In un articolo pubblicato nel 2013 su una rivista online, un uomo era stato definito dal giornalista come imputato nonostante fosse solo indagato. Sussistendo contrasto ermeneutico sulla ricorrenza o meno della diffamazione a mezzo stampa, la I Sezione Civile della Corte di Cassazione (Ordinanza interlocutoria 06 maggio 2024, n. 12239) ha chiesto l’intervento del I° Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite.
Indice
1. Indagato definito imputato: per il Tribunale nessun rilievo diffamatorio
Nel 2016 il Tribunale di Roma respinse la domanda proposta da un uomo nei confronti di un giornalista redattore di un articolo pubblicato tre anni prima sull’edizione on line di un settimanale. Per l’uomo lo scritto riportava nel titolo “truffa del superfinanziere”, indicava nel corpo del testo lo stesso come imputato per truffa, mentre all’epoca egli era solo indagato per tentata truffa e non per truffa, e gli attribuiva l’effettivo incameramento di una somma consistente di danaro erogata da un terzo soggetto, vittima della condotta riferita. Aveva lamentato, quindi, che era stato gravemente leso il suo diritto all’onore, reputazione e immagine e aveva chiesto la condanna in solido dei convenuti al risarcimento dei danni non patrimoniali da liquidare anche in via equitativa; aveva chiesto, inoltre, che il giornalista fosse condannato a pagare un’ulteriore somma a titolo di riparazione pecuniaria ex art. 12 l. 47/1948 e che fosse disposta la pubblicazione per estratto della sentenza ex art. 120 del codice di rito civile. Il Giudice di prime cure ritenne non diffamatorio l’articolo, assumendo che gli errori in esso contenuti non avevano scalfito l’aderenza al vero della ricostruzione complessiva, ravvisando la sostanziale corrispondenza dello scritto alla realtà, atteso il significativo coinvolgimento dell’attore, oltre a un correo, nell’attività truffaldina ai danni di un uomo d’affari sudamericano.
2. C’è condotta diffamatoria per il giudice d’appello
La Corte di appello nel 2022 ha accolto il gravame e ravvisato la condotta diffamatoria, rilevando che «La falsità dell’addebito (essere imputato per aver effettivamente intascato a seguito di attività truffaldina cinque milioni di dollari) non può ritenersi sfumata e assorbita dall’essere effettivamente l’appellante indagato per un altro episodio meramente tentato; ciò alla luce del prestigioso incarico ricoperto dal (…) e dalla conseguente intuibile pregnanza in termini di attacco alla carriera e alla solidità della posizione ricoperta». Ha, quindi, proceduto alla quantificazione del danno non patrimoniale sulla base di elementi presuntivi, utilizzando le tabelle emanate dal Tribunale di Milano in materia, e ha determinato il risarcimento a carico degli appellati in solido (editore, direttore, redattore) in euro 25.000,00, somma attualizzata fino alla pronuncia giudiziaria, oltre interessi legali dalla pubblicazione fino al saldo. Ha aggiunto a detta somma, l’importo di euro 5.000,00 a carico solo del giornalista ai sensi dell’art. 12 legge 47 del 1948, oltre interessi legali dalla sentenza al saldo. Inoltre, ha accolto la domanda di pubblicazione della sentenza ex art. 120 cod.proc.civ., regolando le spese di lite secondo il principio della soccombenza. L’editore, il direttore e il giornalista hanno proposto ricorso e chiesto la cassazione della sentenza impugnata.
3. Alle Sezioni Unite la ricorrenza della diffamazione o della scriminante dell’esercizio del diritto di cronaca
La Sezione I civile, sulla tematica della responsabilità da diffamazione a mezzo stampa, ha disposto, ai sensi dell’art. 374, comma 2, c.p.c., la trasmissione del ricorso al I° Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite della questione di massima di particolare importanza, sulla quale ha dato atto della sussistenza di un contrasto nella giurisprudenza civile e penale, concernente il rilievo da assegnare, ai fini della ricorrenza della diffamazione o della scriminante dell’esercizio del diritto di cronaca, alla circostanza che al soggetto che si assume leso dall’articolo di stampa sia stata attribuita, direttamente o indirettamente (anche mediante il richiamo ad atti giudiziari tipizzati o a norme codicistiche) la qualità di imputato, piuttosto che quella di indagato, e la commissione di un reato consumato piuttosto che di un reato tentato.
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