In tema di impugnazione delle misure cautelari personali, quando il ricorso per cassazione è ammissibile

(Ricorso dichiarato inammissibile)

(Riferimento normativo: Cod. proc. pen., art. 311)

Il fatto

Il Tribunale di Napoli, adito in sede di riesame ex art. 309 cod. proc. pen., aveva confermato l’ordinanza applicativa della misura degli arresti domiciliari in relazione al delitto di tentata estorsione pluriaggravata ascritto in concorso.

I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Ricorreva per cassazione l’indagato, a mezzo del proprio difensore, deducendo vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza della gravità indiziaria.

Il ricorrente lamentava a tal proposito anzitutto il carattere apodittico della motivazione con cui il Tribunale aveva disatteso la tesi della sua estraneità alla condotta estorsiva, pur corroborata dalla documentazione prodotta: in particolare, si censurano i riferimenti temporali, ritenuti attendibili dal Tribunale, quanto ai due incontri avuti con i due correi, riferimenti che priverebbero di rilievo liberatorio i messaggi telefonici prodotti.

Al riguardo, si evidenziava come i messaggi intercorsi con i concorrenti evidenziassero che il ricorrente era stato costretto a partecipare con loro al secondo incontro mantenendo un atteggiamento dissenziente e del tutto privo di efficienza causale nell’azione estorsiva.

L’impugnante censurava inoltre i passaggi motivazionali con cui il Tribunale aveva valorizzato la produzione del P.M. relativa ad altri procedimenti (l’iniziale estorsione era stata derubricata in esercizio arbitrario delle proprie ragioni; la registrazione di alcuni colloqui da parte dell’indagato aveva consentito di far emergere l’inattendibilità del suo accusatore, e non poteva essere in questa sede valutata negativamente).

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

Il ricorso veniva dichiarato inammissibile per le seguenti ragioni.

Si riteneva a tal riguardo opportuno richiamare il consolidato insegnamento della Suprema Corte secondo cui «in tema di impugnazione delle misure cautelari personali, il ricorso per cassazione è ammissibile soltanto se denuncia la violazione di specifiche norme di legge, ovvero la manifesta illogicità della motivazione del provvedimento secondo i canoni della logica ed i principi di diritto, ma non anche quando propone censure che riguardino la ricostruzione dei fatti ovvero si risolvano in una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito» (Sez. 4, n. 18795 del 02/03/2017, omissis, Rv. 269884; v. anche Sez. 2, n. 9212 del 02/02/2017, omissis, Rv. 269438, secondo la quale «in tema di ricorso per cassazione, il controllo di legittimità, anche nel giudizio cautelare personale, non comprende il potere di revisione degli elementi materiali e fattuali delle vicende indagate, ivi compreso lo spessore degli indizi, né quello di riconsiderazione delle caratteristiche soggettive dell’indagato, trattandosi di apprezzamenti rientranti nelle valutazioni del Gip e del tribunale del riesame, essendo, invece, circoscritto all’esame dell’atto impugnato al fine di verificare la sussistenza dell’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato e l’assenza di illogicità evidenti, ossia la congruità delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento).

Ciò posto, gli Ermellini osservavano come, alla luce di tali principi, risultasse evidente che il ricorso, pur articolando formalmente doglianze di legittimità, si risolvesse in realtà in una non consentita critica della valutazione delle risultanze acquisite al fascicolo da parte del giudice della cautela e in una altrettanto inammissibile prospettazione di una diversa lettura delle risultanze medesime il cui apprezzamento era evidentemente precluso in sede di legittimità.

Dal provvedimento impugnato (oltre che dallo stesso ricorso), difatti, ad avviso dei giudici di piazza Cavour, emergeva con chiarezza che la linea difensiva dell’indagato fosse consistita nel respingere qualsiasi addebito circa la tentata estorsione a lui contestata.

Orbene, a fronte di tale prospettazione difensiva, i giudici di legittimità ordinaria evidenziavano come essa fosse stata disattesa dal Tribunale di Napoli valorizzando sia la piena attendibilità delle dichiarazioni dei concorrenti del reato, del tutto prive di intenti calunniatori, sia la sussistenza di plurime discrasie nella ricostruzione fatta dal ricorrente.

A tale secondo riguardo, in particolare, il Collegio partenopeo aveva posto in evidenza (pag. 5 seg.) che: a) poco prima dell’inizio delle pressioni sull’O., il ricorrente (per sua stessa ammissione) aveva avuto delle interlocuzioni con l’I., per confrontarsi su progetti imprenditoriali (occasioni in cui egli diede all’I. delucidazioni sull’organigramma della P. e sulla procedura per l’assegnazione dei nuovi punti vendita); b) nonostante tali occasioni di incontro, egli non si era informato su quale fosse il settore di interesse dell’I., del quale non aveva neppure i recapiti; c) l’A., pur avendo poi compreso di essere il fulcro dei propositi criminosi dell’I., non si era premurato di informare il vertice societario; d) il ricorrente, pur avendo affermato di essersi confidato con un amico poliziotto, quando seppe dall’O. delle intimidazioni ricevute dall’I. (e si rese conto della caratura criminale di quest’ultimo), non ritenne di informare tale esponente delle Forze dell’ordine quando le “mire” dell’I. e dell’E. si concentrarono su di lui; e) allo stesso modo l’A., pur avendo affermato di essersi offerto di accompagnare l’O. al secondo incontro, non ritenne di informare quest’ultimo nel momento in cui venne imposto anche a lui, dall’I., di partecipare a tale seconda riunione.

Detto questo, veniva inoltre sottolineato come il Tribunale avesse altresì ritenuto come tali plurime discrasie avessero finito per rafforzare l’ipotesi accusatoria secondo cui il ricorrente era in realtà impegnato a perorare gli intenti criminosi degli altri protagonisti di questa vicenda criminale volti ad acquisire per suo tramite la gestione del punto vendita.

Né, in senso contrario, ad avviso del Supremo Consesso, poteva d’altro lato farsi riferimento alla messaggistica intercorsa tra il ricorrente, l’O. e il T., che – per il tenore ambiguo delle comunicazioni, e la collocazione temporale non coerente con le presumibili date dei due incontri – non era idonea a dimostrare che l’A. fosse intenzionato a prendere le distanze dai propositi criminosi dell’I. e dell’E.: e ciò anche considerando che le persone offese avevano negato contatti con il ricorrente, nel periodo compreso tra i due incontri con gli estorsori (cfr. pag. 5, cit.).

Ebbene, a fronte di tale percorso argomentativo, in sé del tutto privo di contraddittorietà o evidenti illogicità (ed anzi perfettamente lineare), secondo la Corte di legittimità, il ricorrente si era limitato ad una generica censura dei riferimenti temporali accolti dal Tribunale nel precisare l’epoca dei messaggi rispetto ai due incontri senza peraltro fornire al riguardo elementi idonei a vulnerare l’impianto argomentativo contenuto nell’ordinanza impugnata (non potendosi certo conferire decisivo rilievo, dinanzi all’obiettiva ambiguità dei messaggi, al rilievo per cui una diversa collocazione temporale degli incontri poteva essere dedotta dalle dichiarazioni dell’altro dipendente A. che, inizialmente, aveva “agganciato” l’O. su richiesta degli estorsori: cfr. pag. 3 del ricorso).

Inoltre, ed anzi soprattutto, sempre per la Suprema Corte, difettava totalmente nel ricorso qualsiasi confronto e correlazione critica con i plurimi elementi di incoerenza evidenziati dal Tribunale nella versione del ricorrente e ciò sia quanto alla sussistenza di rapporti quanto meno ambigui con l’I. già prima che iniziassero le pressioni sull’O., sia soprattutto quanto al fatto che il ricorrente – pur potendo farlo agevolmente, anche grazie ai pregressi rapporti personali – aveva evitato di allertare con la necessaria chiarezza e rapidità le persone offese (oltre all’amico poliziotto) del proprio coinvolgimento nella vicenda, cui sarebbe stato costretto dalle pressioni dell’I. e dell’E..

Infine, quanto alle residue censure, relative agli elementi valorizzati dal Tribunale per comprovare la tendenza dell’A. a precostituirsi prove a discarico (cfr. pag. 6 dell’ordinanza impugnata), appariva essere per la Corte assorbente il rilievo per cui si trattava di elementi che nulla aggiungevano e nulla toglievano al compendio indiziario valorizzato dal Tribunale, unico profilo censurato dal ricorso dell’A..

Risultava pertanto essere ultroneo ogni approfondimento al riguardo dal momento che, sia la sussistenza delle esigenze cautelari, sia la proporzionalità ed adeguatezza della misura applicata, ad avviso del Supremo Consesso, non erano stati oggetto di specifiche doglianze da parte del ricorrente.

Conclusioni

La decisione in esame è assai interessante nella parte in cui si spiega quando è ammissibile il ricorso per Cassazione in materia di impugnazione delle misure cautelari personali.

Difatti, in questa pronuncia, alla luce di precedenti conformi, si afferma che, in tema di impugnazione delle misure cautelari personali, il ricorso per cassazione è ammissibile soltanto se denuncia la violazione di specifiche norme di legge ovvero la manifesta illogicità della motivazione del provvedimento secondo i canoni della logica ed i principi di diritto ma non anche quando propone censure che riguardino la ricostruzione dei fatti ovvero si risolvano in una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito.

Questa sentenza, dunque, deve essere presa nella dovuta considerazione quando si deve presentare un ricorso per Cassazione in tali casi.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatto provvedimento, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su tale tematica procedurale, di conseguenza, non può che essere positivo.

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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