Rifiuto di messa alla prova (M.A.P.): l’inadeguatezza motivazionale

L’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova (M.A.P.) è stato introdotto nell’ambito sostanziale e processualpenalistico per adulti con la legge 28 aprile 2014, che ha introdotto gli artt. 168 bis e ss. c.p. e artt. 464 novies e ss. c.p.p., e ha subito delle recenti modifiche ad opera della riforma Cartabia con il D. Lgs. 150/2022. Per un valido supporto per professionisti consigliamo: Codice penale e di procedura penale e norme complementari -Edizione 2024. Aggiornato alla Riforma Nordio e al decreto Svuota Carceri

Indice

1. La storia dell’istituto della messa alla prova (M.A.P.)


La M.A.P non è nuova nel mondo del “criminal law”, ma affonda le proprie radici nella probation anglosassone1 e il nostro ordinamento l’aveva già importata ed applicata nel procedimento minorile. La luce che irradiava l’animus del legislatore era (e tuttora continua ad essere) la seguente: recuperare socialmente un soggetto colpevole di determinati reati e indurlo a comprendere il disvalore della propria condotta allo scopo di poterlo reinserire in seno alla società. La M.A.P., in generale, è un modo concreto con cui si palesa nel nostro ordinamento la finalità rieducativa della pena (art. 27 comma 3 Cost) e, a parer mio, anche del diritto alla speranza. È di necessaria importanza, oserei addirittura dire “vitale”, alimentare sempre la speranza nell’animo di ogni essere umano, anche quando quest’ultimo si sia macchiato di qualche crimen, sempre purché (tale speranza) sia ragionevole, fondata e motivata. Inoltre, è necessario che essa si basi su principi di uguaglianza, equità, proporzionalità, nel rispetto della legge ed in generali di tutti i principi portanti del nostro sistema sostanziale e processualpenalistico. Il diritto alla speranza, affermato per la prima volta nell’opinione concorrente del giudice Ann Power Forde nella sentenza emessa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo il 9 luglio 2013 nel caso Vinter c. Regno Unito, non è nuovo “sotto il sole” della giurisprudenza italiana: ad esempio, già viene menzionato nell’ordinanza n. 18518 del 2020 della Prima Sezione della Corte di Cassazione, che evidenzia che “come la Corte Edu – sentenza Vinter e altri c. Regno Unito, 2013 – ha messo in luce, la speranza inerisce strettamente alla persona umana e anche gli individui che si sono resi responsabili dei crimini più odiosi conservano la loro umanità e quindi la possibilità di cambiare e di reinserirsi nella società aderendo al sistema di valori condiviso”. Si tratta di un diritto che va molto oltre la questione della possibilità di liberazione per il soggetto condannato all’ergastolo, in relazione alla quale esso è stato affermato finora dalla giurisprudenza europea e italiana. Non concedere ad un individuo il diritto alla speranza, tenendo conto non solo delle circostanze oggettive e soggettive ma di tutte le peculiarità del caso concreto, significa lasciarlo errare nel buio dei tormenti del suo cuore umano. Il diritto alla speranza meriterebbe essere positivizzato nel nostro ordinamento giuridico. “The Right of Hope” è legato al diritto alla vita in quanto nasce con la vita stessa. Per comprendere al meglio l’importanza di tale istituto si annovera una recente sentenza della Cassazione: la n. 23934 del 2024. La suddetta esamina una questione di non poca rilevanza pratica: è da ritenersi legittimo il provvedimento del giudice che respinge la richiesta della M.A.P. presentata dal prevenuto, mediante il proprio procuratore, con una motivazione meramente apparente, nonostante vi siano tutti i presupposti: oggettivi, soggettivi, nonché il consenso dell’imputato? Infine, ma non meno importante, last but not least, è da ritenersi conforme all’equità il ritenere indispensabile ad ogni costo il risarcimento del danno nella sua forma integrale come condicio sine qua non per la concessione della M.A.P. nonostante giurisprudenza contraria? Addentriamoci nel caso in esame in maniera un po’ più dettagliata. Per un valido supporto per professionisti consigliamo: Codice penale e di procedura penale e norme complementari -Edizione 2024. Aggiornato alla Riforma Nordio e al decreto Svuota Carceri

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2. Il caso pratico: è possibile il respingimento della M.A.P. con motivazione meramente apparente


Vicenda
L’imputato, incensurato, viene condannato dal giudice di prime cure per il reato di omessa dichiarazione fiscale ex art. 5, D. Lgs. n. 74/2000 ad una determinata pena. La sentenza viene confermata in grado di Appello. La vertenza giunge in Cassazione la quale riscontra una serie di faglie (anche motivazionali) da parte dei giudici dei precedenti gradi di giudizio. – Ricorso per cassazione In primis il prevenuto, nel caso in esame, ha lamentato il mancato accoglimento dell’istanza di sospensione del procedimento con messa alla prova da parte del giudice precedente, di cui agli artt. 168-bis, cod. pen. e 464-bis, cod. proc. pen., senza l’indicazione di una specifica e puntuale motivazione a riguardo. In particolare l’istante nella doglianza ha ritenuto che la Corte di Appello si fosse limitata a confermare ed avvalorare quella di primo grado in maniera apodittica, venendo così meno all’obbligo di una motivazione puntuale e analitica della decisione. La Corte di Appello, in particolare, non ha motivato in modo adeguato il perché il Tribunale aveva rigettato l’istanza nella fase preliminare del procedimento, prima ancora che l’imputato avesse avuto la possibilità di approfondire e concordare con l’Uepe le modalità con cui eventualmente provvedere all’integrale risarcimento del danno; senza tener conto della circostanza che l’imputato, nell’istanza inoltrata all’Uepe, aveva espresso la propria disponibilità ad azioni di carattere riparatorio/ risarcitorio in base a quanto stabilito dal giudice; della circostanza che non fosse stato chiesto all’imputato di manifestare la propria disponibilità; senza motivare, inoltre, il perché fosse necessario il risarcimento del danno nella sua forma integrale come condicio sine qua non per la concessione della messa alla prova”, “nonostante la giurisprudenza richieda che sia il giudice a verificare in concreto la possibilità da parte del prevenuto di risarcire il danno”.
Valutazione della Suprema Corte
La Suprema Corte, infatti, nella propria decisione, ha acclarato che le ragioni del ricorrente erano fondate. In particolare la Cassazione ha affermato la erroneità in diritto e la inadeguatezza motivazionale del provvedimento ed ha evidenziato che non si può subordinare la concessione dell’istituto M.A.P. alla condizione che il risarcimento del danno necessariamente nella sua forma integrale in ogni caso. Secondo la Corte tale impostazione, di tipo meccanicisticamente retributivo, è priva di fondamento normativo e razionale, come già affermato in un precedente giurisprudenziale non massimato (Sez. 3, n. 26046 del 05/04/2002, Perrucci). Infatti fra le condizioni necessarie ai fini della ammissione alla messa alla prova, il risarcimento del danno cagionato dal reato è indicato solamente con la espressione “ove possibile”. Tale espressione evidenzia la inammissibilità della istanza laddove, per fattori diversi, ivi compresa la incapienza dell’istante rispetto alla entità del danno cagionato, il risarcimento non sia concretamente praticabile; tuttavia, pur essendo auspicabile tale risarcimento, esso non viene assunto a livello di condizione ostativa ove non realizzabile. Si tratta di una impostazione coerente con le indicazioni offerte dalla prevalente giurisprudenza di legittimità che ha chiarito che la valutazione dell’adeguatezza del programma presentato va operata sulla base degli elementi evocati dall’art. 133 c.p., in relazione non soltanto all’idoneità a favorire il reinserimento sociale del prevenuto, ma anche all’effettiva corrispondenza alle condizioni di vita dello stesso, avuto riguardo alla previsione di un risarcimento del danno corrispondente, ove possibile, al pregiudizio arrecato alla vittima o che, comunque, sia espressione – in un’ottica che non sia esclusiva mente retributiva ma tenda a favorire la riabilitazione, bonis operibus, del prevenuto – della sua disponibilità ad assicurare la prestazione, ai fini ripristinatori, dello sforzo massimo da lui sostenibile alla luce delle sue condizioni economiche, che possono essere verificate dal giudice ex art. 464-bis, comma 5, c.p.p. (Sez. 2, n. 34878 del 13/06/2019, Rv. 277070 – 01). Dunque ai fini della M.A.P. bisogna prendere in considerazione tutte le circostanze fattuali del singolo caso concreto in modo ragionevole, senza limitarsi al profilo dell’avvenuto o meno risarcimento del danno. La giurisprudenza, infatti, in generale statuisce che, ai fini dell’accoglimento della richiesta della M.A.P. (presentata tempestivamente), bisogna tener conto delle necessità dell’imputato, le quali possono essere di varia natura, anche di salute (Sez. 4, sentenza 30 marzo 2020, n. 10787); e l’eventuale rigetto deve essere sorretto da un’adeguata motivazione. Soltanto se sussiste un’adeguata motivazione il rigetto è insindacabile in sede di legittimità (Cassazione penale sez. VI, 14/09/2022, n.37346). Ai fini della sua applicazione bisogna prendere in considerazione sempre le condizioni indicate dall’art. 133 c.p., tenendo conto sia della modalità della condotta che della personalità del reo. Nel caso di specie, è stato quindi considerato errato il rigetto della richiesta della sospensione del procedimento con messa alla prova (M.A.P.) formulata da parte dell’imputato senza che sia stata effettuata dal giudice di merito una valutazione approfondita. Nel caso in esame, il diniego della M.A.P. sarebbe contrario anche al favor legis manifestato anche di recente come si evince dal D.Lgs 150 /2022 (Riforma Cartabia in ambito penalistico) che ha ampliato i casi in cui si può far uso di tale istituto.

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Francesca Balsamo

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