In materia di diffamazione, cosa occorre considerare per verificare il requisito della continenza ai fini del legittimo esercizio del diritto di critica

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(Annullamento senza rinvio)

(Normativa di riferimento: C.p. artt. 51, 595)

Il fatto

Con sentenza del 12 settembre 2016, la Corte d’appello di Napoli aveva, in riforma della decisione del tribunale di Santa Maria Capua Vetere del 28 gennaio 2013, con la quale era stata affermata la responsabilità penale di C. D. F. in ordine al reato di diffamazione aggravata, dichiarato l’estinzione del reato per prescrizione.

I fatti riguardavano la diffusione di un volantino, poi trasfuso in una pubblicazione sul quotidiano ““, contenente affermazioni lesive della reputazione di L. M., Presidente provinciale della …, profferite nell’ambito di un risalente contrasto, acuitosi nel corso della campagna elettorale per il rinnovo della carica, e relative a fatti che avevano dato luogo al commissariamento dell’ente.

I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso la sentenza proponeva posto ricorso l’imputato, per il tramite del difensore, Avv. A. B., articolando i tre seguenti motivi: a) censura della sentenza impugnata in riferimento all’esclusione della causa di giustificazione del diritto di critica, in presenza di manifestazioni di censura legittimate dalla condotta del M., successivamente destituito dalla carica ed anche indagato, ritenute invece penalmente rilevanti dalla corte territoriale in violazione dei principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità; b) vizio della motivazione sotto forma di travisamento della prova per avere la corte d’appello escluso il ruolo di avversario politico rivestito, in ambito associativo, dal M., come risulta dalle deposizioni testimoniali (B., dirigente nazionale della …, M. e S.); c) mancata assunzione di prova decisiva non avendo la corte d’appello ammesso la acquisizione documentale comprovante lo scontro politico e giudiziario intercorso tra la persona offesa e la C. nella sue articolazioni regionale e nazionale.

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

Il Supremo Consesso accoglieva il ricorso proposto alla stregua delle seguenti considerazioni.

Si faceva presente in via preliminare che, nel giudizio di cassazione, l’obbligo di dichiarare una più favorevole causa di proscioglimento ex art. 129 cod. proc. pen., ove risulti l’esistenza della causa estintiva della prescrizione, opera nei limiti del controllo del provvedimento impugnato, in conformità ai limiti di deducibilità del vizio di motivazione, la quale, a norma dell’art. 606 cod. proc. pen., deve risultare dal testo del provvedimento impugnato (Sez. 6, n.48461 del 28/11/2013, omissis, Rv. 258169, N. 9944 del 2000 Rv. 217255, N. 10216 del 2003 Rv. 223575, N. 27944 del 2008 Rv. 240955, N. 35627 del 2012 Rv. 253458) e, una volta dedotto ciò, ad avviso della Corte, si appalesava evidente l’erronea valutazione della causa di giustificazione operata dalla corte territoriale.

Si osservava a tal proposito come, dal testo del provvedimento impugnato, le espressioni censurate fossero state profferite nell’ambito di una accesa contestazione, insorta in ambito confederativo, verso il Presidente provinciale della C. L. M., a cui venivano addebitati comportamenti scorretti che avevano dato luogo al commissariamento dell’ente e persino all’iscrizione del medesimo nel registro degli indagati per reati commessi nell’esercizio del mandato fermo restando che siffatta contrapposizione si era, poi, acuita nel corso della campagna elettorale per il rinnovo della carica, nel cui ambito le rilevate criticità erano state agitate per rimarcare l’inaffidabilità del presidente uscente e, pertanto, in un contesto competitivo così connotato, che risultavano formulate le espressioni riportate nell’imputazione, riferite a vigliaccheria del M. nell’evitare il confronto ed affrontare le critiche relative alla criticabile gestione, ed al declino inarrestabile del personaggio.

Posto ciò, ad avviso dei giudici di Piazza Cavour, era evidente dallo stesso tenore del testo del comunicato come il D. F. – in qualità di iscritto alla confederazione e dunque legittimato dal suo ruolo politico ed amministrativo nello specifico settore – avesse voluto offrire all’attenzione della pubblica opinione il proprio punto di vista sulla figura del presidente ricandidatosi e provocare una approfondita riflessione su di un tema di rilevante interesse pubblico, quale la credibilità di un aspirante al ruolo di vertice che aveva, invece, dimostrato nel corso del mandato di non saper gestire la confederazione, tanto da essere commissariata; tema vieppiù di interesse del contesto ambientale di riferimento, essendo stato il M. denunciato per reati commessi nell’espletamento del mandato in guisa tale che la tematica ivi sollevata riguardasse una questione di interesse della pubblica opinione in genere e degli iscritti alla confederazione in particolare riferendosi alla sostanziale legittimazione del M. alla presidenza ed avente ad oggetto una vicenda non solo potenzialmente suscettibile di approfondimento, ma effettivamente nota all’opinione pubblica e portata all’attenzione anche dell’autorità giudiziaria.

Una volta ricostruite le coordinate fattuali dell’imputazione, gli ermellini rilevavano come, in punto di diritto, premesso che la sussistenza dell’esimente del diritto di critica presuppone, per sua stessa natura, la manifestazione di espressioni oggettivamente lesive della reputazione altrui, la cui offensività possa, tuttavia, trovare giustificazione nella sussistenza dello stesso diritto (Sez. 5, n. 3047 del 13/12/2010 – dep. 27/01/2011, omissis, Rv. 249708), l’esercizio di sìffatto diritto consentisse il ricorso anche ad espressioni forti e persino suggestive al fine di potenziare l’efficacia del discorso o del testo e richiamare l’attenzione dell’interlocutore destinatario.

Difatti, come dedotto in questa pronuncia, in tema di esimenti del diritto di critica e di cronaca, la giurisprudenza della Cassazione si è espressa in termini consolidati in riferimento ai requisiti caratterizzanti il necessario bilanciamento degli interessi in conflitto, individuati nell’interesse sociale all’informazione, nella continenza del linguaggio e nella verità del fatto narrato e, in tale ottica, è stato evocato anche il parametro dell’attualità della notizia, nel senso che una delle ragioni fondanti della esclusione della antigiuridicità della condotta lesiva della altrui reputazione deve essere ravvisata nell’interesse generale alla conoscenza del fatto nel momento storico, e dunque nell’attitudine della informazione a contribuire alla formazione della pubblica opinione, in modo che il cittadino possa liberamente orientare le proprie scelte nel campo della formazione sociale, culturale e scientifica (tra le tante, Sez. 5, n. 39503 del 11/05/2012, omissis, Rv. 254789).

I giudici di legittimità ordinaria facevano altresì presente che, con specifico riferimento al diritto di critica politica, il rispetto del principio di verità si declina peculiarmente, assumendo limitato rilievo, necessariamente affievolito rispetto alla diversa incidenza che il medesimo dispiega sul versante del diritto di cronaca in quanto la critica, quale espressione di opinione meramente soggettiva, ha per sua natura carattere congetturale che non può, per definizione, pretendersi rigorosamente obiettiva ed asettica (Sez. 5, n.25518 del 26/09/2016, Rv. 270284, Sez. 5, n.7715 del 04/11/2014 – dep. 2015 Rv. 264064, Sez. 5, n. 4938 del 28/10/2010 – dep. 2011, Rv. 249239), e siffatta impostazione si pone in linea con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo secondo cui l’incriminazione della diffamazione costituisce una interferenza con la libertà di espressione e quindi contrasta, in principio, con l’art. 10 CEDU, a meno che non sia «prescritta dalla legge», non persegua uno o più degli obiettivi legittimi ex art. 10 par. 2 e non sia «necessaria in una società democratica» stante il fatto che, in riferimento agli enunciati limiti, la Corte EDU, da un lato, ha, in varie pronunce, sviluppato il principio inerente la ‘verità del fatto narrato’ per ritenere ‘giustificabile’ la divulgazione lesiva dell’onore e della reputazione: ed ha declinato l’argomento in una duplice prospettiva, distinguendo tra dichiarazioni relative a fatti e dichiarazioni che contengano un giudizio di valore, sottolineando come anche in quest’ultimo caso sia comunque sempre contenuto un nucleo fattuale che deve essere sia veritiero che oggettivamente sufficiente per permettere di trarvi il giudizio, versandosi, altrimenti, in affermazione offensiva ‘eccessiva‘ e non scriminabile perché assolutamente priva di fondamento o di concreti riferimenti fattuali, dall’altro, nell’addivenire a siffatta conclusione giuridica, si è riferita principalmente al diritto di critica, politica, etica o di costume e, in generale, a quel diritto strettamente contiguo, sempre correlato con il diritto alla libera espressione del pensiero che è il diritto di opinione indicando quali siano i limiti da non travalicare nel caso di critica politica osservandosi al contempo che, in questa prospettiva, si è posta la sentenza CEDU Mengi vs. Turkey, del 27.2.2013 che, secondo quanto dedotto dalla Cassazione in questa decisione, costituisce la più avanzata ricognizione della posizione della Corte in materia di art. 10 della Carta nella distinzione tra diritto di critica e diritto di cronaca, distinguendo tra statement of facts (oggetto dì prova) e value judgements (non suscettibili di dimostrazione), rilevando come nel secondo caso il potenziale offensivo dell’articolo o dello scritto, nel quale è tollerabile – data la sua natura – ‘exaggeration or even provocation’, sia neutralizzato dal fatto che lo scritto si basi su di un nucleo fattuale (veritiero e rigorosamente controllabile) sufficiente per poter trarre il giudizio di valore negativo; se il nucleo fattuale è insufficiente, il giudizio è ‘gratuito’ e pertanto ingiustificato e diffamatorio.

Tal che, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, si giungeva alla conclusione secondo la quale, ove il giudice pervenga, attraverso l’esame globale del contesto espositivo, a qualificare quest’ultimo come prevalentemente valutativo, i limiti dell’esimente sono costituiti dalla rilevanza sociale dell’argomento e dalla correttezza di espressione (Sez. 5, n. 2247 del 02/07/2004, Rv. 231269; Sez. 1, n. 23805 del 10/06/2005, Rv. 231764) e di conseguenza, siffatto limite è costituito dal fatto che la questione trattata sia di interesse pubblico e che, comunque, non si trascenda in gratuiti attacchi personali (Sez. 5, n. 8824 del 01/12/2010, Rv. 250218; Sez. 5, n. 38448 del 25/09/2001, Rv. 219998).

Si evidenziava oltre a ciò che, in un quadro di valori di riferimento così peculiarmente connotato, andasse poi considerato il depotenziamento della carica semantica di talune espressioni in riferimento al contesto in cui vengono utilizzate, quale quello politico, in cui la critica assume spesso toni aspri e vibrati, ed il rilievo secondo cui la critica può assumere forme tanto più incisive e penetranti quanto più rilevante sia la posizione pubblica del destinatario (Sez. 5, n. 27339 del 13/06/2007, Rv. 237260) in guisa tale che il livello e l’intensità, pur notevoli, delle censure indirizzate sotto forma di critica a coloro che occupano posizioni di tutto rilievo nella vita pubblica, non escludono l’operatività della scriminante, poiché nell’ambito politico risulta preminente l’interesse generale al libero svolgimento della vita democratica (Sez. 5, n. 15236 del 28/01/2005, 232125) e di conseguenza quanto maggiore è il potere esercitato, tanto maggiore è l’esposizione alla critica, perché chi esercita poteri pubblici deve essere sottoposto ad un rigido controllo sia da parte dell’opposizione politica che dei cittadini (Sez. 5, n. 11662 del 06/02/2007, Rv. 236362).

Tal che, applicando gli enunciati principi al caso in esame, si appalesava, ad avviso della Corte, evidente l’erronea applicazione dell’art. 51 cod. pen. e la manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata in ordine alla sussistenza della scriminante stante il fatto che l’imputato si era limitato ad evidenziare il declino politico di un presidente al centro di aspre contestazioni, risalenti al 2004, e in un contesto quindi prodromico alla sua candidatura a ricoprire nuovamente una carica di vertice non solo criticata, ma che aveva addirittura determinato il commissariamento dell’ente e l’approfondimento in sede giudiziale della rilevanza penale delle contestate condotte, formulando valutazioni espresse con un linguaggio del tutto consono alla sede e congruo in riferimento ai fatti rappresentati e dunque, alla luce di ciò, si riteneva come non potesse ritenersi che l’imputato avesse posto in essere una gratuita aggressione alla persona del querelante che peraltro rivestiva una posizione di notorietà nel locale contesto proprio per la carica rivestita e le polemiche che aveva generato.

Si evidenziava a tal riguardo, una volta messo in risalto che, in tema di diffamazione, nella valutazione del requisito della continenza, necessario ai fini del legittimo esercizio del diritto di critica, si deve tenere conto del complessivo contesto dialettico in cui si realizza la condotta e verificare se i toni utilizzati dall’agente, pur aspri e forti, non siano gravemente infamanti e gratuiti, ma siano, invece, comunque pertinenti al tema in discussione (Sez. 5, n.4853 del 18/11/2016 – dep.2017 Rv. 269093, N. 13735 del 2006 Rv. 233986, N. 48712 del 2014 Rv. 261489, N. 5695 del 2015 Rv. 262531, N. 7244 del 2015 Rv. 267137, N. 7715 del 2015 Rv. 264064, N. 4298 del 2016 Rv. 266026, N. 37397 del 2016 Rv. 267866, N. 41414 del 2016 Rv. 267865), come nel testo del volantino – e della successiva pubblicazione – andasse riconosciuto il requisito della continenza con riferimento all’art. 51 cod. pen., così come declinato nella giurisprudenza elaborata in sede nomofilattica nei termini di proporzione, misura e continenti, che non hanno equivalenti e non sono sproporzionati rispetto ai fini del concetto da esprimere e alla controllata forza emotiva suscitata dalla polemica su cui si vuole instaurare un lecito rapporto dialogico e dialettico atteso che la continenza formale non equivale a obbligo di utilizzare un linguaggio grigio e anodino, ma consente il ricorso a parole sferzanti, nella misura in cui siano correlate al livello della polemica, ai fatti narrati e rievocati (in tal senso: Sez. 5, n. 3356 del 27/10/2010) tanto più se si considera che la prospettazione del declino del presidente era stata formulata non già quale critica decontestualizzata al M., bensì quale indicatore della mancanza di rappresentatività del medesimo in seno alla C., con ulteriore depotenziamento di una pretesa offensività ad hominem, apparendo all’evidenza l’interesse del D. F. finalizzato alla tutela della credibilità dell’ente e non all’indiscriminata lesione della reputazione del querelante.

Da ciò se ne faceva inferire, come ulteriore corollario, che Il tenore delle espressioni adoperate, non solo non esorbitasse dal taglio proprio connesso al ruolo di iscritto del propalante, ma rendesse, per di più, comunque ultroneo il richiamo del limite allargato del principio di continenza che, come viene rammentato in questa sentenza, comunque ricorre in presenza di modalità espressive ironiche, irridenti o sarcastiche, quali manifestazioni di legittima polemica in ordine a contrapposte opinioni e comportamenti comunque di interesse pubblico (Sez. 5, n. 13563 del 20/10/1998, omissis, Rv. 212994) dato che l’art. 21 Cost., analogamente all’art. 10 Cedu, non tutela unicamente le idee favorevoli o inoffensive o indifferenti, essendo al contrario principalmente rivolto a garantire la libertà proprio delle opinioni che “urtano, scuotono o inquietano“, con la conseguenza che di esse non può predicarsi un controllo se non nei limiti della continenza espositiva, che, una volta riscontrata, integra l’esimente del diritto di critica (Sez. 5, n. 25138 del 21/02/2007, Rv. 237248).

La Cassazione, di conseguenza, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, riteneva come le conclusioni, a cui era pervenuta la Corte d’appello di Napoli, non fossero, dunque, condivisibili poiché la critica era stata formulata con modalità che costituivano espressione della libertà di manifestazione del pensiero, che – mediante prospettazione di una obiettiva situazione di contrasto finalizzata alla rivendicazione della correttezza dell’azione – rientrasse nella scriminante dell’esercizio del diritto tutelato dall’art. 21 Cost. e 51 art. cod. pen. e, pertanto, dichiarava come la sentenza impugnata dovesse essere annullata senza rinvio perché il fatto non costituisce reato, con conseguente revoca delle statuizioni civili in essa contenute.

Conclusioni

La sentenza in esame è senza ombra di dubbio condivisibile in quanto in essa si chiarisce come e in che termini ricorre il requisito della continenza che, come è noto, a norma dell’art. 51 c.p., rende le dichiarazioni rese non punibili per diffamazione.

Il limite entro cui è configurabile questo requisito, dunque, come visto prima, è assai ampio atteso che rileva qualunque critica purchè la questione trattata sia di interesse pubblico e che, comunque, non si trascenda in gratuiti attacchi personali fermo restando che, da un lato, nel caso di critica enunciata nei confronti del politico (anche se, ad onor del vero, nel caso di specie, il destinatario della critica non era un esponente di un partito politico ma un dirigente di un’associazione di categoria volta alla tutela degli imprenditori agricoli), quanto maggiore è il potere esercitato, tanto maggiore è l’esposizione alla critica, perché chi esercita poteri pubblici deve essere sottoposto ad un rigido controllo sia da parte dell’opposizione politica che dei cittadini, dall’altro, si deve tenere conto del complessivo contesto dialettico in cui si realizza la condotta e verificare se i toni utilizzati dall’agente, pur aspri e forti, che possono tradursi anche in modalità espressive ironiche, irridenti o sarcastiche, sempreché non siano gravemente infamanti e gratuiti, ma siano, invece, comunque pertinenti al tema in discussione.

La portata applicativa del diritto di critica, pertanto, è assai ampio specie se esercitato nei confronti di chi riveste una pubblica funzione purchè ovviamente detto diritto non si tramuti in atteggiamenti meramente infamanti e gratuiti che, in quanto tali, non rappresentano un suo valido esercizio, quanto piuttosto un comportamento meramente diffamatorio che, in quanto tale, non può che essere qualificato come una condotta penalmente rilevante e perseguibile a norma dell’art. 595 c.p..

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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