Indebita percezione di erogazioni pubbliche: le Sezioni Unite

Le Sezioni unite intervengono in materia di indebita percezione di erogazioni pubbliche: vediamo come. (Commento a sentenza)

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Le Sezioni unite intervengono in materia di indebita percezione di erogazioni pubbliche: vediamo come. Per approfondimenti consigliamo il volume: Dibattimento nel processo penale dopo la riforma Cartabia -Con commento e tabelle riepilogative

Corte di Cassazione -SS.UU. pen.- sentenza n. 11969 del 28-11-2024

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Indice

1. Il fatto


La Corte di Appello di Lecce, in parziale riforma di una decisione emessa dal Tribunale della medesima città, escludeva, con riferimento al reato presupposto di truffa aggravata di cui agli artt. 110,640-bis cod. pen. (capo A), la responsabilità di una società a responsabilità limitata per l’illecito amministrativo previsto dagli artt. 5, comma 1, lett. a), 6, 24, comma 2, D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231 perché il fatto non sussiste riqualificando, ai sensi dell’art. 316-ter cod. pen., il reato presupposto dell’analogo illecito amministrativo oggetto di un altro capo di imputazione, anch’esso originariamente contestato come delitto di truffa aggravata preveduto in un’ulteriore imputazione.
Oltre a ciò, la Corte territoriale salentina applicava altresì alla predetta società la sanzione amministrativa pecuniaria di Euro 150.000 e la sanzione interdittiva del divieto di contrattare con la pubblica amministrazione per la durata di sei mesi, con l’esclusione, per la stessa durata, dell’accesso ad agevolazioni, finanziamenti contributi e sussidi, riducendo ad Euro 3.297.641,00 l’ammontare della somma oggetto della confisca, disposta anche per equivalente, in relazione al profitto dell’illecito di cui ad uno dei capi di accusa contestati nel caso di specie.
Ciò posto, avverso la sentenza emessa dai giudici di seconde cure proponeva ricorso per Cassazione il difensore di questa società, deducendo i seguenti motivi: 1) e 2) violazioni di legge e vizi della motivazione con riferimento alla configurabilità dell’illecito di cui al combinato disposto degli artt. 316-ter cit. e 24, comma 2, D.lgs. cit.; 3) e 4) violazioni di legge e vizi della motivazione con riferimento alla omessa declaratoria di prescrizione dell’illecito amministrativo di cui ad uno dei capi di imputazione. Per approfondimenti consigliamo il volume: Dibattimento nel processo penale dopo la riforma Cartabia -Con commento e tabelle riepilogative

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Dibattimento nel processo penale dopo la riforma Cartabia

Nel presente volume viene esaminata una delle fasi salienti del processo penale, il dibattimento, alla luce delle rilevanti novità introdotte dalla Riforma Cartabia con l’intento di razionalizzare i tempi del processo di primo grado e di restituire ad esso standards più elevati di efficienza, come la calendarizzazione delle udienze, la ridefinizione della richiesta di prova e la nuova disciplina della rinnovazione della istruzione dibattimentale.L’opera, che contempla anche richiami alla nuovissima disciplina relativa al Portale deposito atti penali (PDP), è stata concepita come uno strumento di rapida e agile consultazione a supporto dell’attività dell’avvocato.Oltre a quelle previste dal codice di rito penale, la trattazione passa in rassegna tutte le ipotesi in cui si svolge il dibattimento, come il procedimento innanzi al giudice di pace, il processo penale minorile e  quello previsto in materia di responsabilità degli enti.Il testo è corredato da tabelle riepilogative e richiami giurisprudenziali e da un’area online in cui verranno pubblicati contenuti aggiuntivi legati a eventuali novità dei mesi successivi alla pubblicazione.Antonio Di Tullio D’ElisiisAvvocato iscritto presso il Foro di Larino (CB) e giornalista pubblicista. Referente di Diritto e procedura penale della rivista telematica Diritto.it. Membro del comitato scientifico della Camera penale di Larino. Collaboratore stabile dell’Osservatorio antimafia del Molise “Antonino Caponnetto”. Membro del Comitato Scientifico di Ratio Legis, Rivista giuridica telematica.

 

Antonio Di Tullio D’Elisiis | Maggioli Editore 2023

2. Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione: se il reato di cui all’art. 316-ter cod. pen. si applica nel caso di indebito ottenimento di riduzioni contributive per lavoratori in mobilità, dovuto alla mancata comunicazione di condizioni ostative e se, in caso di percezioni periodiche di contributi, questo reato deve essere considerato unitario


La Sezione assegnataria del suddetto ricorso, vale a dire la Sezione sesta, rimetteva tale atto di impugnazione alle Sezioni unite ponendo: a) in primo luogo, una questione relativa alla corretta qualificazione giuridica del fatto oggetto del reato presupposto nell’ipotesi in cui la condotta abbia prodotto un mero risparmio di spesa per effetto del versamento parziale dei contributi previdenziali dovuti per i lavoratori assunti dalla società ricorrente; b) in secondo luogo, nel caso in cui fosse stato reputato configurabile il reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche di cui all’art. 316-ter cit., si poneva in rilievo un’ulteriore questione, anch’essa oggetto di rimessione alle Sezioni unite, concernente l’individuazione della natura, unitaria o meno, del reato nell’ipotesi di reiterate percezioni periodiche di contributi erogati dallo Stato.
In particolare, venendo alla prima questione, siffatta Sezione semplice, pur ritenendo corretta l’esclusione della configurabilità del reato di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche di cui all’art. 640-bis cod. pen., dubitava però che, nel caso in esame, potesse ritenersi integrata la fattispecie di cui all’art. 316-ter cit..
Invero, nel richiamare il quadro dei principi affermati dalle Sezioni unite per delimitarne il perimetro rispetto al delitto di truffa aggravata e precisare, al contempo, la nozione di erogazione (Sez. U, n. 7537 del 16/12/2010; Sez. U, n. 16568 del 19/04/2007), l’ordinanza di rimessione rilevava che, all’interno di tale nozione, vengono ricomprese tutte le attività di contribuzione ascrivibili agli enti pubblici, siano esse realizzate attraverso l’elargizione di una somma di denaro, ovvero per effetto della concessione dell’esenzione dal pagamento di una somma ad essi dovuta, sul presupposto che anche in questo secondo caso il richiedente viene ad ottenere un beneficio economico posto a carico della comunità.
Ciò premesso, la richiamata ordinanza osservava dunque che l’utilizzo, all’interno dei primi due commi della disposizione di cui all’art. 316-ter cit., delle espressioni “contributi, sovvenzioni, finanziamenti, mutui agevolati, o erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati dallo Stato, da altri enti pubblici o dalle Comunità europee”, unitamente all’impiego dell’altra formula lessicale che fa riferimento ad una “somma indebitamente percepita”, sembrano richiedere l’effettiva riscossione, da parte del soggetto agente, di somme di denaro erogate dagli enti pubblici a seguito della realizzazione delle condotte decettive od omissive descritte dalla norma, deducendo al contempo che, per converso, a suo avviso, paiono sfuggire all’ambito applicativo della fattispecie i casi in cui non si verifica alcuna percezione di denaro pubblico, ma si ottiene il mero conseguimento di un risparmio di spesa, per avere versato all’ente pubblico una somma inferiore a quella dovuta.
Ebbene, di tale principio, che la Sezione rimettente non condivideva, si proponeva pertanto il superamento ai sensi dell’art. 618, comma 1-bis, cod. proc. pen. che, come è noto, dispone quanto segue: “Se una sezione della corte ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, rimette a queste ultime, con ordinanza, la decisione del ricorso”.
Al riguardo, nel dettaglio, era richiamato il canone interpretativo basato sul divieto di applicare la legge oltre i casi da essa espressamente stabiliti, ponendo in rilievo che la sussunzione delle ipotesi testé indicate nella struttura del reato di “indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato”, così come modificata nella rubrica a seguito della legge 28 marzo 2022, n. 25, avrebbe comportato una non consentita espansione dell’ambito applicativo della fattispecie, in contrasto con il principio di tassatività e il divieto di analogia in malam partem che la Corte costituzionale ha da ultimo ribadito con la sentenza n. 98 del 2021.
Nell’ipotesi in cui venisse esclusa la configurabilità dell’indebita percezione di erogazioni pubbliche potrebbero venire in rilievo altri reati, che sembrano avere natura speciale rispetto alla fattispecie prevista dall’art. 316-ter cit., a titolo esemplificativo, l’ordinanza di rimessione faceva a tal riguardo riferimento, in via alternativa, al reato di indebita compensazione di cui all’art. 10-quater, D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, nonché alla previsione dell’art. 2, comma 1-bis, D.L. 12 settembre 1983, n. 463, convertito con modificazioni dalla legge 11 novembre 1983, n. 638, che sanziona l’omesso versamento dei contributi previdenziali, ovvero al reato di frode previdenziale previsto dall’art. 37, comma 1, legge 24 novembre 1981, n. 689.
Illustrata la prima questione, passando ad illustrare il secondo profilo, l’ordinanza di rimessione rilevava la presenza di un contrasto interpretativo in relazione alla natura del reato presupposto di cui all’art. 316-ter cit..
In particolare, secondo un primo indirizzo giurisprudenziale, tale reato integra un delitto “a consumazione prolungata” sicché la prescrizione inizierebbe a decorrere dalla data dell’ultimo illecito “risparmio di spesa” (dunque dal 31 dicembre 2008), con la conseguenza che al momento dell’atto interruttivo, intervenuto entro il termine quinquennale previsto dall’art. 22, D.Lgs. cit. (14 gennaio 2013), l’illecito amministrativo non poteva ritenersi prescritto.
Tale orientamento ritiene, in particolare, che il reato si consuma quando l’agente consegue la disponibilità concreta dell’erogazione, con la conseguenza che, nel caso di erogazioni protratte nel tempo, il momento consumativo del reato, e quindi il termine da prendere in esame ai fini della decorrenza del termine prescrizionale, coincide con la cessazione dei pagamenti (Sez. 6, n. 45917 del 23/09/2021, omissis, Rv. 282293; Sez. 6, n. 10790 del 08/01/2021; Sez. 2, n. 48820 del 23/10/2013).
Ciò posto, un diverso indirizzo interpretativo ritiene, invece, che l’illecito dovrebbe scindersi in una serie di indebite percezioni (una per ciascuno dei mesi nei quali veniva inviato il mod. “DM 10”, indicante il versamento dei contributi illecitamente ridotti), con la conseguenza che tutti i fatti precedenti al dicembre 2008 sarebbero prescritti, essendo pertanto irrilevante, in tale prospettiva, che il beneficiario consegua in momenti diversi contributi che, sommati tra loro, determinerebbero il superamento della soglia, assumendo rilievo il solo conseguimento della somma corrispondente ad ogni singola condotta percettiva (Sez. 6, n. 31223 del 4/06/2021).
L’ordinanza di rimessione precisava, infine, che tale seconda questione assume rilievo nell’ipotesi in cui il fatto si ritenga sussumibile nello schema dell’art. 316-ter cit., poiché, diversamente, la società ricorrente dovrebbe essere assolta dalla contestazione ascrittagli, non rientrando le altre fattispecie di reato eventualmente ipotizzabili nel novero dei “reati presupposto” previsti dagli artt. 25 ss. D.Lgs. cit..

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3. La soluzione adottata dalle Sezioni unite


Le Sezioni unite – dopo avere delimitato le questioni sottoposte al loro vaglio giudiziale(delineate nei seguenti termini: a) “Se nell’ambito applicativo del reato di cui all’art. 316-ter cod. pen. rientri l’indebito conseguimento della riduzione dei contributi previdenziali dovuti ai lavoratori in mobilità assunti dall’impresa, per effetto della mancata comunicazione, da parte di quest’ultima, dell’esistenza di una condizione ostativa prevista dalla legge (art. 8, legge 23 luglio 1991, n. 223 e successive modifiche)”; b) “Se, in caso di reiterate percezioni periodiche di contributi erogati dallo Stato, il reato di cui all’art. 316-ter cod. pen. debba considerarsi unitario, con la conseguenza che la relativa consumazione cessa con la percezione dell’ultimo contributo, ovvero se, in tali casi, sussistano plurimi reati corrispondenti a ciascuna percezione”), e individuato l’ambito di applicazione di questa norma incriminatrice così come effettuato da parte della stessa Corte di Cassazione – affermavano come l’analisi della struttura e della formulazione lessicale della fattispecie di indebita percezione di erogazioni pubbliche mostri la persistente validità dell’impostazione ermeneutica sinora accolta dalla dominante giurisprudenza di legittimità sulla base dei principi affermati dalle decisioni delle Sezioni Unite richiamate da questa medesime Sezioni, nella pronuncia qui in commento, nei seguenti termini: Con la decisione emessa dalle Sez. U, di cui al n. 16568 del 19/04/2007, Carchivi “è stato risolto il contrasto giurisprudenziale venutosi a creare sulla qualificazione giuridica della condotta di indebita fruizione dell’esenzione dal pagamento del c.d. ticket sanitario, conseguita mediante una falsa dichiarazione circa le condizioni di reddito indicate dalla legge. Muovendo dal rilievo che il discrimen tra la fattispecie prevista dall’art. 316-ter cit. e quella di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche non può essere tracciato in ragione della natura delle erogazioni, poiché entrambi i reati sono destinati a reprimere la percezione indebita dei contributi e risultano applicabili, in quanto tali, anche ad erogazioni non condizionate da particolari destinazioni funzionali come i contributi assistenziali, le Sezioni Unite hanno affermato il principio secondo cui integra il reato previsto dall’art. 316-ter cit. e non quello di cui all’art. 640-bis cit. “l’indebito conseguimento, nella misura superiore al limite minimo in esso indicato, del cosiddetto reddito minimo di inserimento previsto dal D.Lgs. 18 giugno 1998 n. 237”. Sotto tale profilo, in particolare, le Sezioni Unite hanno valorizzato il rapporto di sussidiarietà già evidenziato dalla Corte costituzionale nella richiamata ordinanza n. 95 del 2004, facendo rientrare nella sfera dell’art. 316-ter cit. “…solo o comunque soprattutto quelle condotte cui non consegua un’induzione in errore o un danno per l’ente erogatore”. Fermi, dunque, i limiti tradizionali della fattispecie di truffa, “l’ambito di applicabilità dell’art. 316-ter c.p. si riduce… a situazioni del tutto marginali, come quelle del mero silenzio antidoveroso o di una condotta che non induca effettivamente in errore l’autore della disposizione patrimoniale”. Ne consegue che il residuale e meno grave delitto di cui all’art. 316-ter cit. è configurabile solo quando difettino nella condotta gli estremi della truffa, dovendosi pertanto ritenere assorbiti “…i delitti di falso ideologico previsto dall’art. 483 cod. pen. e di uso di atto falso previsto dall’art. 489 cod. pen., in quanto l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o documenti falsi costituisce elemento essenziale per la configurazione del fatto tipico dell’indebita percezione di erogazioni in danno dello Stato”. Con la successiva decisione le Sezioni Unite hanno risolto l’ulteriore contrasto giurisprudenziale venutosi a creare in ordine alla qualificazione giuridica della condotta di indebita fruizione dell’esenzione dal pagamento del c.d. ticket sanitario, conseguita mediante una falsa dichiarazione circa le condizioni di reddito indicate dalla legge (Sez. U, n. 7537 del 16/12/2010, dep. 2011, Pizzuto, cit.). Sotto tale profilo la Corte ha precisato la nozione di erogazione, stabilendo il principio secondo cui integra il reato “la falsa attestazione circa le condizioni reddituali per l’esenzione dal pagamento del ticket per prestazioni sanitarie e ospedaliere che non induca in errore ma determini al provvedimento di esenzione sulla base della corretta rappresentazione dell’esistenza dell’attestazione stessa”. Nel ribadire quanto affermato dalla sentenza Carchivi sulla necessità di tener conto delle effettive modalità di svolgimento del procedimento che viene di volta in volta in rilievo ai fini della specifica erogazione, le Sezioni Unite hanno posto in rilievo che la truffa “va ravvisata solo ove l’ente erogante sia stato in concreto ‘circuito’ nella valutazione di elementi attestativi o certificativi artificiosamente decettivi” e che elementi significativi in tal senso possono trarsi sia dalla collocazione topografica della fattispecie di indebita percezione che dagli elementi descrittivi che compaiono tanto nella rubrica quanto nel testo della norma, “chiaramente evidenzianti la volontà del legislatore di perseguire sostanzialmente la percezione sine titulo delle erogazioni in via privilegiata rispetto alle modalità attraverso le quali l’indebita percezione si è realizzata”. L’ambito di applicazione dei principi affermati dalla sentenza Carchivi è stato ulteriormente arricchito dalla sentenza Pizzuto in relazione alla sfera di rilevanza dell’indebita percezione di erogazioni pubbliche di natura assistenziale, precisando che “nel concetto di conseguimento indebito di una erogazione da parte di enti pubblici rientrano tutte le attività di contribuzione ascrivibili a tali enti, non soltanto attraverso l’elargizione precipua di una somma di danaro ma pure attraverso la concessione dell’esenzione dal pagamento di una somma agli stessi dovuta, perché anche in questo secondo caso il richiedente ottiene un vantaggio e beneficio economico che viene posto a carico della comunità”. Con la richiamata decisione, inoltre, questa Corte ha ribadito la necessità di interpretare la locuzione “contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo” in senso non strettamente tecnico ed ancorato alla legislazione di settore, bensì attribuendole un’ampia estensione semantica, ritenuta congeniale al perseguimento delle finalità che avevano portato il legislatore ad introdurre nel sistema la fattispecie di reato in esame. Al riguardo, in particolare, la nozione di “contributo” è stata intesa “quale conferimento di un apporto per il raggiungimento di una finalità pubblicamente rilevante”, precisando che “tale apporto, in una prospettiva di interpretazione coerente con la ratio della norma, non può essere limitato alle sole elargizioni di danaro””.
In particolare, a fronte di tale considerazione giuridica, i giudici di piazza Cavour notavano a tal proposito che la figura di reato in esame è stata introdotta nel codice penale dall’art. 4, comma 1, legge 29 settembre 2000, n. 300, al fine di adeguare l’ordinamento italiano agli obblighi derivanti dalla Convenzione sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee, sottoscritta a Bruxelles il 26 luglio 1995, il cui art. 2 impone agli Stati membri di punire le frodi lesive dei predetti interessi con sanzioni penali “effettive, proporzionate e dissuasive”.
Nella descrizione degli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice prevista dall’art. 316-ter, comma 1, cit. il legislatore àncora la tipicità della condotta al conseguimento indebito, per sé o per altri, di contributi, sovvenzioni, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, mediante l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero mediante l’omissione di informazioni dovute.
Affermato ciò, gli Ermellini evidenziavano per di più come le modifiche normative, succedutesi nel tempo, non abbiano investito i tratti identificativi della condotta, la cui tipicità è rimasta sostanzialmente inalterata visto che, con l’art. 1, comma 1, lett. I), legge 9 gennaio 2019, n. 3, è stata introdotta nel testo della disposizione normativa una circostanza aggravante per il fatto commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio con abuso della qualità o dei suoi poteri.
In attuazione della Direttiva UE 2017/1371, relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione europea, è stata prevista, inoltre, una specifica aggravante dall’art. 1, comma 1, lett. b), D.Lgs. 14 luglio 2020, n. 75, nell’ipotesi in cui il fatto offenda gli interessi finanziari dell’Unione e il danno o il profitto siano superiori al limite di Euro centomila.
Nella rubrica dell’art. 316-tercit. la parola “pubbliche” è stata sostituita alle parole “a danno dello Stato” dall’art. 28-bis, comma 1, n. 1, D.L. 27 gennaio 2022, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 marzo 2022, n. 25, in modo da orientare più chiaramente l’area della tutela penale sulla protezione delle risorse derivanti dal bilancio statale o europeo, fermo restando che la stessa modifica era stata in precedenza disposta dall’art. 2, comma 1, n. 1, D.L. 25 febbraio 2022, n. 13, in seguito abrogato dall’art. 1, comma 2, legge 28 marzo 2022, cit., che ha tuttavia stabilito che “restano validi gli atti e i provvedimenti adottati e sono fatti salvi gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici sorti sulla base del medesimo decreto-legge n. 13 del 2022”.
La parola “sovvenzioni”, infine, è stata inserita nel testo della disposizione dall’art. 28-bis, comma 1, n. 2, D.L. 27 gennaio 2022, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 marzo 2022, n. 25, affiancandosi alle altre espressioni di analogo significato già previste nel primo comma della disposizione fermo restando che, anche in tal caso, un’identica modifica era stata in precedenza disposta dall’art. 2, comma 1, n. 1, D.L. 25 febbraio 2022, n. 13, in seguito abrogato dall’art. 1, comma 2, legge 28 marzo 2022, cit., con la previsione della stessa disciplina di diritto intertemporale dianzi richiamata.
Ciò posto, concluso questo excursus normativo, la Suprema Corte rilevava oltre tutto come l’interesse tutelato, da codesta norma incriminatrice, venga comunemente individuato nell’esigenza di garantire sia la libera formazione della volontà della pubblica amministrazione, interna o eurounitaria, nella gestione delle procedure di concessione o erogazione delle risorse economiche pubbliche, sia, al contempo, la loro corretta allocazione, in modo da prevenirne la illegittima attribuzione e l’indebito conseguimento, sanzionando l’obbligo di verità delle informazioni e delle notizie offerte dal soggetto che richiede il contributo (Sez. 6, n. 9060 del 30/11/2022; Sez. 5, n. 6641 del 16/02/200; Sez. 6, n. 31737 del 25/06/2008) visto che, dalla formula legislativa de qua, risulta che la condotta incriminata consiste, in entrambe le sue forme di realizzazione, attiva od omissiva, nell’indebito “conseguimento” di un beneficio economico oggetto di un procedimento amministrativo di concessione o erogazione, ponendosi, dunque, nella fase iniziale del complessivo assetto del rapporto instaurato fra il privato e la pubblica amministrazione, laddove la contigua figura di reato prevista dall’art. 316-bis cit. attiene alla fase esecutiva dell’attribuzione di risorse pubbliche.
D’altronde, l’ampia formula lessicale utilizzata dal legislatore ,per descrivere l’oggetto materiale della condotta, è idonea a ricomprendervi la percezione di ausili economici di qualsiasi tipo, a fondo perduto o con obbligo di restituzione, con la sola connotazione della vantaggiosità, ossia dell’agevolazione rispetto alle condizioni ordinarie praticate sul mercato, laddove il ricorso all’espressione “mediante l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o l’omissione di informazioni dovute” sta ad indicare le possibili modalità attraverso cui si realizzano le forme comportamentali alternativamente previste dalla fattispecie incriminatrice nel contesto della procedura amministrativa di volta in volta attivata, tenuto conto altresì del fatto che, a fronte del carattere “deliberatamente generico” del modello definitorio utilizzato dal legislatore nella costruzione della fattispecie in esame (Sez. U, n. 16568 del 19/04/2007), il significato delle diverse espressioni ivi elencate in sequenza (“contributi”, “sovvenzioni”, “finanziamenti”, “mutui agevolati”, “altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate”) ben può riferirsi, alla luce dell’uso corrente e dell’etimologia dei termini impiegati, all’attribuzione di qualsivoglia vantaggio economico in favore di soggetti privati, essendo a tal riguardo agevole rilevare come, nella stessa formulazione letterale dell’art. 316-ter cit. sia espressamente valorizzato, attraverso l’impiego del termine “mutuo agevolato”, il contenuto di una operazione negoziale conclusa a condizioni più favorevoli di quelle di regola praticate nel mercato finanziario, connotando la percezione del “beneficio”, sulla cui concessione o erogazione si innesta la costruzione della antigiuridicità del fatto, come un sostanziale “risparmio di spesa” rispetto a quanto il contraente avrebbe dovuto sopportare per stipulare un mutuo a condizioni “non agevolate”.
Nell’enunciato normativo, inoltre, osservavano sempre le Sezioni unite nella pronuncia qui in commento, la condotta viene posta in relazione ad un oggetto materiale non delimitato in via esclusiva, ma definito con il ricorso ad una clausola aperta, avendo il legislatore utilizzato un’espressione di sintesi a titolo esemplificativo (“altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate”), che consente di ritenere inclusa nel precetto anche la percezione dei benefici economici legati alla riduzione di un onere previdenziale o assistenziale per colui che indebitamente li abbia conseguiti secondo le diverse possibili modalità di realizzazione della condotta previste dalla richiamata disposizione, tanto più se si osservare che è nell’indebito conseguimento di un’agevolazione economica, in qualsiasi modo attribuita dallo Stato, da un ente pubblico o dall’Unione europea, che deve ricercarsi, dunque, il nucleo identificativo della tipicità della fattispecie di reato in esame.
Orbene, entro tale prospettiva, si faceva presente come la medesima Cassazione avesse affermato che la norma incriminatrice adotta una formula linguistica non necessariamente circoscritta alla materiale dazione di somme di denaro, ma strutturata in maniera tale da poter riguardare anche la formale attribuzione del diritto ad ottenere una prestazione pecuniaria a carico dello Stato o di altro ente pubblico (Sez. 6, n. 21317 del 05/04/2018) poiché il legislatore, da un lato ricorre, per indicare i benefici rilevanti, ad una pluralità di espressioni polisemiche, manifestando chiaramente l’intenzione di ampliare l’area di applicabilità della sanzione penale, dall’altro lato precisa che i benefici oggetto di indebito conseguimento possono essere “concessi o erogati”.
Una diade concettuale, questa, per la Corte di legittimità, sintomatica della possibilità di dare impulso ad un modulo procedimentale alternativo, cui si ricollega la percezione di uno qualsiasi dei possibili aiuti economici che costituiscono l’oggetto materiale della condotta, senza che la diversità del procedimento amministrativo di volta in volta attivato produca, tuttavia, alcuna diversità di effetti ai fini dell’acquisizione del vantaggio in tal modo ottenuto.
L’analisi testuale della disposizione, là dove si stabilisce, con il ricorso alla particella disgiuntiva “o”, che i benefici possono essere “concessi o erogati”, dimostra quindi, per il Supremo Consesso, che il legislatore ha inteso conferire alle due parole un significato autonomo, non necessariamente coincidente con quello costituito dalla materiale dazione di somme di denaro visto che, sotto tale profilo, si è precisato che, secondo la comune accezione linguistica rinvenibile nei più diffusi vocabolari, il termine “concedere” significa anche, e primariamente, “accordare dando il proprio formale assenso”, dunque “permettere, “acconsentire”, non solo materialmente consegnare (Sez. 6, n. 21317 del 05/04/2018).
Ciò posto, per le Sezioni unite, d’altronde, il termine “erogare”, a sua volta, discende dall’omologo latino e sta a significare l’effettuazione di una spesa pubblica in favore del richiedente, concretandosi quindi nell’attivazione di una procedura volta ad elargire, destinare, impiegare una somma per uno scopo determinato, ma anche a dare, fornire, distribuire, devolvere, mettere a disposizione degli utenti un servizio o un bene determinato.
Nella struttura della fattispecie, dunque, la “richiesta” che dà luogo alla “erogazione” può ben riguardare il conferimento di qualsivoglia agevolazione economica da riconoscere in presenza delle condizioni stabilite dalla legge, senza che a tale ampio significato si leghi necessariamente la materialità di una dazione iniziale ovvero una immediata percezione del beneficio da parte del privato (in tal senso possono richiamarsi, a titolo esemplificativo, le svariate ipotesi della garanzia pubblica di un finanziamento bancario erogato in favore di determinate imprese, della presa in carico da parte dello Stato di oneri retributivi e previdenziali, della previsione di crediti agevolati alle esportazioni o di assicurazioni speciali di tali crediti, della stipula di contratti per forniture all’amministrazione pubblica a prezzi più alti di quelli di mercato, ecc.).
Chiarito ciò, i giudici di legittimità ordinaria evidenziavano, a questo punto della disamina, che non
oltrepassa il confine semantico del testo normativo l’affermazione secondo cui “contributi”, “sovvenzioni”, “finanziamenti” sono anche quelli indirettamente conseguiti, quando lo Stato o l’ente pubblico non riesca ad ottenere dal privato, in ragione della sua condotta delittuosa, il complessivo importo di quanto da lui effettivamente dovuto a seguito del beneficio economico riconosciutogli dalla legge, non avendo il legislatore inserito, nel corpo della disposizione normativa, specificazioni qualitative in senso restrittivo dell’area semantica delle diverse unità lessicali ivi elencate.
In effetti, con l’espressione “altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate”, si è inteso ricorrere ad una generale formula di chiusura, in modo da ricomprendere nell’ambito di applicazione della fattispecie incriminatrice ogni possibile forma di attribuzione comunque agevolata per il beneficiario di risorse pubbliche o eurounitarie, includendovi anche quelle indirettamente conseguite, che prescindono da un esborso iniziale di denaro.
Il meccanismo dell’erogazione diretta di una somma di danaro, inoltre, sortisce gli stessi effetti della sua non acquisizione da parte della pubblica amministrazione, sia pure a cronologia invertita, rinunciando lo Stato o l’ente pubblico alla percezione del quantum effettivamente dovuto a beneficio del privato.
In particolare, nel primo caso, lo Stato eroga denaro indebitamente, determinandosi una situazione di svantaggio a beneficio del reo, sicché il depauperamento del primo precede cronologicamente l’arricchimento del secondo; nell’altra ipotesi, invece, il richiedente risparmia il pagamento di quanto dovuto, evitando la conseguenza di un depauperamento immediato, che è pari al suo vantaggio e allo svantaggio procurato alla pubblica amministrazione, sia pure non in termini di un’erogazione ma di un mancato arricchimento, ossia di una “mancata entrata di ricchezza” per effetto della correlata condotta illecita del richiedente, fermo restando che la forma, diretta o indiretta, attraverso cui si verifica l’indebito conseguimento di una qualsiasi delle agevolazioni economiche previste dalla fattispecie incriminatrice può manifestarsi, indifferentemente, nella fuoriuscita di una spesa in favore del privato ovvero in una minore entrata nel bilancio dello Stato o di un ente pubblico a beneficio del privato, dando luogo solo ad una delle possibili modalità di realizzazione della condotta, senza incidere sul disvalore di evento legato al verificarsi di una differenza, in concreto variabile, rispetto a quanto lo Stato o l’ente pubblico avrebbe dovuto legittimamente ricevere dal privato sulla base delle condizioni e dei requisiti previsti dalla disposizione autorizzativa della spesa pubblica.
Ebbene, da ciò se ne fa discendere che la condotta penalmente rilevante si realizza, non attraverso l’indebita locupletatici di un rimborso di spesa, ma, ancora prima, con l’indebito conseguimento del diritto ad un beneficio contributivo la cui fruizione non è consentita dalla legge.
Precisato ciò, si rilevava infine che nessuna diversità di effetti si verifica, anche sotto tale specifico profilo, in conseguenza della concessione o della erogazione dei benefici contributivi previsti dalla legge in favore dell’impresa che assume a tempo pieno e indeterminato i lavoratori iscritti nella lista di mobilità, essendo sotto tale profilo agevole rilevare come, nell’ambito delle disposizioni previste, all’epoca dei fatti, dall’art. 8, commi 2, 4, 4-bis, legge 23 luglio 1991, n. 223, il legislatore abbia impiegato i due termini (concessione ed erogazione) in maniera sostanzialmente sovrapponibile, attribuendo ad essi lo stesso significato ai fini dell’individuazione sia delle tipologie di benefici contributivi che possono costituire l’oggetto materiale della condotta (agevolazioni rappresentate, rispettivamente, dal versamento di un contributo mensile al datore di lavoro ovvero da una riduzione della quota di contribuzione a suo carico in presenza delle condizioni e dei presupposti espressamente indicati dalla legge) sia dell’indebito conseguimento del diritto alla loro fruizione.
Da ciò se ne faceva discendere che, alla condotta posta in essere da parte della società datrice di lavoro, a prescindere dalle modalità attive o omissive di realizzazione, è causalmente ricollegabile l’attribuzione del diritto alla fruizione del relativo beneficio, nella forma di un’agevolazione contributiva o di una riduzione dell’onere economico del pagamento della contribuzione a carico della società, senza che assumano rilievo a tal fine i modelli procedimentali (concessione o erogazione) alla base del suo materiale conseguimento e il quantum del vantaggio economico legato al risparmio della quota complessiva di parziale esenzione dall’onere economico oggetto del reiterato inadempimento dell’obbligazione contributiva, che può eventualmente venire in rilievo, a seconda dei casi, sotto i diversi profili dell’ulteriore approfondimento dell’offesa criminale, ovvero dell’applicazione della causa di non punibilità prevista dall’art. 316-ter, secondo comma, cit. quando l’importo della somma indebitamente percepita sia pari o inferiore alla soglia ivi prevista.
Sotto altro, ma connesso profilo, si notava per di più come la disposizione di cui all’art. 8, comma 8, legge cit. faccia riferimento ad entrambi i su indicati benefici economici, includendoli nella sfera di applicazione della richiamata disposizione di cui all’art. 37 legge 9 marzo 1989, n. 88 (concernente la ristrutturazione dell’Istituto nazionale della previdenza sociale e dell’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro), che ha istituito presso l’I.N.P.S. la gestione degli interventi assistenziali e di sostegno alle gestioni previdenziali, ponendone a carico dello Stato il finanziamento in relazione agli oneri derivanti dalle agevolazioni contributive disposte in favore di particolari categorie, tra le quali rientrava, all’epoca della consumazione dei fatti oggetto del presente procedimento, anche quella dei lavoratori collocati nella lista di mobilità.
Orbene, per la Corte, posto che, nell’ipotesi di indebito conseguimento delle agevolazioni previste dall’art. 8, commi 2 e 4, legge cit., l’obbligo di garantire la posizione contributiva dei lavoratori, in caso di inadempimento della relativa obbligazione, non si dissolve, ma si trasferisce dal datore di lavoro ad altro soggetto (l’I.N.P.S.) che eroga la prestazione in suo luogo, così riverberandosi gli effetti del mancato versamento sul bilancio della relativa gestione previdenziale, e indirettamente su quello dello Stato, avuto riguardo alla previsione di un’apposita copertura finanziaria degli oneri, secondo quanto stabilito dall’art. 37, comma 5, legge cit., non può dirsi, pertanto, che all’erogazione o alla concessione delle agevolazioni contributive corrisponda necessariamente un’effettiva riscossione, poiché, in caso di illegittimo accesso ai relativi benefici, l’istituto dello sgravio contributivo non si risolve nella formazione di un risparmio di spesa in favore dell’impresa beneficiaria, ma impone il versamento del dovuto a carico di altro ente pubblico che prende in carico la spesa e vi provvede in favore del prestatore di attività lavorativa.
Ebbene, fatto questo ulteriore chiarimento, gli Ermellini rilevavano, a questo punto della disamina, che, nella medesima prospettiva ermeneutica delineata dalla stessa Cassazione, si pongono, inoltre, i risultati della elaborazione giurisprudenziale progressivamente sviluppata dalla Corte di giustizia dell’Unione europea in materia di aiuti di Stato ai sensi dell’art. 107 T.F.U.E. poiché la Corte di Lussemburgo ha costantemente affermato che lo strumento dello sgravio o della riduzione dei contributi previdenziali – di frequente utilizzato dal legislatore italiano – rappresenta una delle forme tipiche di vantaggio economicamente valutabile, di fonte pubblica, idoneo a concretare un’ipotesi di aiuto di Stato, non ostando a tale ricostruzione la circostanza per cui, nel caso degli sgravi contributivi, le autorità pubbliche non eroghino direttamente denaro alle imprese, né il fatto che il vantaggio venga riconosciuto da un ente previdenziale e non da un’autorità ministeriale in senso tradizionale (Corte giustizia, 29/07/2019, INPS c. ANM Spa, in tema di sgravi contributivi a seguito della stipula di contratti di formazione e lavoro; Corte giustizia, 27/06/2017, Congregación de Escuelas Pìas Provincia Betania c. Ayuntamiento de Getafe, in materia di esenzioni fiscali previste per una congregazione religiosa), rilevando all’opposto, al riguardo, tutti gli interventi che, sotto qualsiasi forma, sono volti a favorire direttamente o indirettamente determinate imprese, o che devono essere considerati come un vantaggio economico che l’impresa beneficiaria non avrebbe potuto ottenere in condizioni di mercato normali (Corte giustizia, 09/10/2014, Ministerio de Defensa e Navantia, par. 21).
Analogamente, per vantaggio economico in favore di un’impresa deve intendersi qualsiasi riduzione degli oneri che normalmente gravano sul suo bilancio, fermo restando che, fatta salva la valutazione di compatibilità dell’aiuto di Stato con il mercato interno ai sensi dell’art. 107, parr. 2 e 3, T.F.U.E., il trasferimento di risorse pubbliche in favore di imprese o privati può concretamente assumere, pertanto, numerose forme di manifestazione, che vengono per lo più individuate, a mero titolo esemplificativo, in quelle di seguito menzionate: a) sovvenzioni non rimborsabili e sovvenzioni dirette a ripianare le perdite di bilancio ovvero a copertura dei costi di nuovi investimenti; b) prestiti a tassi agevolati; c) garanzie dello Stato sui debiti; d) crediti agevolati alle esportazioni o assicurazioni speciali di tali crediti; e) dilazioni dei pagamenti; f) stipula di contratti per forniture all’amministrazione pubblica a prezzi più alti di quelli di mercato; g) presa in carico da parte dello Stato di oneri retributivi e previdenziali; h) cessione di proprietà immobiliari pubbliche a prezzi inferiori al loro valore; i) agevolazioni o esenzioni fiscali; I) dilazioni eccezionali nel versamento di tributi ed altre forme ancora.
Da ciò se ne faceva quindi conseguire che, nella prospettiva del diritto eurounitario, il requisito del “trasferimento di risorse statali” è ritenuto sussistente ogni qual volta l’aiuto abbia un impatto sul bilancio dello Stato, vale a dire in ogni ipotesi in cui lo Stato direttamente conceda proprie risorse oppure, indirettamente, rinunci a riscuotere ciò che gli è dovuto (Corte giustizia, 11/07/1996, SFEI; Corte giustizia, 14/03/1994, Banco Exterior de Espana; Corte giustizia, 02/02/1988, Van der Kooy; Corte giustizia, 22/03/1977, Steinike E Einling), non essendo necessario che avvenga un trasferimento positivo di fondi, essendo per contro sufficiente anche una rinuncia alle entrate statali (come si verifica, ad es., nell’ipotesi della riduzione di entrate fiscali e contributive o della previsione di esenzioni da ammende o da altre sanzioni pecuniarie, entrambe ritenute rispondenti al paradigma delle risorse statali).
Sotto tale profilo, in particolare, la Corte di giustizia ha precisato che la nozione di “aiuto” comprende non solo le prestazioni positive, come le sovvenzioni, ma anche le misure che, sotto varie forme, alleviano gli oneri che normalmente gravano sul bilancio di un’impresa e che, pertanto, senza essere sovvenzioni in senso stretto, presentano natura analoga e producono il medesimo effetto (Corte giustizia, 14/09/2023, Commission c. Dansk Erhverv; Corte giustizia, 14/01/2015, Eventech).
Detto questo, ad avviso dei giudici di piazza Cavour, tra l’altro, a sostegno della fondatezza della linea interpretativa tracciata dalle Sezioni unite, militavano ulteriori argomenti desumibili sia dall’esito dei lavori parlamentari, sia dal contenuto della normativa convenzionale di derivazione comunitaria oggetto di attuazione nell’ordinamento interno, oltre che dalle implicazioni logicamente sottese ai principi generali stabiliti dal legislatore in tema di disposizioni autorizzative delle erogazioni economiche di fonte pubblica.
In particolare, si osservava prima di tutto che, se la fattispecie prevista dall’art. 316-ter cit. non era stata inizialmente inserita nell’originario disegno di legge governativo di ratifica della richiamata Convenzione di Bruxelles del 26 luglio 1995, nella convinzione – esplicitata nella relazione illustrativa – che l’art. 640-bis cit. fosse già sufficiente a soddisfare gli obblighi comunitari concernenti le frodi “in materia di spese” delineate dall’art. 1, lett. a), primo e secondo trattino, dello strumento convenzionale, nel corso dei lavori parlamentari, tuttavia, emerse la preoccupazione che talune delle fattispecie di frode identificate dalla Convenzione – le quali comprendevano condotte non solo di falso in senso lato (“utilizzo o… presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi, inesatti o incompleti”), ma anche di mero silenzio antidoveroso (“mancata comunicazione di un’informazione in violazione di un obbligo specifico”), senza che fosse previsto, al contempo, il requisito dell’induzione in errore del soggetto passivo, caratterizzante il paradigma della truffa – potessero in realtà non rientrare nella sfera di operatività dell’art. 640-bis cit.
Orbene, al fine di evitare, sotto tale profilo, una eventuale inadempienza agli obblighi comunitari, abbandonata l’idea iniziale di aggiungere all’art. 640-bis cod. pen. un ulteriore comma che riconducesse espressamente alla fattispecie della truffa aggravata le condotte descritte nella predetta Convenzione, il legislatore, come osservato dalla Corte costituzionale con la richiamata ordinanza n. 95 del 2004, optò per la soluzione di introdurre ex novo una disposizione sanzionatoria – quella, appunto, dell’art. 316-ter – modellata (anche per quanto attiene alla preliminare clausola di salvezza dell’art. 640-bis) sulla falsariga dell’art. 2 legge 23 dicembre 1986, n. 898, in materia di aiuti comunitari al settore agricolo, che riproduce quasi alla lettera la formula prevista per la condotta sanzionata dall’art. 1 della Convenzione: disposizione che, nel comminare sanzioni più miti rispetto a quelle previste dall’art. 640, è stata ritenuta “…eloquentemente indicativa dell’intento legislativo di reprimere, con essa, fatti di minore gravità, sul piano del disvalore di condotta, rispetto a quelli attinti dalla norma principale”.
Nel dettaglio, secondo la previsione contenuta nell’art. 1, lett. a), della richiamata Convenzione, costituisce frode lesiva degli interessi finanziari delle Comunità europee, in materia di spese, qualsiasi azione od omissione intenzionale relativa, fra l’altro, all’utilizzo o alla presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi, inesatti o incompleti cui consegua il percepimento o la ritenzione illecita di fondi provenienti dal bilancio generale delle Comunità europee o dai bilanci gestiti dalle Comunità europee o per conto di esse.
La struttura di tale disposizione pattizia si fonda quindi sull’utilizzo di termini il cui significato, assai ampio nella sua potenziale sfera applicativa, è sostanzialmente coincidente nel raffronto fra la versione del testo in lingua italiana e le sue versioni in lingua inglese e francese visto che, nel testo italiano della richiamata norma convenzionale, figurano espressioni (“percepimento” o “ritenzione illecita” dei fondi) del tutto analoghe a quelle risultanti, rispettivamente, dalla versione inglese (“misappropriation or wrongful retention of funds”) e da quella francese della medesima disposizione (“la perception ou la rétention indue de fonds”).
Le rispettive formulazioni lessicali, dunque, per la Corte di legittimità, risultano sovrapponibili nel loro contenuto semantico, ponendo in evidenza i tratti identificativi di una condotta -attiva od omissiva – che si realizza attraverso il fatto di percepire, ottenere, ricevere, acquisire, appropriarsi indebitamente in qualsiasi modo di fondi di provenienza eurounitaria, avendo il legislatore, in sede di ratifica dello strumento convenzionale conformemente recepito gli obiettivi, utilizzando, nel delineare la condotta di “indebito conseguimento”, un’espressione il cui significato consiste, secondo l’accezione comunemente riportata nei più diffusi dizionari, nell’ottenere, raggiungere, ricevere qualche cosa.
In particolare, si tratta di un termine ad ampio spettro semantico al quale il legislatore nazionale ha fatto ricorso per adeguare l’assetto codicistico alla corrispondente formulazione lessicale prevista dall’art. 1, lett. a), della Convenzione dato che il termine “percepire” ivi impiegato presenta, nel senso comune dell’espressione, l’analogo significato di acquisire, raccogliere, far proprio e, per estensione, riscuotere, ricevere il frutto, il reddito, l’utile di un bene o di un patrimonio.
La norma interna, di contro, ha omesso qualsiasi riferimento alla previsione della ulteriore condotta di “ritenzione illecita” dei fondi comunitari, anch’essa contemplata dall’art. 1, lett. a), della Convenzione del 26 luglio 1995, così aprendo, nell’opera di adeguamento alla norma pattizia, una lacuna non colmabile per via interpretativa (Sez. 6, n. 26180 del 23/05/2024).
Nella rubrica e nel comma 2 della norma codicistica il legislatore impiega il termine “indebita percezione”, facendolo seguire dal sintagma riassuntivo “erogazioni pubbliche”, mentre nel comma 1, per descrivere compiutamente la condotta delittuosa, fa riferimento al termine “indebito conseguimento”, con la successiva individuazione dell’oggetto materiale, che vi viene esplicitato nella sua più ampia estensione possibile, attraverso l’indicazione delle forme più varie di attribuzione economica agevolata da parte dello Stato, di altri enti pubblici e dell’Unione europea, con una clausola di chiusura finalizzata, come si è visto, ad attribuire rilievo a qualsiasi erogazione pubblica, comunque denominata, dello stesso tipo.
Le Sezioni unite, pertanto, alla luce di tale quadro ermeneutico, ritenevano, in conformità al dato letterale e alla finalità dello strumento convenzionale, che ai due termini rispettivamente impiegati dal legislatore nella rubrica e nel corpo della disposizione (“indebita percezione” e “indebito conseguimento”) si ricolleghi il medesimo significato sopra indicato, poiché, in caso contrario, il contenuto precettivo della previsione normativa risulterebbe palesemente irrazionale, così come, da un lato, la forma indefinita dell’aggettivazione impiegata dal legislatore europeo (“qualsiasi azione od omissione”) sta parimenti a indicare la volontà di non restringere la condotta o introdurre particolari requisiti o condizioni specificative nelle sue forme di realizzazione, dall’altro, parimenti estese, nella loro possibile sfera applicativa, risultano le aree semantiche del termine francese “perception”, che ha un significato del tutto corrispondente a quello usato nella versione italiana, e di quello inglese “misappropriation”, cui si riconnette un’analoga varietà ed ampiezza di significati (appropriazione indebita, malversazione, distrazione, sottrazione).
Oltre a ciò, era altresì considerato che, a seguito delle modifiche operate con la legge 28 marzo 2022, n. 25, il legislatore ha unificato l’oggetto materiale delle fattispecie incriminatrici relative all’intero settore delle frodi pubbliche (artt. 316-bis, 316-ter e 640-bis cod. pen.), disegnando in termini omogenei l’intera area degli ausili economici di provenienza pubblica (sovvenzioni, contributi, finanziamenti, mutui agevolati e altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate), con la conseguenza che le relative condotte si distinguono fra loro essenzialmente in ragione delle rispettive, specifiche, modalità di realizzazione: l’omessa destinazione alle finalità previste, nel caso del delitto di malversazione di erogazioni pubbliche, l’indebito conseguimento, nel delitto previsto dall’art. 316-ter, il ricorso ad artifizi o raggiri, con ingiusto profitto e altrui danno, per il delitto di truffa aggravata).
Ebbene, per le Sezioni unite, osservate in una visione d’insieme, le richiamate fattispecie incriminatrici vengono a comporre, sia per l’ampiezza del loro contenuto precettivo che per le correlate finalità di tutela, un plesso normativo posto a presidio della corretta allocazione e distribuzione di ausili economici di qualsiasi tipo, a fondo perduto o meno, con la sola connotazione della vantaggiosità, ovvero dell’agevolazione rispetto ai tassi di interesse e alle ordinarie condizioni di mercato.
Entro tale prospettiva, in particolare, la norma prevista dall’art. 316-ter mira ad anticipare la rilevanza penale dell’illecita captazione di finanziamenti pubblici sia rispetto al delitto di malversazione a danno dello Stato, che incentra il disvalore della condotta sulla non destinazione del finanziamento alle finalità per cui è stato concesso, sia riguardo alla truffa aggravata prevista dall’art. 640-bis, che presuppone invece l’induzione in errore dell’ente, entro una relazione di sussidiarietà fra le due figure delittuose.
Da una valutazione complessiva del significato delle formule lessicali ivi impiegate emerge, in definitiva, sempre per siffatte Sezioni, che il nucleo di tipicità della fattispecie descritta nell’art. 316-ter poggia sull’indebita acquisizione di benefici economici di qualsiasi tipo, siano essi provenienti dallo Stato, da altri enti pubblici ovvero dall’Unione europea, diretti o indiretti, per effetto di un comportamento attivo od omissivo causalmente correlato all’attivazione di una procedura amministrativa di concessione-erogazione di provvidenze di fonte pubblica, fermo restando che ulteriori elementi di conferma, al riguardo, possono trarsi dall’esame della disposizione prevista dall’art. 12 legge 7 agosto 1990, n. 241, recante “Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi”, che in materia di provvedimenti attributivi di vantaggi economici rispettivamente stabilisce: a) nel primo comma, che “la concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l’attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati sono subordinate alla predeterminazione… da parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi”; b) nel secondo comma, che “l’effettiva osservanza dei criteri e delle modalità di cui al comma 1 deve risultare dai singoli provvedimenti relativi agli interventi di cui al medesimo comma 1”.
Da tale disposizione risulta quindi, per la Suprema Corte, con evidenza che il principio di tipicità e predeterminazione delle disposizioni autorizzative di spesa da parte degli enti non conosce alcuna distinzione tra la concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi, da un lato, e l’attribuzione di ausili finanziari e vantaggi economici di qualunque genere, dall’altro, tenuto conto che la generale esigenza di tassatività si dispiega in relazione a tutti i provvedimenti attributivi di vantaggi economici, risultando artificiosa, oltre che irragionevole nella prospettiva della spesa pubblica, una distinzione tra quella realizzata attraverso dazioni in favore del privato, siano esse soggette o meno a restituzione, e quella praticata attraverso la previsione di ausili finanziari e attribuzioni di agevolazioni economiche di qualunque genere.
Del resto, sotto tale profilo, anche nella giurisprudenza contabile si fa riferimento al comune genus dei provvedimenti accrescitivi della sfera giuridica dei destinatari, finalizzati ad accordare un vantaggio economico, diretto o indiretto, mediante l’erogazione di incentivi o agevolazioni (Corte dei conti, Sez. reg. Veneto, deliberazione n. 260 del 06/04/2016) ed entro tale prospettiva, dunque, emerge, per gli Ermellini, un’ulteriore conferma del rilievo che nessuna differenza – di forma, di fondamento normativo, di previsione contabile o di copertura finanziaria – può esservi tra la previsione di una sovvenzione ovvero di una decurtazione di oneri gravanti sul privato, che vengano concesse o erogate a titolo di ausilio economico sulla base dei presupposti indicati dalla legge, non potendo attribuirsi rilievo, in senso contrario, all’elemento di novità riconducibile alla parziale modifica di recente apportata alla rubrica dell’art. 316-ter dall’art. 28-bis, comma 1, lett. c), n. 1), D.L. 27 gennaio 2022, n. 4, convertito con modificazioni dalla legge 28 marzo 2022, n. 25, poiché il legislatore si è limitato ad interpolare l’espressione “indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato” con quella, maggiormente appropriata, di “indebita percezione di erogazioni pubbliche”, così evidenziando il possibile orientamento della condotta delittuosa anche in direzione degli enti pubblici e dell’Unione europea, senza aggiungervi il termine “erogazioni”, la cui previsione già figurava nel testo originario della rubrica della richiamata disposizione incriminatrice.
Ciò posto, la Corte di Cassazione rilevava come la complessiva disamina dei tratti identificativi della tipicità della condotta descritta dall’art. 316-ter cit. ne escluda la sussumibilità in ciascuna delle diverse figure delittuose evocate, in via alternativa, dall’ordinanza di rimessione.
In particolare, con riferimento alla fattispecie di reato prevista dall’art. 10-quater, D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, che sanziona, sotto la rubrica “indebita compensazione”, l’omesso versamento delle somme dovute utilizzando in compensazione, ai sensi dell’art. 17, D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241, crediti non spettanti (comma 1) o crediti inesistenti (comma 2) per un importo annuo superiore alla soglia di punibilità di cinquantamila euro, il legislatore esige, quale elemento di tipicità della condotta, l’esposizione di un (altro) credito inesistente o non spettante che il contribuente utilizza indebitamente in compensazione per ridurre o estinguere l’obbligazione tributaria.
La condotta, dunque, per la Cassazione, è delineata dal legislatore secondo un modello descrittivo diverso da quello che comporta ab origine l’indebito conseguimento di una forma di agevolazione economica (nel caso in esame, di una riduzione dell’obbligo contributivo) per avere falsamente fatto figurare presupposti in realtà inesistenti o per avere taciuto sull’esistenza di cause ostative all’efficacia dei presupposti necessari per ottenere la decontribuzione ovvero altro tipo di beneficio poiché, nella struttura della norma incriminatrice prevista dall’art. 316-ter cit., non compare alcuna condotta di “indebita compensazione” correlata ad una specifica operazione fiscale che si concretizza con la presentazione del modello F24, quale momento di consumazione del reato previsto invece dall’art. 10-quater D.Lgs. cit. (ex plurimis, Sez. 3, n. 3038 del 14/11/2023), così come un’analoga disomogeneità di struttura è ravvisabile riguardo all’ipotesi di reato prevista dall’art. 2, comma 1-bis, D.L. 12 settembre 1983, n. 463, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 1983, n. 638 (“Misure urgenti in materia previdenziale e sanitaria e per il contenimento della spesa pubblica, disposizioni per vari settori della pubblica amministrazione e proroga di taluni termini”) dato che tale disposizione presuppone un obbligo di versamento, da parte del datore di lavoro, delle ritenute previdenziali ed assistenziali operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti, che non possono essere portate a conguaglio con le somme eventualmente anticipate ai lavoratori per conto delle gestioni previdenziali ed assistenziali, fatta salva l’ipotesi che, a seguito di conguaglio tra gli importi contributivi a carico del datore di lavoro e le somme anticipate, risulti un saldo attivo in favore del datore di lavoro.
Nell’ambito della su indicata fattispecie di reato, dunque, ad avviso degli Ermellini, la condotta omissiva presuppone la regolare formazione del sinallagma contrattuale e l’effettività della prestazione, a sua volta, corrisponde al modello legale del rapporto, ma il datore di lavoro – che pure trattiene dalla retribuzione del lavoratore le somme effettivamente dovute a titolo previdenziale – omette di versarle all’ente di gestione mentre, nella disposizione prevista dall’art. 316-ter cit., di contro, alla condotta di indebita percezione posta in essere attraverso l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero tacendo informazioni dovute sulla sussistenza di una condizione ostativa, è causalmente riconducibile l’attribuzione di una forma di agevolazione economica (nel caso di specie del beneficio, in realtà non dovuto, della parziale esenzione dall’onere economico del pagamento della contribuzione gravante sul datore di lavoro in favore dei lavoratori collocati in mobilità), con il conseguente perfezionamento del reato senza che assumano rilievo, a tal fine, le forme e le modalità di ottenimento del vantaggio economico legato alla previsione legale della decontribuzione o di altro tipo di agevolazione.
I presupposti e gli elementi costitutivi delle condotte poste a raffronto sono, pertanto, per il Supremo Consesso, completamente diversi, poiché le ritenute oggetto di omesso versamento ex art. 2, comma 1-bis, D.L. cit. non sono assimilabili al beneficio della riduzione dell’importo di ritenute regolarmente versate, ovvero ad altra forma di ausilio economico, che siano stati, però, indebitamente conseguiti in forza di una precedente condotta omissiva penalmente rilevante.
Chiarito ciò, con riguardo invece alla fattispecie di frode previdenziale prevista dall’art. 37, comma 1, legge 24 novembre 1981, n. 689 – che sanziona il datore di lavoro che omette una o più registrazioni o denunce obbligatorie, ovvero esegue una o più denunce obbligatorie in tutto o in parte non conformi al vero -, anche a voler prescindere dalla clausola di riserva ivi stabilita in favore del reato di maggiore gravità, dalla natura di reato proprio (del quale può essere soggetto attivo il solo datore di lavoro) e dalla specificità del dolo (richiedendosi l’aver agito “…al fine di non versare in tutto o in parte contributi e premi previsti dalle leggi sulla previdenza e assistenza obbligatorie”), la tipicità della condotta di evasione contributiva, per la Corte, trova la sua origine nell’omessa registrazione o denuncia obbligatoria del rapporto di lavoro, ovvero nell’esecuzione di denunce obbligatorie, anche in parte, non conformi al vero, dunque in una serie di elementi documentali non rinvenibili nello schema descrittivo dell’art. 316-ter cit., dove il beneficio economico viene ottenuto per effetto di una condotta attiva, ovvero di una omessa informazione preventiva riguardo alla presenza di una condizione ostativa che, se non taciuta, ne avrebbe precluso la fruizione.
Nella fattispecie prevista dall’art. 37, comma 1, legge cit. il disvalore del fatto gravita, dunque, intorno ad elementi documentali tipici, la cui omissione o alterazione incide sulla correttezza di adempimenti centrali nella dinamica del rapporto previdenziale, sia perché costituiscono la necessaria premessa di un’evasione contributiva, sia in quanto la loro inosservanza rende particolarmente difficile l’attività di controllo degli organi amministrativi.
Infine, anche in relazione all’ulteriore segmento di condotta previsto dall’art. 37, comma 1, là dove si punisce, in capo al datore di lavoro, l’esecuzione di “una o più denunce obbligatorie in tutto o, in parte, non conformi al vero”, il raffronto con la struttura del reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche, sempre ad avviso delle Sezioni unite, consente di escludere la presenza di una immutatio avente ad oggetto il contenuto di un atto specifico, poiché la realizzazione della condotta, sia nella forma attiva che in quella omissiva, ha essenzialmente ad oggetto i presupposti e le condizioni per l’attivazione della specifica procedura da cui scaturisce l’attribuzione del beneficio economico.
Dalla ricostruzione degli elementi costitutivi e dei significati linguistici della fattispecie incriminatrice delineata nell’art. 316-ter cit. emerge, in definitiva, per il Supremo Consesso, una sostanziale omogeneità di disvalore che connota l’intero sistema dell’indebita percezione delle molteplici forme di agevolazione economica cristallizzate nella sequenza delle rispettive unità lessicali ivi utilizzate.
In effetti, proprio al fine di pervenire ad una nozione onnicomprensiva dell’oggetto della condotta di indebito conseguimento, in modo da realizzare una protezione effettiva e completa degli interessi finanziari pubblici o dell’Unione europea, il legislatore ha costruito la fattispecie in esame disegnandola, come posto in rilievo dalla dottrina, attraverso le forme non di una “elencazione sostitutiva”, bensì di una “…esemplificazione esplicativa di un genus di ipotesi già sufficientemente definito…attraverso l’aiuto chiarificatore della esemplificazione casistica omogenea, onde essa, non dando vita a fattispecie analogica anticipata, non è costituzionalmente illegittima” posto che tale procedimento misto, di elencazione ed esemplificazione di forme di ausilio economico all’interno della medesima disposizione, viene infatti ritenuto dalla dottrina il frutto di un’efficace tecnica di redazione delle norme penali, rispettosa dei principi costituzionali perché mira ad evitare, al contempo, sia un’elencazione troppo dettagliata e minuziosa, che una locuzione eccessivamente generica.
Sulla base delle su esposte considerazioni deve escludersi, pertanto, per la Corte, il rischio, evocato dall’ordinanza di rimessione con il richiamo ai passaggi dedicati al fondamento costituzionale del divieto di analogia in materia penale dalla sentenza della Corte costituzionale n. 98 del 2021, che la linea interpretativa tracciata dalle sentenze delle Sezioni Unite succitate possa risolversi in una non consentita estensione analogica del contenuto precettivo della fattispecie incriminatrice atteso che l’assetto ermeneutico delineato e stabilmente applicato dal Giudice delle leggi non determina effetti creativi di una nuova disposizione normativa, ma rispetta la ratio legis e si mantiene entro il confine semantico tracciato dai possibili significati linguistici della formulazione letterale del testo, senza oltrepassarne il senso fatto palese dalle espressioni usate e dalla loro concatenazione logica.
Al su esposto quadro di principi, dunque, le Sezioni Unite ritenevano come dovesse darsi piena continuità, attesa la sua persistente validità sia in ragione dell’interpretazione logico-sistematica dell’enunciato legale sia della sua piena conformità al significato letterale della norma convenzionale di origine comunitaria che il legislatore ha recepito nell’ordinamento interno con la citata legge di ratifica ed esecuzione n. 300 del 2000, tenuto conto altresì del fatto che, nella stessa giurisprudenza costituzionale, peraltro, si afferma che la verifica del rispetto del principio di determinatezza della norma penale va condotta non già valutando isolatamente il perimetro linguistico del singolo elemento descrittivo dell’illecito, ma raccordandolo con gli altri elementi costitutivi della fattispecie e con la disciplina in cui questa si inserisce (Corte cost., sent. n. 327 del 30/07/2008).
Sotto tale profilo, infatti, la Corte costituzionale ha posto in evidenza, con la decisione testé richiamata, che la individuazione del senso linguistico dell’espressione utilizzata dal legislatore non può ricavarsi dall’atomizzazione delle singole componenti della fattispecie incriminatrice, quanto da una lettura unitaria della formula descrittiva dell’illecito penale, ove il legislatore può includere espressioni sommarie, vocaboli polisensi, clausole generali o concetti elastici.
Per la Corte, deve pertanto escludersi l’esistenza di un “vulnus del parametro costituzionale evocato quando la descrizione complessiva del fatto incriminato consenta comunque al giudice – avuto riguardo alle finalità perseguite dall’incriminazione ed al più ampio contesto ordinamentale in cui essa si colloca – di stabilire il significato di tale elemento mediante un’operazione interpretativa non esorbitante dall’ordinario compito a lui affidato: quando cioè quella descrizione consenta di esprimere un giudizio di corrispondenza della fattispecie concreta alla fattispecie astratta, sorretto da un fondamento ermeneutico controllabile; e, correlativamente, permetta al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata del relativo valore precettivo” (sentenza n. 5 del 2004; in senso analogo, ex plurimis, sentenze n. 34 del 1995, n. 122 del 1993, n. 247 del 1989; ordinanze n. 395 del 2005, n. 302 e n. 80 del 2004)”.
Con la menzionata sentenza n. 98 del 2021, inoltre, la Corte costituzionale non ha affatto negato, ma ha ribadito l’esistenza di un confine – benché non sempre agevolmente tracciabile in relazione alle singole fattispecie – tra l’estensione del contenuto linguistico della disposizione normativa e la sua applicazione analogica, individuando la linea di demarcazione tra i due procedimenti interpretativi nella positiva esplorazione dei “possibili significati letterali” attribuibili alla norma incriminatrice.
In tal modo, nel richiamare il portato del principio di determinatezza del precetto penale, la decisione ora citata si pone, per i giudici di piazza Cavour, nel solco di una risalente tradizione della dottrina penalistica, secondo cui è possibile individuare una linea di demarcazione tra i due modelli ermeneutici in ragione del fatto che, “con l’interpretazione estensiva si resta sempre nell’ambito della norma, pur se dilatata fino al limite della sua massima estensione attraverso l’attribuzione del più ampio significato, fra quelli possibili, ai termini che la compongono, (mentre) con l’analogia si esce dai confini della norma, perché il caso in questione non può essere in alcun modo ricompreso nella medesima, anche se interpretata nella sua massima estensione: esso è diverso dalla fattispecie legale, ma ad essa simile per ratio di disciplina”.
Sulla base delle su esposte considerazioni, al primo quesito le Sezioni unite davano una risposta affermativa, enunciando il seguente principio di diritto: “Integra il reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche previsto dall’art. 316-ter cod. pen. l’indebito conseguimento del diritto alle agevolazioni previdenziali e alla riduzione dei contributi dovuti ai lavoratori collocati in mobilità per effetto della omessa comunicazione dell’esistenza della condizione ostativa prevista dall’art. 8, comma 4-bis, legge 23 luglio 1991, n. 223 (abrogato, a decorrere dal 1 gennaio 2017, dall’art. 2, comma 71, lett. b), legge 28 giugno 2012 n. 92), senza che assumano rilievo, a tal fine, le modalità di ottenimento del vantaggio economico derivante dall’inadempimento dell’obbligazione contributiva”.
Ciò posto, venendo ad esaminare il secondo quesito, ossia quello avente ad oggetto un contrasto interpretativo rilevato in ordine alla qualificazione della natura del reato in caso di ripetute percezioni periodiche di contributi erogati dallo Stato, dagli enti pubblici o dall’Unione europea, le Sezioni unite, dopo avere richiamati gli orientamenti nomofilattici formatisi in subiecta materia, ritenevano come dovesse escludersi un effettivo contrasto giurisprudenziale nel caso di specie poiché, a loro avviso, i richiamati orientamenti convergono entrambi nel ritenere il carattere unitario e a consumazione prolungata dei reato nell’ipotesi in cui la pluralità delle erogazioni sia causalmente riconducibile ad un unico fatto originario, lesivo del medesimo bene tutelato (la corretta distribuzione delle risorse pubbliche) e rappresentato da una iniziale condotta decettiva ovvero di omessa informazione doverosa riguardo all’esistenza di circostanze ostative al conseguimento dei benefici oggetto delle agevolazioni contributive.
Se, dalla stessa formula legislativa, invero, risulta che la condotta incriminata deve avere, nella sua forma attiva od omissiva, una valenza “genetica” rispetto all’atto amministrativo di concessione o erogazione del beneficio economico e collocarsi, pertanto, in un momento cronologicamente anteriore a quest’ultimo, nell’ipotesi oggetto della questione posta dall’ordinanza di rimessione, legata alla presenza di una pluralità di erogazioni che scaturiscono da un unico ed originario comportamento antidoveroso, l’iniziale deliberazione si invera attraverso una condotta omissiva unica, non ulteriormente frazionabile in una pluralità di atti deliberativi specificamente riferibili ad ogni singola percezione delle agevolazioni contributive, essendosi, dunque, al cospetto della prosecuzione degli effetti di una originaria illecita deliberazione, cui si ricollegano, da un lato, l’impossibilità di realizzare l’artificiosa frantumazione di una condotta geneticamente sorta come unitaria e, dall’altro lato, la necessità di tener conto dell’importo complessivo delle somme indebitamente accumulate nel tempo a seguito della iniziale condotta attiva od omissiva.
Per la configurabilità della continuazione, di contro, occorrerebbe ipotizzare una deliberazione autonoma per il conseguimento di ogni singola percezione del relativo beneficio economico, poiché tale istituto presuppone l’unificazione di una pluralità di condotte autonome ciascuna delle quali sia sostenuta da un proprio coefficiente materiale e psicologico dato che l’identità del disegno criminoso è qualcosa di estrinseco rispetto alle singole deliberazioni criminose, richiedendo che le diverse violazioni siano state programmate, sia pure genericamente, sin dal primo momento, nel senso che, fin da quando si commette la prima violazione, già siano state deliberate, almeno nelle loro componenti essenziali, tutte le altre, come facenti parte di un unico programma delittuoso, sicché in tal caso è presupposta una pluralità di reati (ex plurimis, Sez. U, n. 28659 del 18/05/2017; Sez. 3, n. 896 del 17/11/2015).
Conclusivamente, alla luce delle su esposte considerazioni le Sezioni unite fornivano una risposta affermativa pure al secondo quesito, enunciando il seguente principio di diritto: “In tema di indebita percezione di erogazioni pubbliche, nell’ipotesi in cui il diritto alla riduzione dei contributi previdenziali e alle agevolazioni previste per il collocamento dei lavoratori in mobilità dall’art. 8, legge 23 luglio 1991, n. 223 (abrogato, a decorrere dal 1 gennaio 2017, dall’art. 2, comma 71, lett. b), legge 28 giugno 2012 n. 92) sia stato indebitamente conseguito per effetto di una originaria condotta mendace od omissiva, il reato è unitario a consumazione prolungata quando i relativi benefici economici siano concessi o erogati in ratei periodici e in tempi diversi, con la conseguenza che la sua consumazione cessa con la percezione dell’ultimo contributo”.

3. Conclusioni: il reato di indebita percezione (art. 316-ter cod. pen.) sussiste quando si ottiene indebitamente agevolazioni previdenziali per lavoratori in mobilità, a causa della mancata comunicazione di condizioni ostative, e risulta unitario a certe condizioni


Le Sezioni unite, nella pronuncia qui in commento, intervengono in relazione al reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche, così come previsto dall’art. 316-ter cod. pen.[1], risolvendo i seguenti (ravvisati) contrasti ermeneutici: a) “Se nell’ambito applicativo del reato di cui all’art. 316-ter cod. pen. rientri l’indebito conseguimento della riduzione dei contributi previdenziali dovuti ai lavoratori in mobilità assunti dall’impresa, per effetto della mancata comunicazione, da parte di quest’ultima, dell’esistenza di una condizione ostativa prevista dalla legge (art. 8, legge 23 luglio 1991, n. 223 e successive modifiche)”; b) “Se, in caso di reiterate percezioni periodiche di contributi erogati dallo Stato, il reato di cui all’art. 316-ter cod. pen. debba considerarsi unitario, con la conseguenza che la relativa consumazione cessa con la percezione dell’ultimo contributo, ovvero se, in tali casi, sussistano plurimi reati corrispondenti a ciascuna percezione”.
Ebbene, come già accennato in precedenza, codeste Sezioni hanno fornito (seppur con le precisazioni del caso, specie per quanto concerne il secondo quesito) risposta positiva ad ambedue siffatti quesiti, formulando i seguenti principi di diritto: 1) “Integra il reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche previsto dall’art. 316-ter cod. pen. l’indebito conseguimento del diritto alle agevolazioni previdenziali e alla riduzione dei contributi dovuti ai lavoratori collocati in mobilità per effetto della omessa comunicazione dell’esistenza della condizione ostativa prevista dall’art. 8, comma 4-bis, legge 23 luglio 1991, n. 223 (abrogato, a decorrere dal 1 gennaio 2017, dall’art. 2, comma 71, lett. b), legge 28 giugno 2012 n. 92), senza che assumano rilievo, a tal fine, le modalità di ottenimento del vantaggio economico derivante dall’inadempimento dell’obbligazione contributiva”; 2) “In tema di indebita percezione di erogazioni pubbliche, nell’ipotesi in cui il diritto alla riduzione dei contributi previdenziali e alle agevolazioni previste per il collocamento dei lavoratori in mobilità dall’art. 8, legge 23 luglio 1991, n. 223 (abrogato, a decorrere dal 1 gennaio 2017, dall’art. 2, comma 71, lett. b), legge 28 giugno 2012 n. 92) sia stato indebitamente conseguito per effetto di una originaria condotta mendace od omissiva, il reato è unitario a consumazione prolungata quando i relativi benefici economici siano concessi o erogati in ratei periodici e in tempi diversi, con la conseguenza che la sua consumazione cessa con la percezione dell’ultimo contributo”.
Pertanto, per effetto di tale arresti giurisprudenziali, da un lato, l’indebito conseguimento del diritto alle agevolazioni previdenziali e alla riduzione dei contributi dovuti ai lavoratori collocati in mobilità, per effetto della omessa comunicazione dell’esistenza della condizione ostativa prevista dall’art. 8, comma 4-bis, legge 23 luglio 1991, n. 223, integra codesto illecito penale, dall’altro, nell’ipotesi in cui il diritto alla riduzione dei contributi previdenziali e alle agevolazioni previste per il collocamento dei lavoratori in mobilità dall’art. 8, legge 23 luglio 1991, n. 223[2] (abrogato, a decorrere dal 1 gennaio 2017, dall’art. 2, comma 71, lett. b), legge 28 giugno 2012 n. 92[3]) sia stato indebitamente conseguito per effetto di una originaria condotta mendace od omissiva, sempre il reato di cui all’art. 316-ter cod. pen. è considerato unitario e a consumazione prolungata quando i benefici economici vengono concessi o erogati in ratei periodici e in tempi diversi, con la conseguenza che la consumazione dell’illecito penale de quo si considera conclusa con la percezione dell’ultimo contributo.
Tale pronuncia, quindi, deve essere presa nella dovuta considerazione ogni volta sia compiuta una di queste condotte delittuose.
Ad ogni modo, il giudizio in ordine a quanto statuito in codesta sentenza, poiché fa chiarezza su tali questioni sotto il versante giurisprudenziale, non può che essere che positivo.

Note


[1] Ai sensi del quale: “Salvo che il fatto costituisca il reato previsto dall’articolo 640-bis, chiunque mediante l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero mediante l’omissione di informazioni dovute, consegue indebitamente, per sé o per altri, contributi, sovvenzioni, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati dallo Stato, da altri enti pubblici o dalle Comunità europee è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni. La pena è della reclusione da uno a quattro anni se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio con abuso della sua qualità o dei suoi poteri. La pena è della reclusione da sei mesi a quattro anni se il fatto offende gli interessi finanziari dell’Unione europea e il danno o il profitto sono superiori a euro 100.000. Quando la somma indebitamente percepita è pari o inferiore a euro 3.999,96 (4) si applica soltanto la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro da euro 5.164 a euro 25.822. Tale sanzione non può comunque superare il triplo del beneficio conseguito”.
[2] Secondo cui: “1. Per i lavoratori in mobilità, ai fini del collocamento, si applica il diritto di precedenza nell’assunzione di cui al sesto comma dell’art. 15 della legge 29 aprile 1949, n. 264 e successive modificazioni ed integrazioni. 2. I lavoratori in mobilità possono essere assunti con contratto di lavoro a termine di durata non superiore a dodici mesi. La quota di contribuzione a carico del datore di lavoro è pari a quella prevista per gli apprendisti dalla legge 19 gennaio 1955, n. 25 e successive modificazioni. Nel caso in cui, nel corso del suo svolgimento, il predetto contratto venga trasformato a tempo indeterminato, il beneficio contributivo spetta per ulteriori dodici mesi in aggiunta a quello previsto dal comma 4. 3. Per i lavoratori in mobilità si osservano, in materia di limiti di età, ai fini degli avviamenti di cui all’art. 16 della legge 28 febbraio 1987, n. 56 e successive modificazioni ed integrazioni, le disposizioni dell’art. 2 della legge 22 agosto 1985, n. 444. Ai fini dei predetti avviamenti le Commissioni regionali per l’impiego stabiliscono, tenendo conto anche del numero degli iscritti nelle liste di collocamento, la percentuale degli avviamenti da riservare ai lavoratori iscritti nella lista di mobilità. 4. Al datore di lavoro che, senza esservi tenuto ai sensi del comma 1, assuma a tempo pieno e indeterminato i lavoratori iscritti nella lista di mobilità è concesso, per ogni mensilità di retribuzione corrisposta al lavoratore, un contributo mensile pari al cinquanta per cento della indennità di mobilità che sarebbe stata corrisposta al lavoratore. Il predetto contributo non può essere erogato per un numero di mesi superiore a dodici e, per i lavoratori di età superiore a cinquanta anni, per un numero superiore a ventiquattro mesi, ovvero a trentasei mesi per le aree di cui all’art. 7, comma 6. Il presente comma non trova applicazione per i giornalisti. 4-bis. Il diritto ai benefici economici di cui ai commi precedenti è escluso con riferimento a quei lavoratori che siano stati collocati in mobilità, nei sei mesi precedenti, da parte di impresa dello stesso o di diverso settore di attività che, al momento del licenziamento, presenta assetti proprietari sostanzialmente coincidenti con quelli dell’impresa che assume ovvero risulta con quest’ultima in rapporto di collegamento o controllo. L’impresa che assume dichiara, sotto la propria responsabilità, all’atto della richiesta di avviamento, che non ricorrono le menzionate condizioni ostative. 5. Nei confronti dei lavoratori iscritti nella lista di mobilità trova applicazione quanto previsto dall’art. 27 della legge 12 agosto 1977, n. 675. 6. Il lavoratore in mobilità ha facoltà di svolgere attività di lavoro subordinato, a tempo parziale, ovvero a tempo determinato, mantenendo l’iscrizione nella lista (B). 7. Per le giornate di lavoro svolte ai sensi del comma 6, nonché per quelle dei periodi di prova di cui all’art. 9, comma 7, i trattamenti e le indennità di cui agli articoli 7, 11, comma 2, e 16 sono sospesi. Tali giornate non sono computate ai fini della determinazione del periodo di durata dei predetti trattamenti fino al raggiungimento di un numero di giornate pari a quello dei giorni complessivi di spettanza del trattamento (C). 8. I trattamenti e i benefici di cui al presente articolo rientrano nella sfera di applicazione dell’art. 37 della legge 9 marzo 1989, n. 88”.
[3]Alla stregua del quale: “A decorrere dal 1° gennaio 2017, sono abrogate le seguenti disposizioni: (…) b) articoli da 6 a 9 della legge 23 luglio 1991, n. 223”.

Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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