Il fatto
La Corte di appello di Venezia dichiarava sussistenti le condizioni per l’accoglimento della richiesta di consegna di cui taluni mandati di arresto europei emessi dalla Corte di appello di Budapest nei confronti di un cittadino ungherese tratto in arresto in Italia con provvedimento poi convalidato e con successiva applicazione cella misura della custodia cautelare in carcere.
Rilevava la Corte di appello come il mandato di arresto europeo fosse stato adottato per dare esecuzione a due sentenze del Tribunale con il quale il prevenuto era stato condannato per i reati di ‘vandalismo’ a mano armata e di rapina e, come tali, questi illeciti penali rientrassero nel novero di quelli per i quali la legge 22 aprile 2005, n. 69 (contenente le “Disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2002/534/GAI del Consiglio del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri”) prevede la consegna obbligatoria e, comunque, come gli stessi avesse corrispondenza con analoghi reati di minaccia aggravata e di rapina previsti dal codice penale italiano; ed ancora, come i risultati delle indagini avessero escluso uno stabile radicamento del predetto in Italia.
I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Avverso tale sentenza presentava ricorso il prevenuto, con atto sottoscritto dal suo difensore, il quale, con due distinti punti, deduceva la violazione di legge per avere la Corte distrettuale riconosciuto la sussistenza delle condizioni per la consegna all’estero, benché l’autorità giudiziaria straniera non avesse trasmesso le copie delle sentenze di condanna da eseguire; e nonostante il prevenuto si trovava stabilmente in Italia da sei anni, a Mestre, e se, trasferito in un carcere in Ungheria, sarebbe stato sottoposto a trattamenti disumani e degradanti a causa del malfunzionamento e del sovraffollamento negli istituti carcerari di quello Stato straniero.
Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
Il ricorso veniva dichiarato inammissibile per le seguenti ragioni.
Si osservava a tal proposito che costituisce ius receptum nella giurisprudenza di legittimità il principio secondo il quale la Corte di Appello, competente a decidere sulla richiesta di consegna contenuta in un mandato di arresto europeo pervenuto in Italia, non può dare corso alla domanda formulata dall’autorità giudiziaria straniera solo laddove dallo stesso mandato d’arresto europeo o dalla documentazione trasmessa non sia in alcun modo desumibile l’indicazione precisa del provvedimento su cui si basa l’istanza, dovendosi in questo senso interpretare la disposizione dettata dall’art. 6 della legge n. 69 del 2005 che richiede l’allegazione al mandato di quel provvedimento (così Sez. Pen., n. 46298 del 11/12/2008) tenuto conto altresì del fatto che, d’altro canto, l’art. 6, comma 4, lett. a), legge cit. – cui vi è più diretto riferimento nell’odierna impugnazione – nel prescrivere che al mandato di arresto europeo debba essere allegata una relazione sui fatti addebitati alla persona della quale è stata domandata la consegna, con l’indicazione delle fonti di prova, del tempo e dei luoghi di commissione degli stessi fatti, non richiede affatto che tale relazione si sostanzi nel provvedimento cui si vuole dare esecuzione, ben potendo essa essere contenuta nel corpo del medesimo mandato di arresto, se il controllo affidato all’autorità giudiziaria sulla motivazione ex art. 17, comma 4, o sui gravi indizi di colpevolezza ex art. 18, comma 1, lett. t), possa essere comunque effettuato – come nella fattispecie è accaduto, con una analitica descrizione delle fonti di prova, contestata dalla difesa in termini molto generici – sui mandato di arresto europeo (così, tra le molte, Sez. F, n. 33218 del 28/07/2016).
Ciò posto, anche il secondo motivo dal ricorso era stimato privo di pregio essendo espressione di un consolidato orientamento interpretativo della giurisprudenza della Cassazione il principio secondo il quale, in tema di mandato di arresto europeo, la nozione di “residenza“, rilevante ai fini del rifiuto della consegna, presuppone un radicamento reale e non estemporaneo della persona nello Stato, desumibile da una serie di indici rivelatori, quali la legalità della presenza in Italia, l’apprezzabile continuità temporale e stabilità della stessa, la distanza temporale tra quest’ultima e la commissione del reato e la condanna conseguita all’estero, la fissazione in Italia della sede principale e consolidata degli interessi lavorativi, familiari ed affettivi, e il pagamento eventuale di oneri contributivi e fiscali (così, tra le tante, Sez. 6, n. 19389 del 25/06/2020) denotandosi contestualmente come di tale criterio esegetico, ad avviso del Supremo Consesso, la Corte di Appello di Venezia ne avesse fatto buon governo escludendo che l’indicata causa di rifiuto potesse trovare applicazione nei confronti del cittadino ungherese prevenuto, risultato presente in Italia senza però alcuna stabile dimora o alcune titolarità di lavoro lecito: situazione, dunque, in cui, per il Supremo Consesso, erano evidentemente essenti i presupposti di una continuativa e stabile presenza della ricorrente sul territorio dello Stato italiano.
La connessa doglianza difensiva relativa al rischio che il prevenuto correrebbe in Ungheria di essere sottoposto in carcere a trattamenti disumani e degradanti non superava quindi per la Corte il vaglio preliminare di ammissibilità in quanto a suo avviso formulata in termini molto indeterminati e per la prima volta solo con il ricorso per cassazione laddove, nel giudizio di legittimità, non è possibile porre questioni che, pur presupponendo l’esercizio di un consentito sindacato di merito, avrebbero tuttavia comportato il compimento di un’attività di integrazione istruttoria che andava necessariamente richiesta alla Corte di Appello dinanzi alla quale la questione andava, dunque, espressamente dedotta sollecitando ogni più opportuna verifica fattuale (in questo senso tra le altre, Sez. 6, n. 24540 del 04/06/2015).
Conclusioni
La decisione in esame è assai interessante in quanto è ivi chiarito, in materia di arresto europeo, quando la Corte di Appello non può dare corso alla domanda formulata dall’autorità giudiziaria straniera.
Difatti, citandosi giurisprudenza conforme, è postulato in questa pronuncia, da un lato, che la Corte di Appello, competente a decidere sulla richiesta di consegna contenuta in un mandato di arresto europeo pervenuto in Italia, non può dare corso alla domanda formulata dall’autorità giudiziaria straniera solo laddove dallo stesso mandato d’arresto europeo o dalla documentazione trasmessa non sia in alcun modo desumibile l’indicazione precisa del provvedimento su cui si basa l’istanza, dovendosi in questo senso interpretare la disposizione dettata dall’art. 6 della legge n. 69 del 2005 che richiede l’allegazione al mandato di quel provvedimento, dall’altro, che l’art. 6, comma 4, lett. a), legge cit., nel prescrivere che al mandato di arresto europeo debba essere allegata una relazione sui fatti addebitati alla persona della quale è stata domandata la consegna, con l’indicazione delle fonti di prova, del tempo e dei luoghi di commissione degli stessi fatti, non richiede affatto che tale relazione si sostanzi nel provvedimento cui si vuole dare esecuzione, ben potendo essa essere contenuta nel corpo del medesimo mandato di arresto, se il controllo affidato all’autorità giudiziaria sulla motivazione ex art. 17, comma 4, o sui gravi indizi di colpevolezza ex art. 18, comma 1, lett. t), possa essere comunque effettuato con una analitica descrizione delle fonti di prova sul mandato di arresto europeo.
Tale sentenza, quindi, deve essere presa nella dovuta considerazione al fine di appurare quando la Corte di Appello non può dare corso alla domanda formulata dall’autorità giudiziaria straniera per quanto concerne il mandato di arresto europeo.
Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatto provvedimento, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su cotale tematica procedurale, dunque, non può che essere positivo.
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