Non è autonomamente impugnabile né abnorme il provvedimento del giudice che dichiari la nullità del decreto di citazione a giudizio per omessa traduzione dell’atto nella lingua conosciuta dall’imputato, in quanto la valutazione sulla necessità della traduzione si connota del carattere della discrezionalità e la motivazione, anche se presuntiva e basata sulla sola richiesta dell’imputato di traduzione, può al massimo essere valutata come erronea.
1. Esemplificazione dei limiti di censura da parte del P.M. nei confronti di un provvedimento o aumento del diaframma tra poteri ordinatori del giudice del dibattimento e obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale.
La genesi del ricorso avanzato dal P.M. è tutta qui. E cioè fra il diritto a giudicare penalmente responsabile un soggetto e il diritto di quest’ultimo ad autodifendersi. Nel processo, s’intende.
La libertà di autodeterminazione è coessenziale all’esercizio del diritto di difesa, negare questo diritto significherebbe far prevalere la forma endo-processuale sulla sostanza dei diritti.
Da ciò ne discende come logico corollario che esiste un assetto informato alla tutela della libertà di autodeterminazione dell’imputato sia nel corso delle indagini preliminari che durante il processo, favorendo il compimento delle attività acquisitive in suo favore e precludendo una decisione di condanna, dalla quale scaturirebbe la sicura violazione dell’art. 24 comma 2 Cost.
Essere pienamente e coscientemente informati del procedimento e dei capi di imputazione appartiene a quel coacervo di diritti ritenuti fondamentali dalla nostra Carta costituzionale.
Questi, in breve, i termini della questione. Con ordinanza del 30 settembre 2010 il Tribunale di Roma accoglieva l’eccezione sollevata dalla difesa dell’imputato ove veniva indicato che il decreto di citazione a giudizio non era stato tradotto in lingua conoscibile o a lui conosciuta, osservando il giudicante che le indicazioni contenute nel fascicolo non erano idonee a dimostrare che lo stesso parlasse la lingua italiana.
Avverso detto ordinanza proponeva impugnazione il P.M. denunciando la nullità e l’abnormità del provvedimento, nonché la stasi dello stesso procedimento creatasi a seguito dell’accolta eccezione di nullità.
Con requisitoria il P.G. ha formulato richiesta scritta d’inammissibilità in quanto il primo motivo sarebbe irrilevante, mentre il secondo manifestamente infondato.
La Suprema Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso avanzato dalla Procura della Repubblica.
2. In base al codice di rito, le ordinanze emesse in fase dibattimentale sono impugnabili soltanto unitamente alla sentenza che chiude tale fase (art. 586 c.p.p.). Ciò lo impone, del resto, il principio della tassatività delle impugnazioni prescritto dall’articolo 568, comma 1, del c.p.p., che parimenti esclude la possibilità di impugnare, in via autonoma e diretta, le ordinanze dibattimentali.
Come già sottolineato dal Supremo Collegio, non è abnorme e, pertanto, non è ricorribile in Cassazione, il provvedimento del giudice che dichiara la nullità del decreto di citazione a giudizio per omessa traduzione dell’atto nella lingua conosciuta dall’imputato, in quanto la valutazione sulla necessità della traduzione si connota del carattere della discrezionalità e la motivazione, anche se presuntiva e basata sulla sola richiesta dell’imputato di traduzione, può al massimo essere valutata come erronea (cfr. Cass. pen., Sez. IV, 31/01/2003, n.10717, Boukcezzuola Zitouni, in CED Cassazione, 2003)
Il meccanismo previsto dall’art. 143 c.p.p. presuppone che l’imputato non conosca la lingua italiana o la conosca tanto imperfettamente da non poter comprendere il contenuto dell’accusa e degli atti processuali cui partecipi.
Se è vero che il giudice ha il potere-dovere di operare una valutazione sulla sussistenza dell’invocata necessità, è altrettanto vero che tale valutazione si connota di caratteri di discrezionalità che, ove, in ipotesi, supportata sulla base di motivazione incompleta e su elementi presuntivi, al più può determinare un provvedimento erroneo, ma non certo abnorme, secondo i canoni tipicizzanti detta figura, ossia del tutto avulsa dai canoni logico-giuridici della sistematica processual-penalistica.
Di ciò ne deriva come corollario l’inammissibilità del gravame ex art. 591 c.p.p., comma 1, lett. lett. b).
Rientrava certamente nei poteri del Giudice dichiarare la nullità del decreto di citazione a giudizio per cui, a prescindere dalla fondatezza o meno delle censure avanzate dal P.M. ricorrente, il provvedimento suddetto non appariva né contra legem né totalmente al di fuori del sistema processuale.
La categoria giuridica dell’abnormità, infatti, ha carattere residuale e non è configurabile quando il provvedimento:
-
è espressamente previsto dall’ordinamento;
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è emesso dall’organo dotato del relativo potere, sub specie Giudice del Tribunale.
La giurisprudenza ha avuto già modo di intervenire sulla materia, statuendo più volte che l’eventuale illegittimità di un provvedimento non giustifica, dì per se, la sua impugnabilità con ricorso per Cassazione sotto il profilo dell’abnormità, categoria che non può essere utilizzata per aggirare la disposizione contenuta nell’art. 568 c.p.p. (v., ex plurimis, Cass., Sez. Un., sent. n. 4 del 31-1-2001, P.M. c/ Romano e altri; e, in termini, Cass., Sez. 4^, sent. n. 43679 del 24.9.2003, P.M. c/ Gallo).
La circostanza che un provvedimento sia illegittimo non giustifica, di per sé, la sua impugnabilità per Cassazione in nome della categoria dell’abnormità, che non può essere utilizzata per eludere il principio di tassatività di cui all’art. 568 c.p.p., sicché deve ritenersi inammissibile il ricorso proposto avverso il provvedimento del giudice che dichiari un’invalidità, sia pure inesistente, del decreto di citazione a giudizio, atteso che tale decisione non può dirsi estranea al sistema processuale (cfr. Cass. pen., Sez. VI, 07/07/2003, n.34252. In applicazione di tale principio la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso del pubblico ministero che aveva denunciato come abnorme il provvedimento con il quale il giudice monocratico aveva dichiarato la nullità del decreto di citazione per violazione dell’art. 415-bis c.p.p. – che impone la notifica all’indagato dell’avviso di conclusione delle indagini – pur trattandosi della semplice rinnovazione di un precedente decreto di citazione emesso prima dell’entrata in vigore della disposizione predetta, introdotta con la legge 16 dicembre 1999, n. 476).
Ed ancora: “Non è abnorme, e quindi non è ricorribile per cassazione, il provvedimento con cui il giudice del dibattimento, rilevata la mancata notificazione all’imputato dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, dichiara la nullità del decreto di citazione a giudizio, disponendo la restituzione degli atti al P.M., dal momento che la dichiarazione di invalidità’, se pure insussistente, è esercizio dei poteri propri del giudice e dunque non colloca l’atto fuori dal sistema processuale”. (In motivazione, la Corte ha rilevato che l’eventuale illegittimità del provvedimento non vale a legittimarne l’impugnazione sotto il profilo dell’abnormità, pena l’elusione del principio di tassatività delle impugnazioni. Dichiara inammissibile, Trib. Velletri, 5 ottobre 2007).
Sotto il profilo funzionale, inoltre, è senz’altro da escludere una possibile abnormità del provvedimento, in quanto l’ordinanza non può generare alcuna stasi del procedimento, ben essendoci la possibilità di proseguire il giudizio una volta rinnovato l’atto nullo.
Occorre rilevare che la disposta restituzione, infatti, non è idonea a creare una stasi processuale, rimanendo comunque il pubblico ministero libero di esercitare l’azione penale.
In altri termini, in questi frangenti, non si determina una stasi ineliminabile e irrimediabile del processo con conseguente impossibilità di proseguirlo.
In tema di procedimento davanti al Tribunale in composizione monocratica, quando il decreto di citazione diretta a giudizio venga dichiarato nullo per omessa traduzione nella lingua dell’imputato straniero il procedimento regredisce necessariamente alla fase in cui si doveva far luogo all’atto mancante, e cioè al P.M., ai sensi dell’art. 416 c.p.p.
3. Per altro, in ordine alla non abnormità del provvedimento militano gli stessi articoli di legge: ai sensi dell’art. 6, lettere a) e b), l. 4 agosto 1955, n. 848, di Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952, “Ogni accusato ha diritto soprattutto ad essere informato, nel più breve tempo possibile, in una lingua a lui comprensibile e in modo dettagliato, della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico”, nonché “a farsi assistere gratuitamente da un interprete se non comprende o non parla la lingua usata nell’udienza”.
All’art 6 di detta Convenzione va aggiunto l’art. 2 della Costituzione, posto che l’espressione linguistica è manifestazione di un’identità culturale proprio dell’imputato che, nel caso di specie, era nativo della Polonia.
Analoga impostazione, peraltro, viene ribadita dall’art. 14, n.3 del Patto internazionale sui diritti civili e politici adottato dall’ONU il 16/12/1966 e ratificato dall’ Italia con la L.25/10/1977 n.881.
Ne costituisce riprova quanto sancito dall’art.5 del DL 30/12/1989 n.416, convertito nella Legge 28/2/1990 n.39, che impone l’obbligo di traduzione degli atti d’espulsione da comunicare e/o notificare allo interessato come pure l’art.1 del Protocollo n.7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, concernente l’estensione della lista dei diritti civili e politici, adottato a Strasburgo il 22/11/1984 e recepito dall’Ordinamento interno italiano con L.9/4/1990 n.98.
L’art. 143 comma 1 c.p.p. prevede, per l’imputato che non conosce la lingua italiana, il diritto di farsi assistere gratuitamente da un interprete al fine di poter comprendere l’accusa contro di lui formulata e di seguire il compimento degli atti cui partecipa, e va applicato ogni volta che l’imputato abbia bisogno della traduzione nella lingua da lui conosciuta in ordine a tutti gli atti a lui indirizzati, sia scritti che orali.
In tema di interpretazione, l’imputato che ignori la lingua italiana ha diritto, ai sensi dell’art. 143 c.p.p. (letto alla luce delle note sentenze Corte cost. n. 10 del 1993 e Corte cost., 24/02/1994, n.64), alla traduzione degli atti scritti rilevanti ai fini della difesa mediante la notifica di una copia tradotta.
4. Il diritto costituzionale alla difesa (art. 24 Cost.), principio fondamentale ai sensi dell’art. 2 Cost., sottopone il giudice al vincolo interpretativo di conferire alle norme, che contengono le garanzie del diritto di difesa in ordine all’esatta comprensione dell’accusa, un significato espansivo, diretto cioè a rendere concreto ed effettivo, nei limiti del possibile, il diritto dell’imputato.
L’ordinanza impugnata, pertanto, come esattamente enunciato dalla Corte, non era un atto abnorme ricorribile in Cassazione.
E l’eventuale obbligatorio esercizio dell’azione penale cede, solo temporaneamente, il passo di fronte alla primaria salvaguardia del diritto costituzionalmente tutelato all’autodifesa cosciente e compiutamente informata. Del resto, il principio della obbligatorietà dell’azione penale di cui all’art. 112 Cost., in queste situazioni, viene solo postergato, ma non eliminato.
Il sistema costituzionale precisa il fondamento, la finalità ed i limiti dell’intervento punitivo dello Stato, garantendo il delicato equilibrio tra poteri ordinatori esercitabili nei vari segmenti procedurali e obbligatorietà della pena nonché dell’azione penale.
In definitiva, appare corretto porre in capo al giudice del dibattimento un potere di controllo sull’esercizio dell’azione penale per emendare e correggere, in ipotesi, un errore o un’inazione da parte della pubblica accusa, affinché venga garantito non solo diritto alla difesa ma anche venga effettuato un controllo sul corretto esercizio dell’azione stessa, in virtù del buon andamento della pubblica amministrazione, nonché della sua concreta efficienza.
Il principio di obbligatorietà dell’azione penale previsto dall’art. 112 Cost. di per se, come è strutturato, prevede sempre una verifica postuma. Proprio per questo motivo non deve stupire un controllo del giudice che sospenda o interrompa bruscamente l’obbligatorio esercizio dell’azione penale.
Ed, inoltre, detto principio se, da un lato, concorre a garantire l’indipendenza del Pubblico Ministero nell’esercizio dell’azione penale, dall’altro assolve il delicato compito di assicurare l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale (cfr. Corte cost. 26 luglio 1979, n. 84, Foro it., 1979, I, 2546; in dottrina, VALENTINI REUTER, Le forme di controllo sull’esercizio dell’azione penale, Padova, 1994, 259 ss; LOZZI, Riflessioni sul nuovo processo penale, Torino, 1992, 155).
Questo per dire che l’obbligatorietà esige qualche cosa di più che la semplice formulazione di un capo d’imputazione.
Il sistema endo-processuale, allora, finisce con il “chiudersi a riccio” laddove non siano rispettati tutti i parametri funzionali e coessenziali all’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, spingendosi sino ad enucleare la sanzione dell’inammissibilità del ricorso in Cassazione avanzato proprio da chi, in astratto, ha il delicato compito di far tradurre gli atti in lingua conoscibile o conosciuta dall’imputato, quale condizione legale dell’azione.
Il carattere discrezionale della motivazione assunta dal giudice del dibattimento costituisce lo spartiacque tra atto autonomamente impugnabile perché abnorme o nullo ovvero atto meramente erroneo, pienamente rientrante nei canoni logico-giuridici della sistematica processual-penalistica, come nel caso di specie.
Allargando il discorso, i giudici della Consulta traggono dal principio di completezza delle indagini preliminari, connaturato a quello dell’obbligatorietà di cui all’art. 112 Cost., un triplice ordine di esigenze: «consentire al pubblico ministero di esercitare le varie opzioni possibili (…), indurre l’imputato ad esercitare i riti alternativi» e, infine, scongiurare «prassi di esercizio apparente dell’azione penale» (cfr. Corte cost. 15 febbraio 1991, n. 88, cit.).
In tutte queste situazioni il discorso s’incentra su un punto cruciale: assicurare un’idoneità funzionale degli atti all’adozione di un provvedimento giurisdizionale.
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