Indagine giuridica ed esame delle prospettive giurisprudenziali relativamente ai reati di omicidio preterintenzionale, omicidio con dolo eventuale e morte o lesioni come conseguenza di un altro delitto, con specifico riferimento al caso di cessione di sos

Geraci Rosa 16/10/08
Le figure criminose verso le quali si dirige l’analisi che intende costituire l’oggetto del presente studio sono: l’omicidio preterintenzionale, l’omicidio con dolo eventuale ed il reato di morte o lesioni come conseguenza di un altro delitto.
Con la pronuncia del 22 settembre 2006 la Suprema Corte torna – ancora una volta – ad interrogarsi sulla natura giuridica dell’elemento soggettivo nel delitto preterintenzionale, la cui esegesi e collocazione sistematica rappresentano una delle questioni più dibattute e controverse del diritto penale, nonché campo privilegiato di indagine con riferimento, più in generale, ai principi fondanti il diritto penale moderno, primo fra tutti il principio costituzionale della responsabilità penale personale sancito dall’art. 27 Cost.
Ora, è necessario premettere una breve disamina circa i profili costitutivi del modello delittuoso dell’illecito preterintenzionale.
La definizione di preterintenzione è contenuta nell’art. 43, primo comma, secondo inciso, c.p., laddove il legislatore ha previsto che il delitto è preterintenzionale, o oltre l’intenzione, quando dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente.
Tale formulazione legislativa ha suscitato non pochi dubbi interpretativi e ha reso difficile fornire una definizione dogmatica della preterintenzione, tanto più che, da un lato, il legislatore ne delinea i caratteri trattando dell’«elemento psicologico del reato», dall’altro, la relazione ministeriale al codice vigente si limita ad evidenziare che trattasi di «una forma di reato autonomo».
Concorre a tracciare i contorni dell’istituto l’art. 42 c.p., che identifica il delitto preterintenzionale, come sopra definito, quale autonomo coefficiente soggettivo, strutturalmente distinto dal dolo e dalla colpa (secondo comma: «nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se non l’ha commesso con dolo, salvi i casi di delitto preterintenzionale o colposo espressamente preveduti dalla legge»), ma altresì dalle ipotesi di responsabilità oggettiva (terzo comma: «la legge determina i casi nei quali l’evento è posto altrimenti a carico dell’agente come conseguenza della sua azione od omissione»).
La norma da ultimo citata pare delineare un criterio tripartito di imputazione, secondo tre distinte forme di colpevolezza, in ordine decrescente (dolo, preterintenzione e colpa), e stabilisce che l’elemento soggettivo della preterintenzione è configurabile con esclusivo riferimento alla categoria dei delitti e che la punibilità a titolo di preterintenzione – così come a titolo di colpa – è limitata ai soli reati tipizzati dalla legge come punibili in presenza di tale coefficiente soggettivo.
Tuttavia, contrariamente al dato letterale, la dottrina maggioritaria ritiene che i coefficienti soggettivi fondamentali siano unicamente due, il dolo e la colpa; la preterintenzione, infatti, non potrebbe godere di autonomia e ritenersi terzo ed autonomo criterio di imputazione soggettiva, in quanto non sarebbe ontologicamente configurabile una forma di colpevolezza intermedia tra il dolo (la volontà) e la colpa (la non-volontà), ovvero, sul piano psicologico-soggettivo, tra dolo e colpa tertium non datur. Ne discende che, con riferimento all’omicidio preterintenzionale, ci si dovrebbe limitare a ritenere che l’elemento psicologico consiste nell’animo di nuocere e nell’assoluta mancanza dell’animo di uccidere.
Alla luce delle citate disposizioni, emerge come il sistema positivo delinei l’illecito preterintenzionale quale forma a sé stante di responsabilità e fattispecie complessa, caratterizzata da due requisiti strutturali: sotto il profilo oggettivo, l’omogeneità di lesione e, più precisamente, la progressione lineare fra l’evento meno grave voluto e l’evento più grave non voluto (Sez. I, 20 gennaio 1986, Barletta, in Cass. pen., 1987, 2130); sotto il profilo soggettivo, l’unitarietà e l’autonomia del delitto, con l’evento più grave non voluto come elemento costitutivo del reato e non come mera circostanza aggravante, che ne fanno un reato semplice (non circostanziato) e nuovo rispetto a quello voluto dall’agente.
La preterintenzione è, pertanto, volizione di un fatto di reato meno grave, cui fa seguito, sul piano causale rispetto alla condotta criminosa, la realizzazione di un evento più grave, necessariamente non voluto dall’agente (neppure a titolo di dolo eventuale o indiretto (Cass., 5 luglio 1988, Pagano; Cass., 15 marzo 1982, Catapano), e con essa, in base al codice vigente, «si ha l’imputazione legislativa di un evento più grave non voluto sulla base della rappresentazione-e-volizione di un evento meno grave» (Cass., 20 maggio 2001, Milici)
Tuttavia, mentre si ritiene pacificamente che nel delitto preterintenzionale il meno grave reato di percosse o lesioni sia attribuibile al soggetto agente a titolo di dolo e che l’evento morte debba trovarsi in rapporto di assoluta estraneità all’oggetto del dolo, è ancora oggi ampiamente controversa la natura del titolo di responsabilità in base al quale l’evento aggravante deve essere attribuito all’agente, alternativamente individuato da dottrina e giurisprudenza nella responsabilità oggettiva e nella colpa.
Il dibattito sul punto di diritto del titolo di imputazione dell’evento ulteriore nella fattispecie di cui all’art. 584 c.p. si risolve, in realtà, nella più vasta problematica del contenuto soggettivo del delitto verificatosi “oltre l’intenzione”.
Allo stato attuale, in merito al criterio dell’attribuibilità dell’evento preterintenzionale, sono state fornite due soluzioni dicotomiche accomunate dal ritenere la preterintenzione una fattispecie soggettiva di natura complessa, risultante dalla combinazione di due diversi titoli di imputazione (dolo misto a colpa e dolo misto a responsabilità oggettiva), ed una terza ricostruzione (cd. terza via), di recente elaborazione giurisprudenziale, che muove invece dall’asserita unicità dell’elemento soggettivo nel delitto preterintenzionale (preterintenzione come dolo del solo fatto minore) (Cass., n. 13673/2006).
Secondo l’indirizzo dottrinale e l’orientamento giurisprudenziale dominanti, la perifrasi «oltre l’intenzione» utilizzata dal legislatore nell’art. 43 c.p. si limiterebbe a richiedere che, nel delitto preterintenzionale, sul piano soggettivo, difetti in modo assoluto in capo all’agente la volontà della conseguenza ulteriore, da ascriversi al reo in ragione del mero nesso di causalità materiale e pur essendo insussistente un rapporto di causalità psichica diretta tra la condotta e l’evento maggiore.
In tale prospettiva, la preterintenzione, ricostruita come forma di responsabilità complessa in cui si combinano dolo e responsabilità oggettiva, si differenzierebbe dalle ipotesi di responsabilità oggettiva considerate nel comma 3 dell’art. 42 c.p. in ragione del necessario accertamento, di tipo soggettivo, circa la non volizione dell’evento preterintenzionale, accertamento altrimenti del tutto irrilevante.
La ratio dell’imputazione dell’evento preterintenzionale a titolo di responsabilità oggettiva risiede invero nella necessità di approntare una speciale forma di tutela rafforzata del bene giuridico della vita, sanzionando il rischio determinato dalle condotte di percosse o lesioni (anche solo tentate), ed è tradizionalmente espressione di un’esigenza di repressione particolarmente severa, in quanto postula la possibilità di attribuire a colui che volontariamente pone in essere un’azione illecita, in ragione dell’iniziale volontà criminosa, anche tutte le conseguenze ulteriori che discendono da tale azione, pur se dovute al caso, e pertanto del tutto imprevedibili. Trattasi, in sostanza, di un caso di applicazione dell’antico canone del «qui in re illicita versari tenetur etiam pro casu» (Cass. , 22 marzo 2005, n. 17394; Cass., 2 marzo 2004, Zacchia; Cass., 21 gennaio 2004; Cass., 6 febbraio 2004, Morrone; Cass., 13 febbraio 2002, Izzo; Cass., 13 maggio 2004, n. 43524;Cass., 6 febbraio 2004, n. 15004; Cass., 20 maggio 2001, Milici; Cass., 3 dicembre 1996, Paletti; Cass., 3 novembre 1994, Turisini; Cass., 3 marzo 1994, Mannarino; Cass., 20 novembre 1988, Zeni; Cass., 5 maggio 1987, Virgadaula; Cass., 3 ottobre 1986, Smorgon; Cass., 18 dicembre 1987, Beretta; Cass., 30 giugno 1986, De Nunzio; Cass., 20 gennaio 1986, Barletta; Cass., 17 maggio 1982, Corti; Cass., 10 giugno 1981, Coppola; Cass., 1° aprile 1980, Casani; Cass., 5 giugno 1978, Negretti; Cass., 13 dicembre 1974, Mendicino).
Da tale assunto discende che il criterio della prevedibilità dell’evento morte sarebbe estraneo alla nozione di delitto preterintenzionale, non rappresentando un elemento tipicizzante della struttura soggettiva di tale tipologia di illecito, attesa la carenza, nel dettato normativo dell’art. 584 c.p., di un richiamo a criteri soggettivi di collegamento dell’evento morte alla condotta posta in essere dall’autore del reato base (Cass., 06/19611, Grillo; Cass., 19 ottobre 1998, n. 11055, D’Agata).
Conseguentemente, ricorrendo la fattispecie dell’omicidio preterintenzionale, il giudice non sarebbe tenuto a procedere ad una valutazione della prevedibilità dell’evento aggravante, in quanto la presenza dell’iniziale volontà criminosa di tenere la condotta di aggressione legittimerebbe l’imputazione di tale evento quale fatto «proprio» del reo del delitto di percosse o lesioni (Cass.,15 novembre 1989, Paradisi).
Negli ultimi anni, è tornato alla ribalta il noto problema circa la decodificazione dell’omicidio preterintenzionale, ex art. 584 c.p..
Si tratta di un problema interpretativo particolarmente complesso e di difficile soluzione che ha visto dottrina e giurisprudenza scontrarsi in più occasioni, senza, comunque, arrivare ad una conclusione esente da critiche ed unanimemente condivisa.
Il quadro di vedute non unanimi, induce, per la verità, a cercare nuove frontiere interpretative.
Il fatto che l’omicidio preterintenzionale sia pur sempre un delitto imporrebbe, a rigore, di verificare la sussistenza dell’elemento psicologico del dolo, laddove non vi sia un riferimento espresso alla colpa ovvero non vi sia un’affermazione che, expressis verbis, escluda il dolo (come, per esempio, nell’art. 586 c.p., dove si parla letteralmente di “conseguenza non voluta”).
Tale dolo, tuttavia, non dovrebbe riguardare il solo fatto minore, ma anche quello maggiore, per non imputare l’evento più grave (morte) a titolo di responsabilità oggettiva.
Schematicamente: poiché i casi di colpa devono essere espressamente previsti e poiché, di massima, nel nostro ordinamento penale devono essere bandite forme di responsabilità oggettiva, in un’ottica costituzionalmente orientata, ex art. 27 Cost., allora, ben potrebbe essere imputato il fatto più grave, ex art. 584 c.p., in termini di dolo eventuale ovvero, più genericamente, accettazione del rischio (di evento eventuale).
Applicando tale impostazione teorica, pertanto, l’agente dovrebbe agire per commettere il reato di percosse o lesioni, accettando il rischio di cagionare la morte della vittima: si tratterebbe di una visione del tutto nuova nel panorama giuridico, ma coerente con la Costituzione e con il principio generale del favor rei, trattandosi di una tesi particolarmente garantista.
La tesi della preterintenzione come dolo eventuale del fatto più grave sembra essere coerente con la natura di delitto dell’art. 584 c.p. e non di contravvenzione; i delitti sono puniti a titolo di dolo, salvo che sia diversamente previsto, per cui anche l’omicidio preterintenzionale dovrebbe presentare i requisiti del dolo in tutti gli elementi essenziali della fattispecie, anche con riferimento alle conseguenze del proprio agere (si accetta il rischio della morte come conseguenza delle lesioni o percosse).
D’altronde, l’idea che il dolo, nella preterintenzione, possa riguardare il solo fatto minore, invero, sembra avvicinarsi molto alla tesi del dolo misto a responsabilità oggettiva, in contrasto con l’art. 27 Cost. (più volte richiamato).
Se si tratta di delitto (la preterintenzione è collocata sistematicamente tra i delitti alla persona), allora, ne deriva, de plano, che se nulla viene detto expressis verbis in senso contrario, il dolo dovrà riguardare tutti gli elementi della fattispecie penale incriminatrice, tra cui anche la “conseguenza morte”.
Altro argomento a favore della preterintenzione come dolo eventuale del fatto più grave sembra emergere dalla stessa lettera della legge, laddove viene usato l’inciso “cagiona la morte di un uomo”, ex art. 584 c.p.
Orbene, tale inciso è lo stesso utilizzato nell’ambito dell’omicidio doloso, ex art. 575 c.p.; nel caso di omicidio doloso l’inciso “cagiona la morte di un uomo” è stato sempre interpretato, giustamente, come dolo, anche perché si tratta di un delitto, con la conseguenza che il medesimo inciso dovrebbe essere interpretato nello stesso modo con riferimento al delitto preterintenzionale.
Più chiaramente, se l’inciso “cagiona la morte di un uomo”, ex art. 575 c.p. viene interpretato come dolo, allora, mutatis mutandis, dovrebbe parlarsi di dolo anche nel caso di preterintenzione, proprio perché la lettera della legge è le medesima.
Diversamente argomentando, da questa angolazione prospettica, si opterebbe per una ricostruzione in contrasto con la lettera della legge o, comunque, contraddittoria.
Altresì, tale tesi temeraria è indubbiamente costituzionalmente orientata, con specifico riferimento all’art. 27 Costituzione.
Ritenere, difatti, che la preterintenzione sia dolo del fatto minore con accettazione del rischio dell’evento più grave (in una logica complessiva di progressione criminosa) vorrebbe dire esaltare il ruolo della responsabilità penale personale, in uno con la logica rieducativi, perché verrà rieducato solo il soggetto che abbia causato, anche in senso psicologico, l’evento morte, e non anche ad un soggetto a cui tale evento non sia addebitabile, con il rischio (concreto) di frustrarlo immotivatamente.
Ulteriore argomento a sostegno della tesi qui esposta sembra emergere, a contrario, dalla lettera dell’art. 586 c.p..
Infatti, tale ultimo articolo prevede, l’addebito di responsabilità penale per morte o lesioni “quale conseguenza non voluta”; dunque, il legislatore quando vuole escludere la sussistenza del dolo, in subiecta materia (ovvero richiedere la colpa), lo fa espressamente, con il corollario logico-deduttivo che, laddove tale precisazione non vi sia, il silenzio (sul punto) andrà interpretato come necessaria sussistenza dell’elemento psicologico del dolo.
Più chiaramente, se il dolo nell’art. 586 c.p. viene espressamente escluso, allora, vuol dire che laddove tale esclusione non sussiste vale il principio generale della necessaria sussistenza del dolo, tanto più che si tratta di delitti e non contravvenzioni, con la conseguenza logica che anche nel caso di preterintenzione, ex art. 584 c.p., il silenzio del legislatore sul punto andrebbe interpretato come necessaria sussistenza del dolo.
Qualche ombra interpretativa, relativamente alla tesi della preterintenzione come dolo eventuale del fatto più grave, potrebbe porsi relativamente all’omicidio realizzato con dolo eventuale, ex artt. 575-133 c.p.
In particolare, se l’omicidio preterintenzionale, ex art. 584 c.p., fosse costituito, sub specie psichica, dal dolo eventuale sul fatto più grave, allora, sembrerebbe assomigliare all’omicidio posto in essere con dolo eventuale, perché in entrambi i casi si agirebbe accettando il rischio di cagionare la morte.
Di contro, tuttavia, nel caso di omicidio preterintenzionale vi sarebbe una sorta di evento intermedio, ovvero le percosse o lesioni ex artt. 581-582 c.p., diversamente dall’omicidio realizzato con dolo eventuale che sembrerebbe non richiedere la necessaria sussistenza di tale evento intermedio.
Altresì, la fattispecie dell’omicidio cagionato con dolo eventuale potrebbe riguardare ipotesi relative ad altri reati come minacce o tentate estorsioni, ecc.
Sotto tali ultimi rilievi, quindi, ben può ritenersi che la tesi del delitto preterintenzionale come dolo eventuale del fatto più grave non rischia di coincidere con l’omicidio realizzato con dolo eventuale, perché, appunto, nel primo caso è sempre richiesto un evento intermedio, diversamente dal secondo caso. Altresì, comunque, l’evento intermedio deve consistere specificatamente in lesioni o percosse, mentre altri eventi intermedi ben potrebbero condurre ad ipotesi di omicidio posto in essere con dolo eventuale.
Infine, nell’omicidio con dolo eventuale, l’eventualità incide sull’evento, mentre nella preterintenzione, l’eventualità incide sulle conseguenze.
Ritenuta “norma di chiusura” del sistema penale di tutela dei beni della vita e dell’incolumità fisica, l’art. 586 c.p. disciplina un’ipotesi specifica di aberratio delicti laddove da un fatto preveduto dalla legge come delitto doloso derivino, quale conseguenza non voluta dal reo, la morte o le lesioni personali di una persona. Trattasi dunque di quei casi in cui l’agente, nel porre in essere una condotta delittuosa, involontariamente leda anche beni diversi da quelli che intendeva aggredire.
In virtù dell’espresso rinvio alla disciplina dell’art. 83 c.p., l’agente risponderà sia dell’evento voluto che di quello non voluto secondo le norme sul concorso dei reati ma le pene previste dagli artt. 589 e 590 c.p. saranno aumentate.
Proprio la previsione di tale aggravamento di pena rispetto al regime ordinario individuato dall’art. 83 c.p. riflette l’intenzione del legislatore del 1930 di fornire una particolare tutela ai beni della vita e dell’incolumità individuale rispetto ad altri beni od interessi che vengano lesi per errore nell’esecuzione del reato o per altra causa.
Sennonché la norma in questione ha sollevato delicati problemi interpretativi che ancora non trovano univoca risposta nella prassi giurisprudenziale e che attengono prevalentemente al titolo di imputazione dell’evento non voluto, conteso tra responsabilità per colpa e responsabilità oggettiva, con inevitabili riflessi sui profili di adeguatezza costituzionale di una previsione che debba prescindere da un qualsiasi coefficiente di imputazione soggettiva. Certo è che la questione attinente il titolo della responsabilità previsto dall’art. 586 c.p. ha confini più ampi e trova sponda nello stesso art. 42 c.p. laddove, dopo la previsione della responsabilità per dolo o per colpa o per delitto preterintenzionale, si demanda alla legge l’individuazione dei casi nei quali l’evento debba essere posto altrimenti a carico dell’agente come conseguenza della sua azione od omissione.
La previsione codicistica di una responsabilità oggettiva cui parrebbe ricondursi anche quella prevista dall’art. 586 c.p. inevitabilmente suscita fondati sospetti di incostituzionalità per contrasto con l’art. 27 Cost.(C. Cost., sentenze n. 364 del 23-24 marzo 1988 e n. 1085 del 30 novembre-13 dicembre 1988).
Invero, stupisce che a fronte di orientamenti giurisprudenziali assai variegati non debba registrarsi alcun intervento risolutore né delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, né della Corte Costituzionale (essendo state dichiarate manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale, per quanto consta, sia da Cass., Sez. I, 14 novembre 1967, n. 1063 – ud. 26 giugno 1967, RV. 105964, Varallo, che, più di recente, da Cass., Sez. I, 28 marzo 1997, n. 2955, ud. 29 gennaio 1997, RV 207274, Sambataro) e ciò tanto più vista l’incidenza che la questione relativa alla natura giuridica dell’art. 586 c.p. ha nei confronti dei principi costituzionali della personalità della responsabilità penale e della finalità rieducativa della pena.
Stretta è altresì la contiguità con l’omicidio preterintenzionale disciplinato dall’art. 584 c.p. stante l’analoga previsione della (sola) morte (e non delle lesioni) quale evento non voluto dall’agente e da cui se ne discosta per le caratteristiche della condotta base che nell’omicidio preterintenzionale deve essere diretta alla commissione del delitto di percosse o di lesioni.
Tale è il motivo per cui nel delineare le reciproche differenze si ritiene che l’art. 586 c.p. presupponga che la condotta base debba ledere interessi non appartenenti alla categoria di quelli tutelati mediante l’incriminazione dell’evento ulteriore (e, dunque, diversi dall’incolumità individuale) mentre, al contrario, il delitto di cui all’art. 584 c.p. sia caratterizzato proprio da una progressione criminosa nell’offesa alla medesima categoria di interessi. Tale distinzione, generalmente accolta, non appare però adeguata a fornire risposta ad un interrogativo di non poco conto ovvero se il delitto base previsto dall’art. 586 c.p. possa consistere nelle percosse dalle quali derivino, come conseguenza non voluta, lesioni personali (v. infra).
Terreno fertile a tale approfondimento si è dimostrato il caso di cessione di sostanze stupefacenti da cui derivi, quale conseguenza non voluta dal cedente, la morte dell’acquirente/consumatore.
Nel ravvisarvi la responsabilità dello spacciatore si è ritenuto, in alcune decisioni, che dell’evento morte si debba rispondere per colpa consistita nella violazione della legge sugli stupefacenti e per la stessa prevedibilità dell’evento; altre pronunce si sono invece limitate a ritenere sufficiente l’accertamento del nesso di causalità materiale tra la fornitura illecita e l’evento morte senza che l’assunzione volontaria della droga da parte del cessionario possa configurarsi quale causa sopravvenuta sufficiente ad interrompere il nesso di causalità tra cessione e morte in quanto questo è sul piano della “normalità causale” l’effetto proprio dell’acquisto o della ricezione della dose da parte del tossicodipendente. Altre decisioni ancora si sono spinte al punto di ritenere che ogni condotta di cessione di droga sia una condotta lesiva caratterizzata da dolo indiretto eventuale sì da applicarsi l’art. 586 c.p. ove si producano conseguenze lesive. A ben vedere, nonostante il diverso percorso seguito, gli indirizzi qui sommariamente richiamati approdano alle medesime conclusioni: lo spacciatore dovrà rispondere oltre che della cessione anche della morte dell’assuntore. E ciò anche nel caso in cui la sostanza stupefacente sia stata oggetto di ripetute cessioni sino a giungere al consumatore finale: pertanto, della morte di costui dovrà rispondere (anche) l’originario fornitore, in quanto le successive cessioni devono ritenersi fattori concausali sopravvenuti non solo non anormali ed eccezionali ma, anzi, del tutto prevedibili (contra, Trib. Roma, sent. 12 febbraio 1985, imp. Trombetti, in Foro it., 1985, 213) dunque inidonei ad interrompere il nesso causale secondo la previsione dell’art. 41, comma 2, c.p. Non mancano decisioni più articolate quali quelle che hanno ravvisato un’ipotesi di omicidio preterintenzionale nella condotta di colui che si sia prestato ad iniettare per via endovenosa la sostanza stupefacente (Cass., Sez. V, 21 ottobre 1985, n. 9410, ud. 26 giugno 1985, RV. 170789, Origlia): a nulla varrebbe il consenso dell’assuntore all’iniezione in quanto tale scriminante troverebbe un limite nell’art. 5 c.c. che vieta gli atti di disposizione del proprio corpo quando siano contrari alla legge dovendosi nel caso di specie rilevare come l’iniezione endovenosa sia riservata dalla legge ai soli medici.
Parimenti si è ritenuto che nella condotta dell’assuntore di sostanze stupefacenti non si possano configurare gli estremi per l’applicazione dell’attenuante di cui all’art. 62, n. 5, c.p. (l’essere concorso a determinare l’evento, insieme con l’azione o l’omissione del colpevole, il fatto doloso della persona offesa) sul rilievo che richieda nella vittima quella volontà di cagionare l’evento (in tal caso, la morte) che “nella normalità dei casi” manca nel tossicodipendente (Cass., Sez. VI, 15 dicembre 1988, n. 12482, ud. 4 novembre 1988, RV. 179931, Soloperto).
Sempre nel solco della responsabilità del cedente la sostanza stupefacente, per la morte dell’assuntore se ne è affermata la sussistenza anche nel caso di acquisto di sostanze stupefacente nell’interesse di altri soggetti, con successiva distribuzione ai componenti del gruppo acquirente (c.d. consumo di gruppo sottratto all’area di illiceità penale, secondo l’indirizzo di Cass., Sez. Unite, 18 luglio 1997, n. 4). Ciò in quanto la responsabilità andrebbe affermata non solo in relazione ai fatti consistenti nella illecita cessione di sostanze stupefacente (laddove rileva la semplice causalità materiale), ma anche in rapporto ai fatti di semplice agevolazione come si desume indirettamente dal richiamo testuale dell’art. 81 D.P.R. n. 309 del 1990 agli artt. 586 e 589 c.p., laddove resti accertato che l’evento di danno sia la conseguenza di un comportamento improntato a colpa generica o specifica (Cass., Sez. VI, 4 febbraio 1998, n. 1318, ud. 19 novembre 1997, RV. 210441, Paralupi ed altri).
Parimenti si è ritenuta l’incompatibilità con l’attenuante della provocazione in quanto il reato di cui all’art. 586 prescinde da una determinazione della volontà come tale influenzabile dall’ira (così Cass., Sez. V, 30 ottobre 1984, n. 9457, ud. 24 settembre 1984, RV. 166424, Milano).
Rosa Geraci
 

Geraci Rosa

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento