(Riferimento normativo: C.p. art. 570)
Il fatto
La Corte di appello di Lecce, in accoglimento dell’impugnazione proposta dalla sola parte civile, riformava la pronuncia assolutoria di primo grado del Tribunale della stessa città del 07/07/2015 e condannava S.G. al risarcimento dei danni in favore della medesima parte, in relazione al reato di cui all’art. 570 c.p. e L. n. 898 del 1970, art. 12 sexies per essersi sottratto, fino all’aprile del 2012, all’obbligo di corresponsione dell’assegno mensile di 730 Euro in favore dei figli minori M. e F., e della moglie C.E., nonchè al pagamento delle utenze domestiche dell’abitazione familiare, come concordato dai coniugi con verbale poi recepito nella sentenza di separazione.
Rilevava la Corte territoriale come le emergenze processuali avessero provato l’inadempimento dell’imputato il quale non aveva dato dimostrazione della sua impossibilità economica assoluta ad adempiere, essendo pure irrilevante che in alcuni mesi avesse versato un importo ridotto.
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I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Avverso tale sentenza presentava ricorso l’imputato, con atto sottoscritto dal suo difensore dell’epoca avv. F. C., il quale deduceva i seguenti tre motivi: a) vizio di motivazione, in relazione all’art. 546, comma 1, lett. e), art. 603 c.p.p., comma 3, art. 6, par. 3, lett. d), CEDU, per avere la Corte di appello riformato la sentenza assolutoria senza provvedere alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale per l’assunzione della prova dichiarativa; b) violazione di legge, in relazione agli artt. 42 e 570 c.p., e vizio di motivazione, per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità, per avere la Corte distrettuale erroneamente riformato la sentenza assolutoria di primo grado, senza tenere conto che l’imputato non aveva modificato arbitrariamente la somma versata mensilmente alla coniuge separata, essendo stato costretto a quella riduzione in ragione delle sue precarie condizioni economiche e non avendo mai, comunque, fatto mancare ai figli i mezzi di sussistenza; c) violazione di legge, in relazione all’art. 538 c.p.p., e vizio di motivazione, per avere la Corte salentina omesso di indicare le ragioni della quantificazione del danno al cui risarcimento l’imputato era stato condannato.
Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
Il Supremo Consesso riteneva il ricorso infondato, e quindi da doversi rigettare, alla stregua delle seguenti considerazioni.
Si osservava prima di tutto come fosse ben vero che nella giurisprudenza di legittimità si era affermato che il giudice di appello che riformi, ai soli fini civili, la sentenza assolutoria di primo grado (anche se emessa all’esito di giudizio abbreviato), sulla base di un diverso apprezzamento dell’attendibilità di una prova dichiarativa ritenuta decisiva, è obbligato a rinnovare l’istruzione dibattimentale, anche d’ufficio (così Sez. U, n. 18620 del 19/01/2017, omissis, Rv. 269787), ma è anche vero che tale regola vale se il ribaltamento della decisione sia fondato essenzialmente su una rivalutazione della prova dichiarativa la quale, dunque, acquista carattere di decisività nell’economia della pronuncia di secondo grado.
Posto ciò, gli ermellini facevano presente come tale criterio ermeneutico non risultasse affatto disatteso nel caso di specie nel quale la Corte di appello di Lecce aveva chiarito come i contorni della condotta omissiva tenuta dall’imputato nei riguardi della moglie separata e dei figli non fossero affatto in discussione essendo anzi sostanzialmente pacifici nella ricostruzione che le parti ne avevano dato non essendo un caso che nella motivazione della sentenza gravata vi era stato un solo riferimento alle dichiarazioni che la C., moglie dello S., aveva reso dinanzi al giudice di prime cure, in relazione ad una circostanza, quella della durata dell’attività lavorativa dell’imputato, che non aveva costituito oggetto di dubbio essendo significativamente intervenute sul punto le concordi ammissioni del prevenuto.
Tal che se ne faceva conseguire come la prova dichiarativa non avesse assunto alcun carattere di decisività della nuova determinazione della Corte territoriale la quale aveva esplicitato come la differente valutazione della vicenda fosse dipesa da una diversa considerazione della prova documentale, in specie di quella relativa alle possidenze immobiliari e mobiliari dell’imputato, ai suoi rapporti debitori con equitalia e alla sua attività lavorativa come certificata dall’agenzia delle entrate.
Anche il secondo motivo veniva stimato manifestamente infondato costituendo ius receptum nella giurisprudenza di legittimità i principi secondo i quali, in tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, l’incapacità economica dell’obbligato, intesa come impossibilità di far fronte agli adempimenti sanzionati dall’art. 570 c.p., deve essere assoluta e deve altresì integrare una situazione di persistente, oggettiva ed incolpevole indisponibilità di introiti (così, tra le molte, Sez. 6, n. 33997 del 24/06/2015, C., Rv. 264667) fermo restando che integra la fattispecie delittuosa in argomento anche l’inadempimento parziale dell’obbligo di corresponsione dell’assegno alimentare quando le somme versate non consentano ai beneficiari di far fronte alle loro esigenze fondamentali di vita, quali vitto, alloggio, vestiario ed educazione (Sez. 6, n. 13900 del 28/03/2012, omissis, Rv. 252608).
Declinando tale principio di diritto al caso di specie, i giudici di piazza Cavour denotavano come di tali regulae iuris la Corte territoriale avesse fatto buon governo evidenziando come, da un lato, le carte del processo avessero dimostrato che, nel periodo oggetto di contestazione, cioè dal gennaio del 2011 all’aprile del 2012, lo S. aveva continuato a svolgere la sua attività di piastrellista (avendo cancellato la propria ditta solo nel novembre del 2012, iniziando a pagare ratealmente i suoi debiti con equitalia solo dal gennaio del 2013) ed aveva avuto disponibilità di beni immobili e mobili registrati, e dunque non era stata affatto provata l’asserita assoluta incapacità economica del prevenuto e, da altro lato, come, nell’arco temporale in contestazione, lo S. avesse talora omesso di versare del tutto quanto dovuto mensilmente ai due figli minori, tal’altra aveva arbitrariamente ridotto l’entità del versamento periodico senza neppure attivarsi per domandare all’autorità giudiziaria una riduzione della somma stabilita nella sentenza di separazione.
Si riteneva inoltre del tutto privo di pregio il terzo motivo del ricorso atteso che è pacifico che, in tema di liquidazione del danno non patrimoniale, la valutazione del giudice, affidata ad apprezzamenti discrezionali ed equitativi, è censurabile in sede di legittimità, sotto il profilo del vizio della motivazione, solo se essa difetti totalmente di giustificazione o si discosti macroscopicamente dai dati di comune esperienza o sia radicalmente contraddittoria (così, ex multis, Sez. 5, n. 35104 del 22/06/2013, omissis, Rv. 257123): nel caso di specie l’importo di 5.000 Euro di liquidazione dei danni morali subiti dalla moglie e dai due figli minori, al cui risarcimento l’imputato era stato condannato, appariva, ad avviso della Corte, ragionevolmente stabilita in via equitativa dai giudici di merito che, con motivazione adeguata, aveva ancorato la misura alla durata di quindici mesi nei corso dei quali lo S. aveva omesso di versare l’importo mensile dovuto ai familiari di 730 Euro ovvero aveva versato un importo sensibilmente inferiore.
Oltre a questo, si postulava che se è vero che il principio della soccombenza avrebbe imposto la condanna del ricorrente alla rifusione delle spese di costituzione e difesa sostenute dalle parti civili, ma nel caso di specie tale pronuncia non era possibile in quanto la richiesta di liquidazione è stata formulata con una mera nota allegata ad una memoria depositata in cancelleria, non avendo il difensore partecipato all’odierna udienza, è altrettanto vero che a ciò osta il combinato disposto dell’art. 523 c.p.p., commi 1 e 2, e art. 614 c.p.p., comma 4, e art. 153 disp. att. c.p.p. che, rammentava la Corte nella decisione in commento, impone al difensore della parte civile di partecipare personalmente alla udienza per formulare e illustrare le proprie conclusioni e, solo all’esito della discussione, di depositare le conclusioni scritte e la nota spese, e dunque nel corso del giudizio non è ammesso alcun surrogato – quale il deposito di una memoria difensiva in cancelleria – ad una attività che deve essere esplicata innanzitutto mediante la partecipazione alla discussione in udienza e nel rispetto del principio dell’oralità che qualifica il processo penale anche nella trattazione delle questioni concernenti l’azione civile (in questo senso, secondo l’orientamento che appare maggioritario nella giurisprudenza di legittimità, Sez. 5, n. 29481 del 07/05/2018, omissis, Rv., 273332).
Da ciò se ne faceva discendere la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
Si rilevava infine che, per quanto concerne la richiesta di liquidazione delle spese di difesa in favore del difensore dell’imputato, ammesso al patrocinio a spese dello Stato, ogni determinazione sulla stessa andasse rimessa al giudice del merito.
Conclusioni
La sentenza in commento è sicuramente condivisibile in quanto si allinea lungo il solco di un orientamento nomofilattico consolidato.
Il principio di diritto ivi affermato, ossia che, in tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, l’incapacità economica dell’obbligato, intesa come impossibilità di far fronte agli adempimenti sanzionati dall’art. 570 c.p., deve essere assoluta e deve altresì integrare una situazione di persistente, oggettiva ed incolpevole indisponibilità di introiti, difatti, si pone in conformità con diverse pronunce con cui la Cassazione ha parimenti affermato un analogo criterio ermeneutico (come quella citata nella sentenza in esame, vale a dire Sez. 6, n. 33997 del 24/06/2015).
L’ulteriore passaggio argomentativo, inserito nella decisione, vale a dire che integra la fattispecie delittuosa in argomento anche l’inadempimento parziale dell’obbligo di corresponsione dell’assegno alimentare quando le somme versate non consentano ai beneficiari di far fronte alle loro esigenze fondamentali di vita, quali vitto, alloggio, vestiario ed educazione, oltre ad allinearsi ad un precedente conforme (Sez. 6, n. 13900 del 28/03/2012), è altrettanto condivisibile posto che anche un inadempimento parziale può rilevare, ai fini della sussistenza del reato di cui all’art. 570 c.p., nella misura in cui determini la violazione degli obblighi di assistenza familiare secondo quanto previsto da questa norma incriminatrice.
Il giudizio in ordine a quanto statuito in tale pronuncia, di conseguenza, dunque, non può che essere positivo.
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