In materia di persone giuridiche, chi assume la responsabilità per i reati previsti dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74?

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SOMMARIO: Il fatto – I motivi addotti nel ricorso per Cassazione – Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione – Conclusioni

Il fatto

La Corte d’Appello di Brescia confermava una sentenza del Tribunale di Mantova con la quale l’imputato era stato condannato, alla pena di anni uno di reclusione, in relazione al reato di cui all’art. 5 d.lgs 10 marzo 2000, n. 74 per avere, quale legale rappresentante di una società a responsabilità limitata, al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto, omesso la presentazione delle dichiarazioni fiscali per dette imposte per l’anno 2010, con evasione delle relative imposte superiore alle soglie di legge.

Vedasi su tale argomento: “Le novità introdotte dal D.Lgs n. 74/2000 in tema di reati tributari. L’art. 4 del decreto, sua analisi in merito alla c.d. “dichiarazione infedele

I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso il provvedimento summenzionato proponeva ricorso per Cassazione l’imputato, per il tramite del difensore, deducendo i seguenti motivi: 1) violazione di cui all’art. 606 comma 1 lett. b) ed e) cod. proc. pen. in relazione all’affermazione della responsabilità penale in capo al ricorrente e alla sussistenza del dolo specifico di evasione in presenza di elementi indiziari che avrebbe dovuto indurre l’esclusione dell’elemento soggettivo del reato essendo, al più, l’omissione della presentazione della dichiarazione imputabile a titolo di negligenza; 2) violazione di cui all’art. 606 comma 1 lett. b) cod. proc. pen. in relazione all’erronea applicazione della legge penale segnatamente l’art. 12 d.lgs 10 marzo 2000, n. 74 in quanto la Corte territoriale avrebbe confermato l’applicazione della pena accessorie dell’interdizione dai pubblici uffici per la durata di anni due, in violazione del disposto di cui all’art. 37 cod. pen. e dei principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui la durata delle pene accessorie temporanee deve essere uniformata alla durata della pena principale e, dunque, di anni uno; 3) violazione di cui all’art. 606 comma 1 lett. b) ed e) cod. proc. pen. in relazione all’erronea applicazione della legge penale segnatamente l’art. 12 bis d.lgs 10 marzo 2000, n. 74 e vizio di motivazione in relazione alla prova dell’impossibilità di eseguire la confisca diretta del profitto del reato e di accertamenti dell’insufficienza del patrimonio sociale.

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Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

Il primo motivo di ricorso era stimato inammissibile per la proposizione di censure meramente ripetitive di quelle già devolute al giudice dell’impugnazione e da quel giudice disattese con motivazione congrua, il che costituiva, per la Corte, causa di inammissibilità, fermo restando che, a parere di quest’ultima, esse erano altresì manifestamente infondate, rammentandosi a tal proposito il principio di diritto secondo il quale quando le sentenze di primo e secondo grado concordano nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, la struttura motivazionale della sentenza di appello si salda con quella precedente per formare un unico complessivo corpo argomentativo, sicché è possibile, sulla base della motivazione della sentenza di primo grado, colmare eventuali lacune della sentenza di appello (Sez. 4, n. 15227 del 14/02/2008).

Ciò posto, a fronte del fatto che non era stato oggetto di contestazione la condotta omissiva, essendo tale omissione provata per tabulas, gli Ermellini rilevavano come l’imputato, pur essendovi obbligato, nella sua qualità di legale rappresentante di una società a responsabilità limitata, al momento della scadenza dell’obbligo di presentazione della dichiarazione, avesse omesso la presentazione delle dichiarazioni fiscali con evasione delle imposte in misura superiore alla soglia di legge.

Oltre a ciò, veniva fatto altresì presente che, se la difesa deduceva come l’imputato avesse assunto la carica di amministratore di diritto nel giugno 2011, dopo averla già ricoperta fino al 24 febbraio 2011, ma si sarebbe trattato di una assunzione della carica in via meramente formale non essendosi occupato della gestione (c.d. testa di legno), sicchè l’omissione sarebbe stata imputabile a titolo di colpa e non sarebbe stato configurabile il dolo di evasione, i giudici di piazza Cavour osservavano come il reato previsto dall’art. 5 d.lgs 10 marzo 2000, n. 74 sia un reato omissivo proprio essendo soggetti attivi di questo coloro che sono obbligati alla presentazione di taluna delle dichiarazioni annuali previste dalla disposizione (Sez. 3, n. 9163 del 29/10/2009; Sez. 3, n. 37856 del 18/06/2015), soggetto tenuto alla presentazione delle dichiarazioni fiscali che, nel caso di società, si identifica nel legale rappresentante della stessa rilevandosi al contempo, da un lato, che tale carica era ricoperta, al momento della scadenza dell’obbligo tributario, dall’imputato, dall’altro, che, sul punto, la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha costantemente affermato che la responsabilità per i reati previsti dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, è attribuita all’amministratore, individuato secondo le norme civilistiche di cui agli artt. 2380 e ss., artt. 2455 e 2475 c.c., cioè a coloro che rappresentano e gestiscono l’ente posto che costoro, in quanto tali, sono tenuti a presentare e sottoscrivere le dichiarazioni rilevanti per l’ordinamento tributario di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 1, lett. c) ed e), adempiendo agli obblighi conseguenti, e ciò sulla base del principio secondo cui colui che assume la carica di amministratore si espone volontariamente a tutte le conseguenze che possono derivare da pregresse inadempienze tenuto conto altresì del fatto che l’obbligo della presentazione della dichiarazione dei redditi incombe direttamente sul contribuente e, in caso di persone giuridiche, su chi ne abbia la legale rappresentanza, tenuto a sottoscrivere la dichiarazione a pena di nullità (art. 1, comma 4, d.P.R. 22 luglio 1998, n. 322).

Precisato ciò, quanto al dolo del reato, oggetto di specifica censura, si evidenziava come la Corte di legittimità avesse affermato che, ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato in esame, la cui struttura materiale è rimasta immutata a seguito del d.lgs n. 158/2015, è necessaria la rappresentazione e volizione della omessa dichiarazione e del superamento della soglia di punibilità (dolo generico) e il dolo specifico di evasione in quanto il contribuente deve perseguire il “fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto” fermo restando che, in tema di reati tributari, la prova del dolo specifico di evasione, nel delitto di omessa dichiarazione (art. 5, D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74), può essere desunta dall’entità del superamento della soglia di punibilità vigente, unitamente alla piena consapevolezza, da parte del soggetto obbligato, dell’esatto ammontare dell’imposta dovuta (Sez. 3, n. 18936 del 19/01/2016).

Orbene, declinando tali criteri ermeneutici rispetto al caso di specie, gli Ermellini evidenziavano come a tali principi si fossero correttamente conformati i Giudici di merito i quali, ad avviso degli stessi giudici di legittimità ordinaria, con congrue e logiche argomentazioni, avevano ritenuto dimostrato il consapevole mancato adempimento all’obbligo di presentazione della dichiarazione che grava sull’imprenditore, in conseguenza di operazioni commerciali soggette a tale imposta, il cui fine era quello di evasione e tenuto conto anche dell’ammontare dell’evasione.

Ciò posto, il secondo motivo di ricorso veniva stimato manifestamente infondato avendo il Tribunale di Mantova applicato le pene accessorie di cui all’art. 12 d.lgs 10 marzo 2000, n. 74 in motivazione, specificandone la durata con ordinanza di correzione di errore materiale del dispositivo di sentenza letto in udienza, nonché applicata all’imputato la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per la durata di anni due, dell’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese per la durata di mesi sei, dell’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione per la durata di un anno, dell’interdizione dalle funzioni di rappresentanza ed assistenza in materia tributaria per la durata di un anno, dell’interdizione perpetua dall’ufficio di componente di commissione tributaria, oltre ad essere stata disposta la pubblicazione della sentenza sul sito internet del Ministero della Giustizia.

Inoltre, considerato che con ordinanza di correzione di errore materiale del dispositivo, ex art. 130 cod. proc. pen., il Tribunale di Mantova, in data 31/07/2019, depositava la motivazione della sentenza, la Cassazione osservava come essa non fosse stata oggetto di impugnazione da parte dell’imputato con atto di appello, così come quest’ultimo non aveva nemmeno impugnato l’ordinanza in oggetto con i motivi di appello ai sensi dell’art. 568 cod. proc. pen. (Sez. 6, n. 2323 del 15/10/2014) e, pertanto, per il Supremo Consesso, costui non poteva dedurre per la prima volta con il ricorso per Cassazione la violazione di legge con riferimento alla durata delle pene accessorie che secondo la prospettazione difensiva dovrebbe essere pari alla pena detentiva inflitta, rammentandosi a tal riguardo che, secondo la più recente giurisprudenza, la durata delle pene accessorie, per le quali è previsto un limite minimo e massimo, deve essere determinata in concreto, con adeguata motivazione, sulla base dei criteri stabiliti dall’art. 133 cod. pen., dovendo escludersi la necessaria correlazione con quella della pena principale (Sez. 3, n. 41061 del 20/06/2019) in quanto alla luce della sentenza (definita “sostitutiva“) della Corte costituzionale n. 222 del 05/12/2018 (che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 216, u. c. I. fall. nella parte in cui dispone: «la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa per la durata di dieci anni l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa», anziché: «la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni»), deve ritenersi esclusa la necessaria correlazione con la durata della pena principale quando, come nel caso in esame, la durata delle pene accessorie temporanee sia compresa tra un minimo e un massimo, escludendo così ogni automatismo.

Non ricorreva, pertanto, per il Supremo Consesso, una ipotesi di illegalità delle pene accessorie per le quali sia stata stabilita una durata maggiore rispetto a quella della pena principale, allorquando per le prime sia previsto un limite minimo e massimo e della diversa durata sia stata fornita adeguata giustificazione.

Ciò premesso, quanto al caso in esame, ricorreva però, per la Corte di legittimità, un’ipotesi di illegalità della pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici posto che tale pena non può essere applicata nei casi di condanna per il delitto di cui all’art. 5 cit. (art. 12 comma 3 del d.vo n. 74 del 2000) e sul punto la sentenza veniva quindi annullata senza rinvio e la relativa pena eliminata.

Quanto alla durata della pena accessoria della pubblicazione della sentenza sul sito internet del Ministero della Giustizia, in assenza di determinazione, trovava applicazione per la Cassazione il disposto di cui all’art. 36 cod. pen. per cui la durata doveva essere fissata in giorni quindici.

Quanto, invece, alle restanti pene accessorie, si rilevava come fossero state tutte applicate nel limite minimo di mesi 6 o di un anno sicchè la censura era reputata manifestamente infondata sotto tutti i profili a fronte di una condanna di un anno di reclusione.

Da ultimo, il terzo motivo di ricorso era considerato inammissibile perché devoluto per la prima volta con il ricorso per Cassazione.

In particolare, si notava come l’imputato non avesse devoluto nei motivi di appello la questione della violazione di legge in relazione alla confisca del profitto del reato in capo all’imputato in assenza di previo accertamento dell’impossibilità di disporre la confisca diretta del profitto del reato in capo alla società, nel cui interesse era stato commesso il reato fiscale, e questa non era proponibile per la prima volta nel giudizio di legittimità.

Conclusioni

La decisione in esame è assai interessante essendo ivi chiarito chi assume la responsabilità per i reati previsti dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 in materia di persone giuridiche.

Difatti, in tale pronuncia, citandosi precedenti conformi, si afferma, una volta fatto presente che il soggetto tenuto alla presentazione delle dichiarazioni fiscali, nel caso di società, si identifica nel legale rappresentante della stessa, che la responsabilità per i reati previsti dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, è attribuita all’amministratore, individuato secondo le norme civilistiche di cui agli artt. 2380 e ss., artt. 2455 e 2475 c.c., cioè a coloro che rappresentano e gestiscono l’ente posto che costoro, in quanto tali, sono tenuti a presentare e sottoscrivere le dichiarazioni rilevanti per l’ordinamento tributario di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 1, lett. c) ed e), adempiendo agli obblighi conseguenti, e ciò sulla base del principio secondo cui colui che assume la carica di amministratore si espone volontariamente a tutte le conseguenze che possono derivare da pregresse inadempienze tenuto conto altresì del fatto che l’obbligo della presentazione della dichiarazione dei redditi incombe direttamente sul contribuente e, in caso di persone giuridiche, su chi ne abbia la legale rappresentanza, tenuto a sottoscrivere la dichiarazione a pena di nullità (art. 1, comma 4, d.P.R. 22 luglio 1998, n. 322).

Tale sentenza, quindi, deve essere presa nella dovuta considerazione al fine di verificare chi deve ritenersi responsabile dei reati tributari commessi nell’interesse di una società che è, come appena visto, il suo legale rappresentate, ossia chi rappresenta e gestisce l’ente.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatto provvedimento, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su cotale tematica giuridica, dunque, non può che essere positivo.

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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