Fatto
La vicenda che ha dato origine alla decisione oggetto del presente commento riguarda la cattiva esecuzione di un intervento chirurgico che ha provocato uno stato permanente di instabilità a carico del rachide del paziente, comportando la necessità di vari interventi chirurgici di stabilizzazione.
In considerazione delle suddette conseguenze negative dell’intervento chirurgico, il paziente decideva di citare in giudizio l’istituto clinico presso il quale era stato operato nonché il medico che lo aveva operato, in quanto ritenuti entrambi responsabili della cattiva riuscita della operazione, per richiedergli il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti. L’istituto clinico, costituitosi in giudizio, richiedeva il rigetto della domanda, sostenendo che non fosse stato rilevato dalla parte attrice nessun addebito per le carenze strutturali o organizzative della struttura sanitaria e, altresì, che non vi era stata nessuna contestazione riguardante il malfunzionamento dei macchinari dell’istituto clinico. Inoltre, sosteneva che non vi fosse alcun rapporto di lavoro subordinato tra l’azienda e il medico. Per questi motivi, chiedeva altresì di agire in regresso nei confronti del medico, qualora fosse stata condannata. Il medico, costituitosi anch’esso in giudizio, a sua volta, negava ogni tipo di responsabilità a suo carico e chiamava in causa la compagnia assicurativa per essere manlevato da un eventuale condanna al risarcimento danni per responsabilità professionale.
Il Tribunale di Milano accoglieva la domanda attorea e condannava in solido l’istituto clinico e il medico, accertando un riparto interno di responsabilità tra i due soggetti pari al 50% e respingendo ogni domanda di regresso.
A questo punto, l’istituto clinico e il medico, non accettando la decisione del Tribunale, proponevano entrambi ricorso in Appello avverso la sentenza di primo grado. L’istituto clinico lamentava sia la mancanza di prove a sostegno della sua responsabilità, sia l’assenza di corresponsabilità con il medico, in quanto solamente quest’ultimo aveva la piena responsabilità dell’accaduto: conseguentemente, richiedeva che fosse accolta interamente la sua domanda di regresso nei confronti del sanitario. Il medico, dall’altra parte, lamentava un’erronea valutazione del grado di colpa al fine di poter essere manlevato dalla compagnia assicurativa.
Anche in questo caso, la Corte d’Appello rigettava totalmente entrambi i gravami confermando integralmente la sentenza di primo grado e, dunque, sostenendo anch’essa la presenza di una responsabilità in solido tra le due parti pari al 50%.
L’istituto clinico decideva, quindi, di ricorrere in Cassazione adducendo un solo motivo di ricorso: la non corretta applicazione dell’art. 1298 c.c. da parte della Corte d’Appello. Secondo l’azienda, infatti, la corte territoriale ha sbagliato nel ritenere che vi fosse una responsabilità in solido in ragione del mancato accertamento di una responsabilità esclusiva in capo al medico o di una responsabilità in percentuale diversa tra i due soggetti, in quanto il fatto che fosse stato il medico ad effettuare un intervento su un soggetto che non doveva essere operato e il fatto che il comportamento del personale dell’istituto clinico sia stato ineccepibile, non avendo ritardato nei suoi interventi, anche in considerazione delle complicanze sorte dopo l’intervento, erano chiari sintomi che la colpa fosse esclusivamente del medico o che almeno vi fossero percentuali di responsabilità differenti.
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La decisione della Corte di Cassazione
Gli Ermellini hanno dichiarato inammissibile il ricorso e conseguentemente hanno confermato la decisione di secondo grado che aveva stabilito la corresponsabilità al 50% dell’istituto clinico e del medico.
Secondo la Corte di Cassazione, il motivo di ricorso, così come prospettato dalla parte ricorrente, va ritenuto “capzioso”.
Infatti, la Corte d’Appello aveva bene applicato il combinato disposto tra gli artt. 2049 c.c. e 1228 c.c., dalla cui interpretazione risulta che l’istituto clinico, avendo assunto il medico, aveva contemporaneamente assunto su di sé una pluralità di obbligazioni derivanti dal contratto di spedalità. La responsabilità della struttura sanitaria, infatti, è una responsabilità definita a doppio binario, in quanto essa può essere originata da due fatti distinti:
- l’inadempimento di quegli obblighi che presiedono per legge all’erogazione del servizio sanitario (i quali, ad esempio, danno luogo a responsabilità per infezioni nosocomiali, per difetto di organizzazione e per carenze tecniche, per mancata sorveglianza);
- l’attività illecita, trovante occasione nell’erogazione del servizio sanitario, imputabile a coloro della cui attività il nosocomio si sia avvalso, ex art. 1228 c.c.
Per questi motivi, non si può ritenere che l’attività resa dal medico in questione fosse totalmente slegata dal più ampio complesso delle scelte organizzative, di politica sanitaria e di razionalizzazione dei propri servizi operate dalla struttura, in quanto il medico faceva parte di tutto ciò. Infatti, l’art. 1228 c.c., che prevede la responsabilità per illeciti commessi dagli ausiliari, denota una responsabilità non per colpa “in eligendo” o colpa “in vigliando”, ma piuttosto per il rischio connaturato all’utilizzazione dei terzi nell’adempimento dell’obbligazione. Pertanto, qualora un ospedale decida liberamente come adempiere la propria obbligazione, automaticamente assume su di sé tutti i rischi connessi alla propria scelta organizzativa.
Nel caso in questione, la corte d’Appello lombarda, nonostante la correttezza dell’operato dell’ospedale, ha giustamente condannato anche l’istituto clinico in quanto tenuto a rispondere dei pregiudizi causati dal medico scelto per l’adempimento della propria obbligazione. L’accertamento della responsabilità in capo al medico, dunque, non fa venire meno la responsabilità della struttura ai sensi dell’art. 1228 c.c., né l’onere di dimostrare l’esatto adempimento ex art. 1218 c.c.
Ed è proprio sull’onere probatorio che gli Ermellini si sono concentrati nella seconda parte della pronuncia, sostenendo che spetti all’ospedale, al fine di vincere la presunzione di responsabilità di pari contribuzione al danno causato dal medico al paziente, provare la diversa misura delle colpe e della derivazione causale del sinistro. Infatti, è prettamente onere dell’ospedale dimostrare non solo la colpa esclusiva del medico, ma altresì la totale estraneità dell’operato di quest’ultimo alle scelte organizzative della struttura sanitaria, poiché, in assenza di prove della responsabilità del medico come grave, ma anche come straordinaria, soggettivamente imprevedibile e oggettivamente improbabile “malpractice”, è correttamente suddivisa la responsabilità in misura paritaria ex art. 1298 c.c.
Ebbene, nel caso di specie, secondo gli Ermellini la struttura sanitaria non ha dimostrato con specifiche contestazioni la sua totale estraneità all’accaduto, la responsabilità assorbente del medico, né tantomeno la sua diversa percentuale di responsabilità e, per questi motivi, è corretta la decisione assunta dalla Corte d’Appello di condannarla in solido con il medico, in quanto, essendosi avvalsa della collaborazione di quest’ultimo, la struttura è tenuta automaticamente a rispondere dei danni da questo causati.
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