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La cornice normativa emergenziale in italia.

Il flagello del “Covid – 19”, dopo aver messo in pericolo vari principi costituzionali del nostro ordinamento giuridico, è giunto finanche ad insidiare la libertà religiosa.

In Italia, infatti, dopo la delibera del Consiglio dei Ministri del 31 gennaio 2020, che ha ufficializzato lo stato di emergenza per sei mesi dalla data del provvedimento, si è susseguita una serie di decreti legge, di decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, di Decreti Interministeriali e Ministeriali, spesso di dubbia legittimità costituzionale, che hanno stravolto la nostra convivenza sociale.

Da ultimo, con il D.P.C.M. in data 26 aprile 2020, si è dato avvio alla c.d. “Fase due”, non senza proteste e perplessità da parte delle forze politiche, degli amministratori locali e di gran parte della popolazione.

L’incontrollato proliferare dei decreti

Come noto, i decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, i decreti Interministeriali e i Decreti Ministeriali sono atti amministrativi che non costituiscono una fonte del diritto autonoma;  disciplinati dall’art. 17 della legge 23 agosto 1988, n.400,  essi non possono essere esercitati in difetto di una specifica attribuzione di rango primario, ossia la legge ordinaria.

Pertanto, tale tipologia di regolamenti non può derogare, quanto al contenuto, né alla Costituzione, né alle leggi ordinarie sovraordinate.

Quando l’organo emanante è il Presidente del Consiglio dei Ministri, il potere in questione è attribuito nell’ambito delle funzioni di coordinamento e indirizzo politico; in ogni caso tale decreti sono di solito generali e astratti, in quanto contengono norme di dettaglio, o generiche, ma relative ad uno specifico argomento, finalizzate all’attuazione di una data norma di legge.

Di regola il decreto è sempre prescritto dalla legge, che, dopo aver delineato i principi di una data materia (ad esempio, nel caso in esame, quella sanitaria), ne affida l’esatta definizione tecnica ed attuazione ai citati organi costituzionali, che la effettuano con proprio decreto.

Nella fattispecie in argomento, tale tipologia di decreto dovrebbe farsi rientrare tra quelli attuativi e integrativi, che non si limitano a dare esecuzione a norme contenute nella fonte sovraordinata (legge, decreto legislativo), ma hanno contenuto innovativo, assicurando l’applicazione e l’integrazione delle leggi. Le menzionate leggi sovraordinate in materia di Coronavirus, per l’aspetto ivi considerato, allo stato, sono il decreto legge n.6/2020, il decreto legge n.11/2020, il decreto legge n.17/1990, il decreto legge n.18/2020, il decreto legge n.19/2020 e il decreto legge n. 23/2020.

Pertanto, il provvedimento in questione potrebbe farsi rientrare nei decreti di natura non regolamentare che si innestano nell’orizzonte ormai caotico del sistema delle fonti del diritto, caratterizzato da una sempre più evidente confusione.

Tali decreti sono definiti “atti amministrativi privi di forma regolamentare, tuttavia abilitati a derogare alla legge e stabilire regole innovative, i quali non possono non destare perplessità sul piano della legalità e della legittimità costituzionale”; essi possono alterare il principio di separazione dei poteri, dando vita all’esercizio sempre più frequente della funzione legislativa da parte dell’amministrazione.

La difficoltà di distinguere i regolamenti dagli atti amministrativi generali, basandosi soltanto su criteri sostanziali, ha indotto il legislatore ad emanare il sopracitato art.17 della legge n. 400/1988, la cui procedura è stata spesso aggirata violando lo spirito della riforma del titolo V della Costituzione, art.117, comma 6, che riconosce il potere regolamentare del Governo.

Le principali problematiche riguardano, in primo luogo, la loro normatività, in quanto ci si chiede fino a che punto sia legittimo attribuire contenuti di tipo normativo ad atti che dal punto di vista formale sono amministrativi e che sul piano pratico vengano adottati o per eludere l’art.117 comma 6 della Costituzione, oppure per aggirare il procedimento di adozione dei regolamenti.

Infine, dal punto di vista pratico, si osserva che la prassi dei decreti di natura non regolamentare  realizza concretamente non tanto una delegificazione della materia, quanto una flessione patologica della normatività a favore dell’amministrativizzazione della legge.

In realtà, si ritiene che attraverso l’uso dei regolamenti di cui trattasi, si possa produrre la violazione dell’art. 17 della legge n.400/1988, il cui ambito di applicazione può anche ritenersi ridimensionato a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 117, comma 6, della Costituzione, ma non certamente abrogato, determinandosi, così, un vulnus dei limiti costituzionali delle competenze.

Lo sgarbo alla liberta’ di culto

In particolare, si evidenzia che l’articolo 1, lett. i) del Decreto del Presidente del Consiglio in data 26 aprile 2020, confermando la precedente decretazione d’urgenza, recita: “…l’apertura dei luoghi di culto è condizionata all’adozione di misure organizzative tali da evitare assembramenti di persone, tenendo conto delle dimensioni e delle caratteristiche dei luoghi, e tali da garantire ai frequentatori la possibilità di rispettare la distanza tra di loro di almeno un metro. Sono sospese le cerimonie civili e religiose; sono consentite le cerimonie funebri con l’esclusiva partecipazione di congiunti e, comunque, fino a un massimo di quindici persone, con funzione da svolgersi preferibilmente all’aperto, indossando protezione delle vie respiratorie e rispettando rigorosamente la distanza di sicurezza interpersonale di almeno un metro”.

Pertanto, tale normativa, dettata da indubbie ragioni di natura sanitaria, ha costituito – ancora una volta – un  vulnus per l’art. 19 della Costituzione, già messo in pericolo da altre norme emergenziali, secondo cui “Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purchè non si tratti di riti contrari al buon costume”.

La stessa Presidente della Corte Costituzionale Marta Cartabia, a proposito del Covid-19 e della Costituzione, in data 29 aprile 2020 ha dichiarato che “La piena attuazione della Costituzione richiede un impegno corale, con l’attiva, leale collaborazione di tutte le istituzioni compresi il Parlamento, Governo, Regioni, Giudici. Questa caratteristica è anche la chiave per affrontare l’emergenza. La Costituzione, infatti, non contempla un diritto speciale per i tempi eccezionali, e ciò per una scelta consapevole, ma offre la bussola anche per navigare  per l’alto mare aperto nei tempi di crisi, a cominciare proprio dalla leale collaborazione fra le istituzioni, che è la proiezione istituzionale della solidarietà tra cittadini”.

Ma la decretazione d’urgenza si è posta anche in irrimediabile contrasto con i Patti Lateranensi, quei famosi accordi sottoscritti tra il Regno d’Italia e la Santa Sede l’11 febbraio 1929. Ai Patti si deve l’istituzione della Città del Vaticano come Stato indipendente e la riapertura dei rapporti fra Italia e Santa Sede dopo l’ interruzione del 1870. Sottoposti a revisione nel 1984, essi regolano, ancor oggi,  i rapporti tra la Repubblica Italiana e la Santa Sede.

I patti Lateranensi consistono in tre distinti documenti:

  • il Trattato, con cui si riconosce l’indipendenza e la sovranità della Santa Sede, che determinò la fondazione dello Stato della Città del Vaticano;
  • la Convenzione Finanziaria, che regola le questioni sorte dopo la spoliazione degli enti ecclesiastici a causa delle leggi eversive;
  • il Concordato, che definisce le relazioni civili e religiose in Italia tra la Chiesa e il Governo.

In evidenza va posto l’art. 1 del Concordato, nella parte in cui  prevede che “L’Italia assicura alla Chiesa Cattolica il libero esercizio del potere spirituale, il libero e pubblico esercizio del culto, nonché della sua giurisdizione in materia ecclesiastica in conformità alle norme del presente Concordato; ove occorra, accorda agli ecclesiastici per gli atti del loro ministero spirituale la difesa da parte delle sue autorità…”.

Nel 1948 i Patti furono riconosciuti costituzionalmente nell’art. 7, con la conseguenza che lo Stato non può denunciarli unilateralmente, come nel caso di qualsiasi altro trattato internazionale, senza aver prima modificato la Costituzione. Qualsiasi modifica dei Patti, inoltre, potrebbe avvenire di mutuo accordo tra lo Stato e la Santa Sede,  caso nel quale  la revisione degli stessi non richiederebbe un procedimento di revisione costituzionale.

L’art. 7 non ha comunque inteso parificare il contenuto dei Patti alle norme costituzionali, ma soltanto costituzionalizzare il principio concordatario, con la conseguenza che essi, per il tramite della legge di esecuzione, avrebbero dovuto ritenersi soggetti al giudizio di compatibilità con i principi supremi dell’ordinamento da parte della Corte costituzionale. Con le sentenze n. 30 e n. 31, depositate il primo marzo 1971, i Patti lateranensi vennero posti tra le fonti atipiche dell’ordinamento italiano, vale a dire che le disposizioni in essi contenute  non hanno la stessa natura delle norme costituzionali, ma hanno un grado di resistenza maggiore rispetto alle fonti ordinarie.

Il solo Concordato fu rivisto nel 1984, fondamentalmente per rimuovere la clausola riguardante la religione di Stato della Chiesa cattolica in Italia e quindi mantiene intatto il suo vigore.

Un precedente di pandemia, relativamente recente, si è avuto nel secolo scorso con l’influenza “spagnola” del 1918, erroneamente così definita non in quanto fosse insorta per prima nel paese iberico, ma perché i primi a parlarne furono i giornali spagnoli, non sottoposti alla censura di guerra imperante negli altri paesi, che nascosero a lungo l’esistenza di una pandemia.

La suddetta pandemia fu causata da un virus influenzale H1N1 di origine aviaria ed una ricerca pubblicata nel 2005 ipotizzò che si fosse originata negli USA, infettando circa 500 milioni di persone nel mondo (pari ad un terzo dell’intera popolazione mondiale di allora) con una stima di morti da 20 a 100 milioni e con un tasso di letalità compreso tra il 2% e il 10%.

In Italia, la malattia comparve nel maggio 1918 in forma lieve, ma già nella stessa estate  arrivò la seconda ondata, quella più cattiva. Anche in occasione di quello che è stato definito “il più grande olocausto medico occorso nella storia” furono chiusi luoghi di culto.

Tali esempi forniti dalla storia, hanno spianato , probabilmente, la strada a soluzioni delicate, nelle quali non è mancata l’interlocuzione del Ministro dell’Interno Lamorgese con la Segreteria Generale della CEI, nel corso della quale si è sottolineato, in maniera esplicita, che nel momento in cui si fossero ridotte le limitazioni assunte per far fronte alla pandemia, la Chiesa avrebbe preteso di riprendere la sua azione pastorale.

In effetti, le indicazioni delle autorità italiane in materia di contrasto al contagio erano state recepite da parte vaticana: chiusi gli uffici, distanziamento rispettato, mascherine e, soprattutto, chiese aperte ma niente funzioni.

Il primo a rispettare tali disposizioni è stato proprio Papa Francesco: SOLO nel pellegrinaggio alla Salus Populi Romani, SOLO nella piazza in preghiera per la protezione contro il morbo, SOLO nella Basilica durante la domenica delle Palme e a Pasqua, angelus, udienze, Regina coeli, messe mattutine; tutti eventi rigorosamente trasmessi dai maxi schermi, opportunamente collocati .

Tale delicata intesa era stata suggellata, tenuto conto, altresì, del basso numero di contagi all’interno dello Stato Vaticano: solo nove, puntualmente riferiti con nota della sala stampa vaticana.

Dopo diverse  settimane di negoziato, che hanno visto la CEI presentare orientamenti e protocolli con cui affrontare la fase transitoria nel pieno rispetto di tutte le norme sanitarie, è stato emanato  il citato D.P.C.M. del 26 aprile 2020, che ha escluso la possibilità di celebrare la messa.

La CEI  ha, quindi, richiamato il dovere della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Comitato tecnico-scientifico di distinguere tra la loro responsabilità – dare indicazioni precise di carattere sanitario – e quella della Chiesa, chiamata a organizzare la vita della comunità cristiana, nel rispetto delle misure disposte, ma nella pienezza della propria autonomia.

I vescovi italiani, a questo punto, hanno dichiarato non poter accettare di vedere compromesso l’esercizio della libertà di culto, particolarmente significativa in questa emergenza, che deve potersi nutrire alle sue sorgenti.

Ma l’intervento più duro si è avuto con la nota di protesta della stessa CEI, dai toni quasi ultimativi, che afferma “Il Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri varato questa sera (26 aprile 2020) esclude arbitrariamente la possibilità di celebrare Messa con il popolo… La Chiesa esige di poter riprendere la sua azione pastorale…”.

“Sarà molto difficile far capire perché, ovviamente in modo saggio e appropriato, si potrà tornare in fabbriche e uffici, entrare in negozi piccoli e grandi di ogni tipo, andare in parchi e giardini e invece non si potrà partecipare alla messa domenicale”, scrive l’Avvenire in un editoriale del direttore, Marco Tarquinio, noto nell’ambiente per la sua usuale pacatezza.

Dopo tale intervento e la protesta dei fedeli le trattative sono riprese in modo frenetico ed è da ritenersi che, a breve, giungeranno a buon fine.

A rasserenare gli animi è intervenuto anche Papa Francesco, il quale, introducendo la messa a Casa Santa Marta, ha aperto una tregua con il Governo dopo le polemiche sulle messe ancora bloccate,  per ritrovare la strada della trattativa al fine ottenere risultati senza strappi, invitando i fedeli ad osservare le disposizioni dell’autorità.

               Conclusioni

Certamente lo sforzo del Governo per affrontare la c,d. “Fase due” avviene in una situazione complessa e di estrema difficoltà operativa;  tuttavia, non può sottacersi che, oltre ai necessari rilievi di ordine sanitario da parte degli esperti, non debbano essere trascurati elementari principi costituzionali in materia, primo fra tutti  quello della libertà di culto, sancito solennemente dall’art. 19 della nostra Costituzione, seguito a ruota da quello primario del buon senso istituzionale, spesso umiliato dalla citata normativa emergenziale.

Tali considerazioni inducono a ritenere che, se i cittadini devono andare incontro ad ulteriori ed  inevitabili restrizioni personali, si auspica quantomeno che queste siano limitate al minimo indispensabile e, soprattutto, appaiano credibili e sufficientemente motivate.

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Lorica Marturano

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