(Riferimento normativo: Cod. pen., art. 625, c. 1, n. 2)
Il fatto
Il Tribunale di Prato condannava l’imputato per bancarotta fraudolenta documentale e patrimoniale: secondo l’ipotesi accusatoria, costui – amministratore della “(omissis)” s.r.l., dichiarata fallita nel gennaio 2007 – avrebbe consegnato agli organi della procedura concorsuale soltanto il libro giornale relativo agli esercizi 2005 e 2006, occultando o distruggendo le ulteriori scritture (ovvero tenendole in guisa tale da non consentire la ricostruzione del movimento degli affari della società); inoltre, anche attraverso prelievi effettuati a mezzo di assegni bancari da lui sottoscritti, avrebbe depauperato le risorse della fallita, per un controvalore di oltre 500.000,00 Euro.
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I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Avverso il provvedimento summenzionato proponeva ricorso per Cassazione il difensore dell’imputato deducendo, come motivi di doglianza, violazione di legge e vizi della motivazione della sentenza impugnata con riguardo: a) alla ritenuta ravvisabilità del delitto di bancarotta patrimoniale non essendo stati acquisiti elementi di sorta a sostegno dell’assunto che la “(omissis)” disponesse in concreto dei beni asseritamente distratti, sia quanto alle giacenze di cassa (individuate come mera risultanza contabile, peraltro in un contesto di ipotizzata inattendibilità delle scritture), sia in ordine agli assegni (mai essendosene appurato l’effettivo pagamento); b) alla configurabilità dell’affermata bancarotta documentale, contestata – in termini di reciproca incompatibilità – vuoi come tenuta irregolare, strumentale a rendere impossibile la ricostruzione del patrimonio, vuoi come vera e propria sottrazione od occultamento fermo restando che, in ogni caso, il fatto materiale sarebbe stato desunto dalla sola circostanza della consegna al curatore fallimentare del libro giornale con il risultato di considerare provato l’elemento materiale del reato in base al mancato rinvenimento di altri registri (soci, inventari, assemblee e beni ammortizzabili) ignorando peraltro che lo stesso curatore aveva affermato di essere stato in grado di individuare il movimento degli affari della fallita, già in base alle scritture IVA e tenuto conto che, al più, sarebbe stato necessario derubricare il reato ascritto al ricorrente nella meno grave ipotesi criminosa di bancarotta semplice; c) al giudizio di sola equivalenza formulato dalla Corte territoriale fra le attenuanti generiche e la circostanza aggravante della pluralità dei fatti di bancarotta a dispetto della pregressa incensuratezza dell’imputato e del suo leale comportamento processuale:
Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
Pur ritenendosi i motivi di ricorso inammissibili per manifesta infondatezza, tuttavia, per ragioni diverse ed ulteriori rispetto ai profili di censura avanzati dalla difesa, la Suprema Corte riteneva necessario disporre il parziale annullamento della decisione impugnata.
Si osservava a tal proposito prima di tutto come, quanto alla ravvisabilità dei reati in rubrica, fosse necessario innanzi tutto richiamare il consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui “in tema di bancarotta fraudolenta, la prova della distrazione o dell’occultamento dei beni della società dichiarata fallita può essere desunta dalla mancata dimostrazione, da parte dell’amministratore, della destinazione dei beni suddetti” (Cass., Sez. V, n. 8260/2016 del 22/09/2015) rilevandosi al contempo che, nella motivazione della pronuncia appena richiamata, si fosse fra l’altro evidenziato che la responsabilità dell’imprenditore per la conservazione della garanzia patrimoniale verso i creditori e l’obbligo di verità – penalmente sanzionato, gravante L. Fall., ex art. 87 sul fallito, interpellato dal curatore circa la destinazione dei beni dell’impresa – giustificano l’apparente inversione dell’onere della prova a carico dell’amministratore della società fallita, in caso di mancato rinvenimento di beni aziendali o del loro ricavato, non essendo a tal fine sufficienti asserzioni generiche fermo restando che, in quella circostanza, era stata valutata irrilevante l’indicazione di un assorbimento delle risorse non rinvenute nei costi gestionali, non documentati nè precisati in dettaglio: nell’odierna fattispecie concreta, come segnalato dalla Corte fiorentina, l’imputato si era limitato a sostenere che il fondo cassa non era esistente ascrivendo poi ad un rapporto usurario la giustificazione degli assegni che si era trovato costretto ad emettere (tema, quest’ultimo, emerso dall’istruttoria dibattimentale e rimasto puramente allegato).
In ogni caso, veniva posto in evidenza come l’inattendibilità delle scritture contabili fosse stata sottolineata dai giudici di merito in termini generali e non già a proposito della presunta volontà degli amministratori della fallita di far emergere una situazione patrimoniale più florida del reale (come potrebbe accadere volendo rappresentare una falsa condizione di meritevolezza nell’accesso al credito, ad esempio facendo apparire giacenze di cassa fittizie) mentre, nel contempo, rimane irrilevante verificare se gli assegni emessi dal ricorrente furono pagati o no atteso che ne derivò comunque l’assunzione di pacifiche esposizioni debitorie.
Analogamente, le argomentazioni difensive sulla presunta insostenibilità dell’accusa di bancarotta fraudolenta documentale, ad avviso del Supremo Consesso, apparivano essere di carattere assertivo evidenziandosi a tal riguardo, in primis, come la contestazione risultasse essere chiaramente relativa ad una ipotesi di tenuta delle scritture in guisa tale da non consentire la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari (fattispecie a dolo generico), al di là del successivo riferimento, quale modalità della condotta, alla sottrazione od occultamento di alcuni dei libri.
In secondo luogo, veniva osservato come dalla lettura del ricorso se il curatore avrebbe riferito di essere stato in grado di operare la ricostruzione anzidetta contrariamente a quanto si desume dalla motivazione della sentenza impugnata, tuttavia, la stessa difesa evidenziava che quella dichiarazione non fu resa dal curatore in dibattimento bensì in sede di sommarie informazioni testimoniali durante le indagini tanto che il dato emerse soltanto a seguito di rituale contestazione. Ciò comportava, secondo la Suprema Corte, che, altrimenti non giustificandosi il ricorso alla contestazione de qua, la versione riferita in contraddittorio fu effettivamente quella opposta (di cui la Corte territoriale dà correttamente contezza), nè l’atto di impugnazione chiariva – rimanendo, sul punto, generico – se e come il curatore ebbe a correggere le indicazioni offerte.
Ciò posto, in ordine alla dedotta violazione dell’art. 69 c.p., veniva ricordato come le Sezioni Unite avessero puntualizzato che le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra opposte circostanze, implicando una valutazione discrezionale tipica del giudizio di merito, sfuggono al sindacato di legittimità qualora non siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e siano sorrette da sufficiente motivazione tale dovendo ritenersi anche quella che, per giustificare la soluzione dell’equivalenza, si sia limitata a ritenerla la più idonea a realizzare l’adeguatezza della pena irrogata in concreto (Cass., Sez. U, n. 10713 del 25/02/2010).
Il Supremo Consesso, di conseguenza, alla stregua delle considerazioni sin qui esposte, disponeva il parziale annullamento della sentenza impugnata a seguito del dictum del giudice delle leggi (Corte Cost., sentenza n. 222 del 2018), che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della L. Fall., art. 216, u.c. nella parte in cui determinava nella misura fissa di, anziché fino a, 10 anni la durata delle pene accessorie previste per i reati fallimentari sanzionati dai commi precedenti essendo dunque non conforme a legge la commisurazione automatica delle suddette pene accessorie nel caso di specie, perché applicate all’imputato sulla base di un dettato normativo ritenuto incostituzionale.
Conseguentemente, la pronuncia impugnata veniva annullata con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Firenze per nuovo esame sul punto imponendosi, infatti, a riguardo, valutazioni di merito che esulavano dai limiti cognitivi della Corte di legittimità atteso che, ai sensi dell’art. 624 c.p.p., dall’annullamento con rinvio circoscritto al punto di cui sopra deriva l’autorità di cosa giudicata per tutti i restanti punti della sentenza (in primis, l’accertamento della responsabilità dell’imputato e la quantificazione della pena principale) privi di connessione con quello oggetto di annullamento.
Conclusioni
La decisione in esame è interessante nella parte in cui spiega come può essere desunta la prova della distrazione o dell’occultamento dei beni della società dichiarata fallita in tema di bancarotta fraudolenta.
Difatti, in siffatta pronuncia, citandosi un precedente conforme, viene postulato che, in tema di bancarotta fraudolenta, la prova della distrazione o dell’occultamento dei beni della società dichiarata fallita può essere desunta dalla mancata dimostrazione, da parte dell’amministratore, della destinazione dei beni suddetti.
Tale sentenza, di conseguenza, può essere presa nella dovuta considerazione al fine di comprendere come può essere accertato l’elemento costitutivo di codesto illecito penale.
Il giudizio in ordine a quanto statuito in cotale provvedimento, proprio perché fa chiarezza su tale tematica giuridica, dunque, non può che essere positivo.
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