Abstract – Il presente contributo intende fornire agli operatori del diritto e del mondo economico una panoramica su una questione affrontata, anche di recente, dalla giurisprudenza: può un’impresa individuale essere assoggettata alle sanzioni previste dal d.lgs. 231/2001, concernente la responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato?
Una volta tratteggiati i caratteri salienti della disciplina dettata dal decreto e i tratti caratteristici delle imprese individuali ci si concentrerà sull’analisi delle pronunce (di merito e di legittimità) che hanno affrontato la problematica negli ultimi anni, al fine di verificarne la coerenza con i principi generali in materia di impresa e società. Il tutto tenendo sempre in debita considerazione i risvolti pratici che l’adesione all’una o all’altra tesi possono comportare.
Sommario – 1. Premessa; 2. La (prevalente) tesi contraria; 3. Una voce fuori dal coro: Cassazione penale n. 18941 del 2011; 4. Conclusioni.
1. Premessa
Il d.lgs. 231/2001, nel dare attuazione alla legge delega n. 300 del 2000, ed in adempimento di obblighi pattizi sovranazionali, ha introdotto nel nostro ordinamento la disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, superando in tal modo il tradizionale principio societas delinquere non potest1.
Con tale articolato normativo il legislatore ha inteso contrastare quei fenomeni di criminalità che si annidano dietro lo schermo della personalità giuridica, o comunque in quegli interstizi che separano la persona fisica dagli enti collettivi, che di essa rappresentano la longa manus. Già da tempo, infatti, apparivano oramai inadeguate/ingiuste le sanzioni (anche di natura penale) inflitte alle singole persone fisiche componenti l’organigramma societario: o perchè il reato non era ad essi direttamente riconducibile o perchè comunque la loro condanna in nulla intaccava la possibilità per l’impresa di far propri i guadagni illecitamente conseguiti e di reimpiegarli sul mercato, falsando così l’operatività del naturale principio di concorrenza.
Nell’inquadrare l’ambito soggettivo di applicabilità del decreto, l’art. 1 al comma 2 dispone che la disciplina ivi prevista si applica agli enti forniti di personalità giuridica e alle società e associazioni anche privi di personalità giuridica, mentre nel successivo capoverso esclude da tale raggio d’azione lo Stato, gli enti pubblici territoriali, gli altri enti pubblici non economici e gli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale.
Come può agevolmente notarsi manca, tanto nell’elenco formulato in positivo che in quello in negativo, qualsivoglia riferimento all’impresa individuale. Quest’ultima, come noto, rappresenta la forma più elementare di esercizio di attività economiche in forma professionale e trova la sua base normativa negli artt. 2082 e ss. c.c. In tale struttura manca uno “schermo” che separa l’imprenditore persona fisica dall’ente: il primo, infatti, risponde dei debiti sociali con tutti i suoi beni. A tale rischio si contrappone, tuttavia, quasi a volerne bilanciare in melius il trattamento, la disciplina codicistica (che prevede minori formalità per la sua gestione) ed extra-codicistica (basti pensare che per la sua costituzione occorre una semplice iscrizione presso la Camera di Commercio, Industria e Artigianato)2.
La struttura così descritta, sicuramente snella ma proprio per questo (forse) più soggetta a possibili “deviazioni”, in uno al mancato riferimento (quantomeno dal punto di vista esplicito) nell’art. 1, ha indotto, soprattutto la giurisprudenza, ha porsi il problema dell’applicabilità della disciplina contenuta nel d.lgs. 231/2001 alle imprese individuali. In altri termini, “ci si è chiesti … se una interpretazione sistematica e razionale del decreto induca a ritenere ricompresi fra i destinatari anche le imprese individuali, soggetti economici che, proprio perchè dotati di strutture più agili e prive di qualsiasi forma di controllo, costituiscono terreno fertile per il compimento di attività illecite”3.
Il quesito è parso a lungo risolvibile in maniera negativa, tant’è che la dottrina4 non ha dedicato ad esso grandi attenzioni5, per lo meno fino al revirement compiuto dalla giurisprudenza di legittimità nel 2011, ed anche in tale occasione per confutare la tesi (favorevole) ivi patrocinata.
Tuttavia, dalla soluzione in un senso piuttosto che nell’altro della questione derivano notevoli conseguenze applicative, di sicuro interesse per gli operatori del diritto e per gli stessi attori economici. Basti pensare alla predisposizione dei modelli di organizzazione e gestione che il decreto richiede (articoli 6 e 7) per far sì che l’ente vada esente da responsabilità. La loro elaborazione, se da un lato rappresenta un incentivo per l’utilizzo di best practices nel mondo (anche) della piccola impresa, dall’altro comporta un importante impiego di risorse a carico di realtà, come quella di cui ci stiamo occupando, che spesso sono costrette, già di per sé, a sopportare ingenti esborsi per l’intrapresa dell’attività. Inoltre, riconoscere l’applicabilità del decreto 231/2001 in tale ambito comporterebbe la possibilità di applicare le sanzioni (anche di notevole carica afflittiva – si pensi alla sospensione o revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell’illecito) previste dall’art. 9, pur in via cautelare laddove ne ricorrano i presupposti contemplati dalla legge.
Ecco perchè l’analisi degli orientamenti formatisi sul punto, e delle ragioni poste alla base di essi, rappresentano non solo il banco di prova per verificare l’applicabilità dei principi in materia di impresa a tale nuova forma di responsabilità introdotta dal legislatore ma altresì la necessaria premessa per giungere ad una soluzione quanto più in linea con il dettato normativo ed altresì equa.
2. La (prevalente) tesi contraria
Come già accennato, fino al 2011 la giurisprudenza che si era occupata dalla questione aveva concluso per l’inapplicabilità della disciplina de qua alle imprese individuali.
In particolare, il Tribunale di Roma (sez. GIP, ordinanza 30/05/2003), sollecitato da una richiesta di applicazione di misura cautelare in relazione ad una vicenda avente ad oggetto un accordo corruttivo, con una sintetica ma pregevole pronuncia ha enunciato una serie di principi destinati a suffragare la tesi tradizionale e, allo stesso tempo, a confutare le opposte argomentazioni sostenute (in quel caso) dalla Procura.
Partendo dal dato letterale si evidenzia, innanzitutto, come l’art. 1 del d.lgs. 231/2001 non contempla, né al comma 2 né al comma 3, le imprese individuali tra i destinatari della relativa disciplina, così che deve desumersi che il legislatore non abbia voluto (intenzionalmente) prenderle in considerazione ai presenti fini.
A diverse conclusioni, peraltro, non potrebbe giungersi (in disparte l’annosa e dibattuta questione sulla natura giuridica di siffatta responsabilità) neppure in virtù di un ragionamento analogico della citata norma. Infatti, “come può agevolmente ricavarsi sia dalla lettura della disciplina in esame, sia dalla Relazione al Parlamento che l’accompagnò, presupposto per la responsabilità in questione risulta essere quanto meno la possibilità di una distinzione soggettiva, di uno schermo giuridico fra l’autore del reato e il soggetto giuridico responsabile dell’illecito amministrativo, che si è, evidentemente, avvantaggiato del reato commesso”. In tal senso, peraltro, deporrebbe anche l’art. 39 del decreto, concernente la rappresentanza dell’ente, ed in virtù del quale quest’ultimo partecipa al procedimento penale con il proprio rappresentante, salvo che questi sia imputato del reato da cui dipende l’illecito.
Ora, come accennato, nel caso dell’impresa individuale ciò che manca è proprio questo “schermo giuridico”, in quanto imprenditore e impresa sono un tutt’uno. Si pensi, in tal senso, alla disciplina delle obbligazioni sociali, che gravano interamente ed unicamente sull’imprenditore, che di esse risponde anche con i beni personali; si pensi, altresì, al nome dell’impresa, che secondo quanto previsto dalla legge, deve contenere il cognome del suo titolare (art. 2563 c.c.), sintomo di una immedesimazione che non è solo di fatto, ma anche (e forse più) di diritto.
L’applicare una sanzione (di natura afflittiva) ad un soggetto (l’imprenditore) già gravato da una (autonoma ed autentica) sanzione penale potrebbe, inoltre, porsi in contrasto con il principio del ne bis in idem6. La stessa sfera soggettiva, infatti, verrebbe punita per il medesimo fatto due volte: una prima a carico dell’imprenditore persona fisica, ed una seconda a carico della ditta individuale7, ente che, tuttavia, con il primo si identifica e si immedesima.
Se ne deduce che “nel caso della ditta individuale, e quindi dell’impresa individuale, vi è una piena ed indissolubile coincidenza fra i soggetti destinatari della disciplina penale e di quella di cui alla legislazione richiamata; anzi, per meglio dire, non può essere individuata a carico della ditta o dell’impresa individuale una soggettività giuridica che, per quanto in modo elementare e non tale da assurgere alla personalità giuridica, sia comunque autonoma da quella dell’imprenditore che ne è titolare”.
Ad avallare quanto fin qui visto è intervenuto il Supremo Consesso8 che conferma in toto le conclusione cui era giunto il Tribunale capitolino.
In particolare gli Ermellini, dopo aver ricostruito l’evoluzione normativa che ha portato al varo del d.lgs. 231/2001 (id est Convenzione OCSE e legge delega n. 300 del 2000), chiariscono come essa sia imperniata solo ed esclusivamente sulla nozione di “ente”, da intendersi come “l’intero spettro dei soggetti di diritto metaindividuali”. Occorrerebbe, in altri termini, come già si è avuto modo di vedere, una qualche forma di alterità tra soggetto responsabile del fatto di reato ed ente sui gravano le sanzioni previste dalla disciplina in oggetto9. Tanto più che quella di cui si discute è una responsabilità aggiuntiva e non sostitutiva rispetto a quella già prevista dalle norme codicistiche per le persone fisiche.
Tuttavia, il punto nodale della sentenza più che nel “detto” sta nel “non detto”. Punto di partenza dell’analisi portata avanti dai Giudici, infatti, è quello della natura penalistica della responsabilità a carico dell’ente10. Ciò che le consente di affermare che qualsiasi interpretazioni differente da quella strettamente attinente al dato letterale contenuto nell’art. 1 del d.lgs. 231 si tramuterebbe sic et simpliciter in un’operazione analogica in malam partem, inammissibile in virtù del disposto dell’art. 25, comma 2 Cost. Tale assunto, apparentemente sostenuto ad abundantiam dalla Suprema Corte (e collocato anche topograficamente nella parte finale della motivazione), ha ragion d’essere solo e soltanto laddove si ascriva siffatta natura alla responsabilità de qua, in quanto, se è pur vero che anche la legislazione ordinaria contiene in altri frammenti dell’ordinamento il divieto di analogia (si pensi all’art. 2 della l. 689/1981 che sancisce il principio di legalità per l’illecito amministrativo, da cui è ricavabile implicitamente il divieto di procedimenti analogici), esso è costituzionalizzato per pacifica interpretazione solo in materia penale, laddove i beni che vengono in gioco sono tali da dover essere sottratti al potenziale arbitrio del potere giudiziario11.
La tesi, da ultimo, è stata avallata (seppur in un obiter dictum) sempre dalla Cassazione, la quale ha ritenuto che “la normativa sulla responsabilità delle persone giuridiche non si applica alle imprese individuali, in quanto si riferisce ai soli soggetti collettivi”12.
3. Una voce fuori dal coro: Cassazione penale n. 18941 del 2011
La situazione pareva essersi assestata secondo le coordinate ermeneutiche sin qui delineate, con la dottrina e la giurisprudenza che andavano “a braccetto” nel ritenere escluso dal novero dei soggetti contemplati dall’art. 1 del d.lgs. 231/2001 le imprese individuali.
Così che agli interpreti è parso un fulmine a ciel sereno l’intervento della Cassazione nel 2011 (con sentenza n. 1565713), che chiamata ad applicare in via cautelare la sanzione interdittiva temporanea della revoca dell’autorizzazione alla raccolta, trasporto e conferimento di rifiuti speciali nei confronti di una ditta individuale, con un inatteso (e per taluni errato) revirement ha ritenuto di dover rivedere quei principi su cui si era basata la sua stessa pregressa giurisprudenza.
Il punto di partenza da cui prende le mosse la pronuncia in commento è quello della (presunta) equiparabilità degli enti di cui si discute con le persone giuridiche. Il Supremo Consesso afferma, infatti, expressis verbis, che “non può negarsi che l’impresa individuale … ben può assimilarsi ad una persona giuridica nella quale viene a confondersi la persona dell’imprenditore quale soggetto fisico che esercita una determinata attività”. Muovendo da tale assunto, l’imprenditore del caso di specie avrebbe dunque mancato l’onere probatorio su di esso incombente volto a dimostrare l’assenza di personalità giuridica in capo alla sua impresa, unico parametro al cui ricorrere è subordinata l’applicazione della normativa in oggetto.
Peraltro, a suffragare tale conclusione militerebbe altresì una lettura costituzionalmente orientata della normativa sulla responsabilità degli enti, volta a dissipare qualsiasi elemento di disparità e/o irragionevolezza tra gli operatori economici che decidano di ricorrere a forme complesse di impresa (ad es. di natura societaria) e coloro i quali, viceversa, ritengano più opportuno perseguire i propri scopi economici per mezzo di strutture più agili e flessibili. Onde evitare pericolosi vuoti normativi, dunque, parrebbe opportuno, a detta dei Supremi Giudici, ritenere incluse anche le imprese individuali nell’ambito dei soggetti contemplati da tale normativa. In altri termini, l’art. 1 sarebbe norma già di per sé completa ed idonea a fugare qualsivoglia dubbio.
Senonché far dire alla norma ciò che non dice è parso a taluni Autori operazione ermeneutica a dir poco ardita, non in linea né con i principi dell’ordinamento né con quelli che governano, più nello specifico, il mondo dell’impresa.
Quanto ai primi si è posto innanzitutto in rilievo come quello compiuto dalla sentenza sia in realtà un vero e proprio procedimento di stampo analogico, e non una lettura estensiva di quanto (già) affermato dal dato normativo. E ciò perché l’impresa individuale non potrebbe essere rettamente sussunta né nell’ambito degli enti collettivi, né tanto meno in quello delle società o associazioni: “sotto il primo profilo, difettano della personalità giuridica, ammesso ovviamente che (con una forzatura già inaccettabile) le si possa considerare ‘enti’, in particolare alla stregua del d.lgs. 231 che nelle intenzioni del legislatore si riferisce solo agli enti collettivi; sotto il secondo profilo, invece, difettano evidentemente della veste formale di società o di associazione”14.
Neppure ponendo attenzione ai principi civilistici che governano il mondo dell’impresa e delle società potrebbe dirsi equiparabile l’impresa individuale ai soggetti contemplati espressamente dall’art. 1. Tante e troppe appaiono le differenze in tal senso: attinenti al momento costitutivo (semplice iscrizione presso la Camera di Commercio per l’impresa individuale, necessità di un atto costitutivo per società e associazioni), alla vita (tenuta delle scritture contabili15; redazione del bilancio – da cui è esentato l’imprenditore individuale) e all’esercizio dell’attività economica per cui l’ente è sorto (si pensi al patrimonio su cui grava il rischio di impresa).
Ebbene, già l’analisi di questi profili potrebbe indurre a riflettere sull’assunto da cui è scaturito il cambio di orientamento. E tuttavia la dottrina ha messo in luce ulteriori argomenti che potrebbero portare a ritenere preferibile l’orientamento tradizionale. I Supremi Giudici, nella pronuncia del 2011, hanno infatti affermato che una lettura estensiva dell’art. 1 del decreto sarebbe imposta dalla necessità di una visione costituzionalmente orientata del dettato normativo. Il ragionamento potrebbe, però, essere ribaltato: il principio di uguaglianza, infatti, impone non solo di trattare situazioni uguali nello stesso modo, ma altresì situazioni diverse in modi differenti, onde evitare improprie assimilazioni. Si è così potuto affermare che “è evidente che la mancata inclusione delle ditte individuali nella platea dei destinatari della responsabilità da reato degli enti risponde ad una precisa opzione politico-criminale del legislatore sicuramente non censurabile per manifesta irragionevolezza o per violazione del principio di uguaglianza sostanziale, proprio perché fondata sulle … lampanti, differenze tra loro intercorrenti”16.
Inoltre, tutta la disciplina posta dal decreto parrebbe presupporre un’alterità tra persona fisica autrice del reato presupposto ed ente a carico del quale porre le sanzioni previste dall’art. 9. In tal senso militano, a titolo di esempio, l’art. 5, secondo cui il reato deve essere commesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente; l’art. 27, il quale sancisce che per il pagamento della sanzione pecuniaria risponde il patrimonio dell’ente o il fondo comune, e che presuppone che vi sia appunto una separazione tra ciò che è della persona fisica e ciò che dell’ente, cosa che non è contemplabile ex lege per l’impresa individuale17; ed, infine, il già citato art. 39, in tema di rappresentanza dell’ente.
4. Conclusioni
L’excursus qui compiuto ha consentito di affrontare una delle questioni più spinose che ha interessato l’ermeneusi e le prime pronunce in tema di cd. responsabilità amministrativa degli enti.
L’analisi delle pronunce della giurisprudenza sul tema e delle posizioni assunte dagli Autori che si sono occupati della materia ha consentito di tracciare quelle che sono le coordinate interpretative di cui deve tener conto chi si approccia all’argomento. E tuttavia esse non bastano.
Non bastano perchè ciò che sembrava oramai essersi consolidato è stato stravolto nel 2011 con una pronuncia che, seppur non del tutto convincente a detta della dottrina dominante, fa tuttavia parte del nostro diritto vivente, di cui occorre tener conto, anche per l’autorevolezza del Consesso da cui essa deriva.
Non bastano perchè, pur a fronte dell’esiguità delle sentenze che si sono occupate del tema, occorre comunque fare chiarezza in un campo, come quello economico, in cui più si riducono le incertezze, più l’imprenditore può calcolare i rischi a cui può andare incontro, maggiori saranno le possibilità di riuscita dell’attività economica intrapresa, con evidenti benefici anche a livello della produzione nazionale.
E dunque il problema che si pone dinnanzi all’operatore del diritto è: cosa fare?
La risposta può stare in una duplice direzione, una declinata al presente, l’altra formulata sotto forma di auspicio.
Da un lato, infatti, pur a fonte del variegato quadro qui appena delineato, si pone la necessità di tenere saldi i principi giuridici dell’ordinamento, siano essi di livello costituzionale o legislativo. Ebbene, se riguardato sotto questo punto di vista il problema, probabilmente, viene (quantomeno) in parte stemperato. Il divieto di analogia, le sostanziali differenze tra impresa individuale ed enti collettivi, la ratio complessiva della normativa in oggetto appaiono infatti indici della inammissibile estensione dell’art. 1 del d.lgs. oltre quanto in esso espressamente previsto.
Dall’altro lato, tuttavia, proprio per l’autorevolezza del dictum da cui è giunto l’inatteso revirement del 2011, non possono del tutto trascurarsi le valutazioni opposte. Ed è per questo che, come detto, sotto forma di auspicio, ed in un’ottica di chiarezza, tanto più avvertita a fronte delle rilevanti conseguenze pratiche cui si accennava in premessa, non può non aspettarsi con favore un (eventuale) intervento chiarificatore delle Sezioni Unite.
1Come affermato nella Relazione Ministeriale di accompagnamento al decreto legislativo “l’incremento ragguardevole dei reati dei “colletti bianchi” e di forme di criminalità a questa assimilabili, ha di fatto prodotto un sopravanzamento della illegalità di impresa sulle illegalità individuali, tanto da indurre a capovolgere il noto brocardo, ammettendo che ormai la societas può (e spesso vuole) delinquere”.
2Cfr. CONCAS, L’impresa individuale, in www.diritto.it.
3GAROFOLI, Manuale di diritto penale. Parte Generale, Roma, 2012, p. 382.
4Cfr. DI GIOVINE, Lineamenti sostanziali del nuovo illecito punitivo, in AA.VV., Reati e responsabilità degli enti. Guida al d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, a cura di LATTANZI, Milano, 2005, p. 34.
5Sul punto AMARELLI (L’indebita inclusione delle imprese individuali nel novero dei soggetti attivi del D.lgs. n. 231/2001, nota a Cass. pen., 15657/2011, pubblicato in www.penalecontemporaneo.it)fa notare che “in dottrina, la non estensibilità del decreto n. 231 anche alle imprese individuali è stato reputato un aspetto talmente scontato da non meritare di esser preso in seria considerazione. In alcuni dei più recenti lavori in materia di responsabilità da reato degli enti, infatti, non c’è alcun accenno ad esso”.
6In una prospettiva de jure condendo si ipotizza la possibilità di introdurre nel novero dei soggetti contemplati dal d.lgs. 231/2001 anche l’impresa individuale solo laddove sia possibile scindere l’autore del reato dal titolare dell’impresa. In tal modo, peraltro, verrebbe salvaguardato anche il principio del ne bis in idem. Sul punto si veda DI GERONIMO, La Cassazione esclude l’applicabilità alle imprese individuali della responsabilità da reato prevista per gli enti collettivi: spunti di diritto comparato, in Cass. pen., 2004, pp. 4049 ss. Si confronti altresì la posizione espressa da PIERGALLINI, L’apparato sanzionatorio, in AA.VV., Reati e responsabilità degli enti. Guida al d.lgs. 8 giugno 2001 n. 231, a cura di LATTANZI, Milano, 2005, p. 203.
7Precisa AMARELLI (L’indebita inclusione, cit., ibidem) che in base ad una interpretazione corretta del dato normativo “impresa individuale” e “ditta individuale”, pur usati come sinonimi nel linguaggio comune, corrispondono a concetti differenti, rappresentando tuttavia (ed è questo l’aspetto fondamentale nell’analisi dell’Autore) “due facce della stessa medaglia”.
8Cass. pen., sez. VI, 3 marzo 2004, n. 18941, pubblicata in Cass. pen., 2004, pp. 4047 ss. Per un primo commento a tale pronuncia si vedano DI GERONIMO, ibidem; AMARELLI, Profili pratici della questione circa la natura giuridica della responsabilità da reato degli enti, in Riv. it. dir. proc. pen., 2006, pp. 151 ss.
9Nella Relazione Ministeriale di accompagnamento al Decreto si legge: “la complessità del modello industriale post- moderno è … notoriamente contraddistinta dall’incremento dei centri decisionali, da una loro accentuata frammentazione e dall’impiego di “schermi fittizi” a cui imputare le scelte e le conseguenti responsabilità”.
10In tal senso si veda AMARELLI, Profili pratici, cit., ibidem.
11Cfr. PELISSERO, La responsabilità degli enti, in ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Leggi complementari, I, a cura di GROSSO, Milano, 2007, p. 858.
12Cass. sez. VI, 16 maggio 2012, n. 30085, in Guida al diritto, 2012, 39, 88.
13Pubblicata in www.neldiritto.it, con nota di ALIVERNINI e VITALE.
14AMARELLI, L’indebita inclusione, cit., ibidem.
15Illuminante in tal senso COMOGLIO (Sub art. 2214, in Codice civile commentato, a cura di ALPA-MARICONDA, Milano, 2009, p. 705): “proprio alla luce di tale funzione, la personalità dell’obbligo opera in modo differente, a seconda che si tratti di impresa individuale oppure di impresa collettiva (società, associazione). Nel primo caso, l’obbligo ricade personalmente sullo stesso imprenditore (e sull’institore, ove questi sia stato nominato ai sensi dell’art. 2205 c.c.), mentre nel secondo esso grava personalmente sugli amministratori, sui direttori generali (ove vi siano) e sui liquidatori (durante la liquidazione), ma non sui soci, né sui sindaci, né sulle società di revisione”.
16AMARELLI, L’indebita inclusione, cit., ibidem.
17In tal senso cfr. DI GERONIMO, ibidem.
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