In tema di appello cautelare, come e in che termini, il giudice può integrare il provvedimento impugnato

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(Ricorso dichiarato inammissibile)

(Riferimento normativo: Cod. proc. pen., art. 310)

Il fatto

Il Tribunale di Lecce rigettava un appello proposto, ai sensi dell’art. 310 cod. proc. pen., avverso un provvedimento del G.i.p. del Tribunale di Lecce di rigetto di un’istanza di revoca o di sostituzione della misura della custodia cautelare.

I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso questa decisione proponeva ricorso per Cassazione il difensore del ristretto deducendo i seguenti motivi: 1) vizi cumulativi di cui all’art. 606, comma 1, lett. c) ed e), cod. proc. pen. in relazione agli artt. 299, 310 e 125 cod. proc. pen. rilevando come l’ordinanza impugnata avesse illegittimamente integrato la motivazione del provvedimento di rigetto emesso dal G.i.p., ad avviso della difesa, nullo per mancanza della relativa motivazione in quanto redatta richiamando il parere espresso dal P.M., senza alcuna ulteriore valutazione sintomatica di una adeguata ponderazione del suo contenuto e senza che la difesa ne abbia potuto conoscere preventivamente il contenuto; 2) vizi cumulativi di cui all’art. 606, comma 1, lett. c) ed e), cod. proc. pen. in relazione agli artt. 273, 299, 310 e 125 cod. proc. pen. con riguardo ai gravi indizi di colpevolezza in quanto il Tribunale, riproducendo anche parti del contenuto dell’ordinanza genetica, per la difesa, aveva omesso di esporre le ragioni in merito alla consistenza del quadro indiziario esaminato e di valutare gli argomenti difensivi; in particolare, nessuno dei chiamanti in correità si riferiva alla ricorrente quale partecipe della consorteria mafiosa; 3) vizi cumulativi di cui all’art. 606, comma 1, lett. c) ed e), cod. proc. pen. in relazione agli artt. 274, 275, 299, 310 e 125 cod. proc. pen. in merito al difetto di motivazione sulle esigenze cautelari concernenti la tentata estorsione aggravata dal metodo mafioso ed alla valutazione di proporzionalità e di adeguatezza della misura.

 

La richiesta formulata dalla Procura generale presso la Corte di Cassazione

Il Sostituto Procuratore Generale depositava requisitoria scritta con la quale chiedeva che venisse dichiarata l’inammissibilità del ricorso per manifesta infondatezza.

Quanto alla carenza di un’autonoma valutazione, nel condividere le argomentazioni espresse dal Tribunale, si evidenziava che, proprio dalla natura del provvedimento impugnato, conseguiva una maggiore facoltà integrativa in sede di appello rispetto a quella prevista per l’ordinanza genetica insistendosi, inoltre, nella adeguatezza della motivazione dell’ordinanza impugnata, sia in ordine al quadro indiziario, rispetto al quale sono state confutate tutte le argomentazioni difensive, che alle esigenze cautelari.

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

Il ricorso veniva stimato inammissibile per complessiva manifesta infondatezza ed aspecificità dei motivi.

In particolare, il primo motivo di ricorso era reputato inammissibile in quanto, omettendo di confrontarsi con le argomentazioni esposte nell’ordinanza impugnata, si limitava, per la Suprema Corte, a riproporre l’eccezione di nullità dell’ordinanza del G.i.p. per difetto di motivazione, già formulata con l’appello cautelare.

Tale censura, quindi, era stata ritenuta infondata in considerazione dei diversi poteri spettanti al giudice dell’appello cautelare rispetto a quelli del Tribunale del riesame stante l’omesso richiamo dell’art. 309, comma 9, cod. proc. pen. ad opera dell’art. 310 cod. proc. pen. trattandosi, ad avviso del Collegio, di un’argomentazione ineccepibile posto che la disciplina dell’appello cautelare personale, dettata dall’art. 310 cod. proc. pen., come modificata dalla legge 16 aprile 2015, n. 47, non contiene alcun richiamo all’art. 309, comma 9, cod. proc. pen., disposizione che preclude al Tribunale del riesame di fare uso dei poteri integrativi rispetto a motivazioni mancanti o non contenenti una autonoma valutazione degli indizi e delle esigenze cautelari o degli elementi forniti dalla difesa e da ciò se ne faceva conseguire come tale divieto non sia applicabile alle impugnazioni de libertate avverso provvedimenti che sono soggetti all’appello cautelare in quanto, come già affermato da Sez. 3, n. 845 del 17/12/2015, «la disposizione ex art. 309, comma 9, cod. proc. pen. costituisce in parte qua una norma a carattere eccezionale e quindi insuscettibile di interpretazione analogica, nella misura in cui deroga al principio generale secondo il quale nelle impugnazioni contraddistinte, come l’appello, dalla fase rescindente e da quella rescissoria la motivazione del provvedimento impugnato è, di regola, sostituita, nei limiti del devoluto, dalla pronuncia del giudice dell’impugnazione.».

Tal che, alla luce di quanto appena esposto, gli Ermellini giungevano alla conclusione secondo la quale, in tema di appello cautelare, anche in seguito alle modifiche apportate dalla legge n. 47 del 2015, il giudice può integrare il provvedimento impugnato, rispetto a motivazioni mancanti o non contenenti una autonoma valutazione degli indizi e delle esigenze cautelari o degli elementi forniti dalla difesa in quanto l’art. 310 cod. proc. pen., che disciplina tale forma di impugnazione, non richiama l’art. 309, comma 9, cod. proc. pen. (Sez. 3, Sentenza n. 845 del 17/12/2015) tenuto conto altresì del fatto che, nel caso di specie, il provvedimento di rigetto emesso dal G.i.p., per i giudici di piazza Cavour, non era mancante della motivazione in quanto le ragioni della decisione erano espresse, sia pure in termini sintetici, attraverso il richiamo per relationem del parere contrario espresso dal P.M. che, sebbene non allegato al provvedimento, era, comunque, conoscibile dalla parte.

Tale forma della motivazione, difatti, evidenziava la Cassazione nella pronuncia qui in commento, è pacificamente ammessa dalla giurisprudenza elaborata sempre in sede nomofilattica che la ritiene legittima quando: 1) faccia riferimento, recettizio o di semplice rinvio, a un legittimo atto del procedimento, la cui motivazione risulti congrua rispetto all’esigenza di giustificazione propria del provvedimento di destinazione; 2) fornisca la dimostrazione che il giudice ha preso cognizione del contenuto sostanziale delle ragioni del provvedimento di riferimento e le abbia meditate e ritenute coerenti con la sua decisione; 3) l’atto di riferimento, quando non venga allegato o trascritto nel provvedimento da motivare, sia conosciuto dall’interessato o almeno ostensibile, quanto meno al momento in cui si renda attuale l’esercizio della facoltà di valutazione, di critica ed, eventualmente, di gravame e, conseguentemente, di controllo dell’organo della valutazione o dell’impugnazione (Sez. U, n. 17 del 21/06/2000).

Precisato ciò, anche il secondo motivo del ricorso seguiva la medesima sorte processuale in quanto, riproponendo gli stessi motivi dell’appello cautelare, per il Supremo Consesso, esso si limitava ad insistere sulla diversa ed alternativa ricostruzione dei fatti fondata, per lo più, su frammenti di talune conversazioni intercettate, senza confrontarsi con le argomentazioni dell’ordinanza impugnata che affronta analiticamente, seguendo un percorso logico coerente ed immune da vizi giuridici, tutte le questioni introdotte con il gravame.

Secondo un principio consolidato della giurisprudenza di legittimità, in effetti, allorché sia denunciato, con ricorso per cassazione, vizio di motivazione del provvedimento emesso dal tribunale del riesame in ordine alla consistenza dei gravi indizi di colpevolezza, alla Corte suprema spetta il compito di verificare, in relazione alla peculiare natura del giudizio di legittimità e ai limiti che ad esso ineriscono, se il giudice di merito abbia dato adeguatamente conto delle ragioni che l’hanno indotto ad affermare la gravità del quadro indiziario a carico dell’indagato, controllando la congruenza della motivazione riguardante la valutazione degli elementi indizianti rispetto ai canoni della logica e ai principi di diritto che governano l’apprezzamento delle risultanze probatorie (Sez. U., n. 11 del 22/03/2000) mentre è, invece, escluso dal perimetro del giudizio di legittimità il controllo di quelle censure che, pur investendo formalmente la motivazione, si risolvono nella prospettazione di una diversa valutazione di circostanze già esaminate dal giudice di merito (Sez. 2, n. 27866 del 17/06/2019).

Il sindacato di legittimità sulla motivazione del provvedimento cautelare personale è, dunque, circoscritto alla verifica che il testo dell’atto impugnato risponda a due requisiti: 1) l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; 2) l’assenza di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine del provvedimento (Sez. 3, n. 40873 del 21/10/2010).

Orbene, nel caso in esame, in riferimento a quanto sin qui esposto, i giudici di piazza Cavour ritenevano come l’ordinanza esaminata risultasse avere adeguatamente analizzato tutti gli elementi indiziari emergenti dal contenuto delle conversazioni intercettate il cui significato era stato interpretato con motivazione assolutamente logica e, dunque, insindacabile in sede di legittimità (Sez. U., n. 22471 del 26/02/2015).

Ciò posto, inammissibile per manifesta infondatezza ed aspecificità era infine considerato anche il terzo motivo di ricorso fondato sul difetto assoluto di motivazione circa le esigenze cautelari concernenti la contestata tentata estorsione.

Tale motivo, in particolare, oltre a risultare di difficile comprensione, sembrava, per la Corte di legittimità, muovere dall’erronea premessa secondo cui sarebbe stata necessaria una distinta valutazione relativa alla sussistenza delle esigenze cautelari per ogni fattispecie di reato per cui viene emessa la misura coercitiva.

Invece, a parte l’evidente infondatezza di tale impostazione, secondo il Supremo Consesso, il Tribunale, premessa l’operatività nel caso concreto delle presunzioni di sussistenza delle esigenze cautelari e di adeguatezza della custodia cautelare, conseguenti alla contestazione del reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. (art. 275, comma 3, cod. proc. pen.), aveva congruamente argomentato in merito alla insussistenza di alcun elemento idoneo a rivelare una rescissione del legame della ricorrente con l’organizzazione criminosa.

 

Conclusioni

La decisione in esame è assai interessante essendo ivi chiarito, in tema di appello cautelare, come e in che termini, il giudice può integrare il provvedimento impugnato.

Invero, in tale pronuncia, citandosi un precedente conforme, si afferma che, in presenza di un appello di questo tipo, il giudice può integrare il provvedimento impugnato rispetto a motivazioni mancanti o non contenenti una autonoma valutazione degli indizi e delle esigenze cautelari o degli elementi forniti dalla difesa fermo restando che ciò può avvenire anche mediante una motivazione per relationem purchè, sulla scorta di quanto affermato dalle Sezioni Unite nella nota sentenza Primavera, tale motivazione: 1) faccia riferimento, recettizio o di semplice rinvio, a un legittimo atto del procedimento, la cui motivazione risulti congrua rispetto all’esigenza di giustificazione propria del provvedimento di destinazione; 2) fornisca la dimostrazione che il giudice ha preso cognizione del contenuto sostanziale delle ragioni del provvedimento di riferimento e le abbia meditate e ritenute coerenti con la sua decisione; 3) l’atto di riferimento, quando non venga allegato o trascritto nel provvedimento da motivare, sia conosciuto dall’interessato o almeno ostensibile, quanto meno al momento in cui si renda attuale l’esercizio della facoltà di valutazione, di critica ed, eventualmente, di gravame e, conseguentemente, di controllo dell’organo della valutazione o dell’impugnazione.

Tale sentenza, quindi, può essere presa nella dovuta considerazione al fine di verificare se tale potere integrativo sia stato correttamente esercitato.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatto provvedimento, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su siffatta tematica procedurale, dunque, non può che essere positivo.

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