Inammissibile il filtro in Appello: l’art. 342 c.p.c. e la chiara indicazione delle censure

Inammissibile il filtro in appello: Cassazione Civile Sezione III 05 maggio 2017 n. 10916.

L’art. 342 c.p.c. non esige un progetto alternativo di sentenza, un vacuo formalismo, nè alcuna trascrizione della sentenza appellata, ma la chiara ed inequivoca indicazione delle censure.

 

 

Fatto processuale.

La ricorrente in Cassazione denunciava che la sentenza impugnata fosse affetta da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c. per violazione dell’art. 342 c.p.c. Secondo la ricorrente, l’appello era inammissibile perché non indicava né le “parti della sentenza” che intendeva impugnare, né le “modifiche richieste alla ricostruzione dei fatti”.

La decisione.

L’art. 342 c.p.c. esige che l’appello indichi: 1) le parti del provvedimento che si intende appellare; 2) le modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado; 3) l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge; 4) la rilevanza di tali circostanze ai fini della decisione impugnata. Il Relatore, Dott. Marco Rossetti, rileva che la norma costituisce la trascrizione ad litteram del § 520 (BerufungsbegrOndung), comma 3, nn. 1-3, del Codice di procedura civile della Repubblica Federale di Germania, con l’unica differenza consistente nel fatto che mentre la norma germanica esige “l’indicazione di elementi concreti che fondano il dubbio sulla correttezza o completezza degli accertamenti di fatto” contenuti nella decisione impugnata, la norma italiana si limita ad esigere l’indicazione “delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto”.

Il Relatore bacchetta dottrina e giurispudenza: “l’opinione dell’appellante riecheggia con evidenza opinioni affiorate in dottrina, e condivise da talune decisioni di merito, nelle quali si arriva a sostenere che il novellato art. 342 c.p.c. esigerebbe dall’appellante l’indicazione, nell’atto d’appello, d’una specie di progetto alternativo di sentenza”. Questo orientamentoviene, tuttavia, stroncato dal Dott. Rossetti per tre ragioni.

La prima ragione riviene dal nostro processo civile, proveniente da un “assetto teleologico delle forme”, di cui è traccia evidente nell’art. 156, comma terzo, c.p.c., secondo il quale la nullità d’un atto processuale non può mai essere pronunciata, se l’atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato.

La seconda ragione risiede sulle norme processuali, qualora ambigue, interpretabili in modo da favorire una decisione sul merito, piuttosto che esiti abortivi del processo. Le regole processuali infatti costituiscono solo lo strumento per garantire la giustizia della decisione, non il fine stesso del processo (cfr Cass. Civ. Sez. Unite 12 dicembre 2014 n. 26242 ove si è proclamato il superamento “dell’assunto della inossidabile primazia del rito rispetto al merito”, soggiungendo che tra più ragioni di rigetto della domanda, il giudice dovrebbe optare per quella che assicura il risultato più stabile: sicché tra un rigetto per motivi di rito e uno per ragioni afferenti al merito, il giudice dovrebbe scegliere il secondo).

La terza ragione è che anche il diritto processuale, come quello sostanziale, non può non essere interpretato alla luce delle regole sovranazionali imposte dal diritto comunitario. Tra queste vi è l’art. 6, comma 3, del Trattato sull’Unione Europea (c.d. “Trattato di Lisbona”, ratificato e reso esecutivo con I. 2 agosto 2008, n. 130), il quale stabilisce che “i diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (…) fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”. Per effetto di tale norma, dunque, i princìpi della CEDU sono stati “comunitarizzati”, e sono divenuti “princìpi fondanti dell’Unione Europea”. Tra i princìpi sanciti dalla CEDU vi è quello alla effettività della tutela giurisdizionale, sancito dall’art. 6 CEDU. Nell’interpretare tale norma, la Corte di Strasburgo (CEDU) ha ripetutamente affermato che il principio di effettività della tutela giurisdizionale va inteso quale esigenza che alla domanda di giustizia dei consociati debba, per quanto possibile, essere esaminata sempre e preferibilmente nel merito. Ciò vuol dire che gli organi giudiziari degli Stati membri, nell’interpretazione della legge processuale, “devono evitare gli eccessi di formalismo, segnatamente in punto di ammissibilità o ricevibilità dei ricorsi, consentendo per quanto possibile, la concreta esplicazione di quel diritto di accesso ad un tribunale previsto e garantito dall’art. 6 della CEDU del 1950”. In applicazione di questi princìpi, la sentenza pronunciata da Corte EDU, II sezione, 28.6.2005, Zednìk c. Repubblica Ceca, in causa 74328/01, ha affermato che le cause di nullità o di inammissibilità “non possono restringere l’accesso alla giustizia al punto tale da che sia vulnerata l’essenza stessa del diritto fatto valere. Inoltre, osserva il Relatore, le cause di nullità od inammissibilità si conciliano con l’articolo 6, § 1, della Convenzione solo se perseguono un fine legittimo e se esiste un rapporto ragionevole di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo avuto di mira”. Ed in questo senso si sono altresì pronunciate Corte EDU, I sez., 21.2.2008, Koskina c. Grecia, in causa 2602/06; e Corte EDU, I sez., 24.4.2008. Kemp c. Granducato di Lussemburgo, in causa 17140/05.

Alla luce dei princìpi sin qui esposti, il Supremo Collegio (ma segnatamente, il Relatore Dott. Marco Rossetti), conclude che l’art. 342 c.p.c., non esiga dall’appellante alcun “progetto alternativo di sentenza”; non esiga dall’appellante alcun vacuo formalismo fine a se stesso; non esiga dall’appellante alcuna trascrizione integrale o parziale della sentenza appellata o di parti di essa. Il novellato art. 342 c.p.c. esige invece dall’appellante: la chiara ed inequivoca indicazione delle censure che intende muovere alla sentenza appellata, tanto in punto di ricostruzione dei fatti, quanto in punto di diritto; gli argomenti che intende contrapporre a quelli adottati dal giudice di primo grado a sostegno della decisione (sostanzialmente in questo senso cfr Cass. Sez. Sez. Lav. 20 settembre 2016 n. 18411). Tali argomenti ovviamente dipenderanno dalla specificità dei singoli giudizi, ma, in linea generale, essi consisteranno: nel caso di censure riguardanti la ricostruzione dei fatti, nell’indicazione delle prove che si assumono trascurate, ovvero di quelle che si assumono malamente valutate; nel caso di censure riguardanti questioni di diritto, nell’indicazione della norma che si sarebbe dovuta applicare, ovvero dell’interpretazione che si sarebbe dovuta preferire; nel caso di censure riguardanti errores in procedendo, nell’indicazione del fatto processuale malamente valutato dal giudice, e dalla diversa scelta processuale che avrebbe dovuto compiere.

 

Sentenza collegata

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Lattarulo Carmine

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