivo, mentre non si estende a quei capi che si collocano in rapporto di stretta sinallagmaticità con i capi costitutivi relativi alla modificazione giuridica sostanziale, sicché non può essere riconosciuta al capo concernente il trasferimento dell’immobile contenuto nella sentenza di primo grado, né alla relativa condanna al rilascio, producendosi l’effetto traslativo della proprietà solo col passaggio in giudicato.

Vito Carella

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