Indennità di disoccupazione per i lavoratori rimasti involontariamente disoccupati: nuova assicurazione sociale per l’impiego (naspi)

Scarica PDF Stampa
La Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego ( naspi) è una indennità mensile di disoccupazione, istituita dall’articolo 1, decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 22 – che sostituisce le precedenti prestazioni di disoccupazione aspi e miniaspi – in relazione agli eventi di disoccupazione involontaria che si sono verificati a decorrere dal 1° maggio 2015.

Il decreto legislativo 4 marzo 2015 n. 22, recante “Disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione involontaria e di ricollocazione dei lavoratori disoccupati,  in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183”, ha dettato nuove norme in materia di ammortizzatori sociali, in conformità con l’art. 38, secondo comma, della Costituzione, il quale sancisce il diritto dei lavoratori a forme di tutela contro la disoccupazione.

In particolare, l’art. 1 del suddetto decreto istituisce, a decorrere dal 1° maggio 2015 – presso la Gestione prestazioni temporanee ai lavoratori dipendenti di cui all’art. 24 della legge 9 marzo 1989, n. 88 e nell’ambito dell’assicurazione Sociale per l’Impiego di cui all’articolo 2 della legge 28 giugno 2012 n. 92 – una indennità mensile di disoccupazione denominata Nuova prestazione di Assicurazione Sociale per l’Impiego  (naspi), avente la funzione di fornire una tutela di sostegno al reddito ai lavoratori con rapporto di lavoro subordinato che abbiano perduto la propria occupazione.

Ai sensi dell’art. 3 del suddetto decreto la naspi è riconosciuta ai lavoratori che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione e che presentino congiuntamente i seguenti requisiti:

  1. A) stato di disoccupazione involontario;
  2. B) requisito contributivo;
  3. C) requisito lavorativo.

Relativamente al requisito dello stato di disoccupazione involontario “In attesa dell’istituzione del portale nazionale delle politiche del lavoro di cui al d. Lgs. N. 150 del 2015, si considerano disoccupati i lavoratori privi di impiego, che dichiarano al Centro per l’Impiego la propria immediata disponibilità allo svolgimento di attività lavorativa ed alla partecipazione alle misure di politica attiva del lavoro.

Sono esclusi, pertanto, i lavoratori il cui rapporto di lavoro sia cessato a seguito di dimissioni o di risoluzione consensuale, salvo i casi di seguito specificati:

  1. Dimissioni: il lavoratore ha diritto all’indennità nelle ipotesi di dimissioni durante il periodo tutelato di maternità – da 300 giorni prima della data presunta del parto fino al compimento del primo anno di vita del figlio – ovvero di dimissioni per giusta causa;
  2. Risoluzione consensuale: non impedisce il riconoscimento della prestazione:
  • se intervenuta nell’ambito della procedura conciliativa presso la Direzione Territoriale del Lavoro, secondo le modalità previste all’art. 7 della legge n. 604 del 1966, come sostituito dall’art. 1, comma 40 della legge di riforma del mercato del lavoro (Legge 28 giugno 2012 n.92);
  • nell’ipotesi di licenziamento con accettazione dell’offerta di conciliazione di cui all’art.6, comma 1, del decreto legislativo n.23 del 2015, proposta dal datore di lavoro entro i termini di impugnazione stragiudiziale del licenziamento (sessanta giorni dalla comunicazione in forma scritta del licenziamento, ex art. 6 della legge n.604 del 1966);
  • qualora intervenga a seguito del rifiuto del lavoratore al proprio trasferimento ad altra sede della stessa azienda distante oltre 50 km dalla residenza del lavoratore e/o mediamente raggiungibile in 80 minuti o oltre con i mezzi di trasporto pubblici.

Per quanto concerne il requisito contributivo “Sono necessarie almeno tredici settimane di contribuzione contro la disoccupazione nei quattro anni precedenti l’inizio del periodo di disoccupazione. Per contribuzione utile si intende anche quella dovuta ma non versata. Ai fini del diritto sono valide tutte le settimane retribuite, purché risulti erogata o dovuta per ciascuna settimana una retribuzione non inferiore ai minimali settimanali (legge n. 638/1983 e legge n. 389/1989).Non sono considerati utili, pur se coperti da contribuzione figurativa:

– i periodi di malattia e infortunio sul lavoro, solo nel caso non vi sia integrazione della retribuzione da parte del datore di lavoro, nel rispetto del minimale retributivo;

-i periodi di cassa integrazione straordinaria e ordinaria con sospensione dell’attività a zero ore;

– i periodi interessati da contratti di solidarietà, risalenti nel tempo ed utilizzati in concreto a zero ore;

– i periodi di assenza per permessi e congedi fruiti dal lavoratore che sia coniuge convivente, genitore, figlio convivente, fratello o sorella convivente di soggetto con handicap in situazione di gravità;

– i periodi di aspettativa non retribuita in relazione a funzioni pubbliche elettive o cariche sindacali, ai sensi dell’art.31 della legge n.300 del 1970;

-i periodi di lavoro all’estero presso Stati con i quali l’Italia non ha stipulato accordi bilaterali in tema di assicurazione contro la disoccupazione.

Circa il requisito lavorativo, “sono necessarie almeno trenta giornate di lavoro effettivo, a prescindere dal minimale contributivo, nei dodici mesi che precedono l’inizio del periodo di disoccupazione. Per giornate di effettivo lavoro si intendono quelle di effettiva presenza al lavoro, a prescindere dalla loro durata oraria.”

Volume consigliato

Il lavoro nero

Il presente volume intende affrontare le diverse sfaccettature del lavoro nero, cercando di guidare il professionista nelle problematiche, di carattere non solo nazionale ma altresì transfrontaliero, che lo caratterizzano. Infatti, il fenomeno è assai complesso e può presentarsi sotto molteplici forme ed aspetti, ponendosi sempre come vulnus di diritti individuali, sociali ed economici: il lavoro non dichiarato ha gravi implicazioni per i lavoratori interessati che si trovano spesso a dovere accettare condizioni di lavoro assai precarie, con retribuzioni inferiori rispetto a quelle contrattual-collettive, con violazioni dei diritti individuali e ridotta tutela in materia di sicurezza sul lavoro, a non avere opportunità di sviluppo delle proprie competenze. Il lavoro nero determina quindi danni sia al lavoratore, sia a tutta la società, per il minor gettito fiscale e dei contributi e all’intera economia per l’evidente distorsione che determina alla concorrenza.Il testo non è una mera ricognizione di commento a disposizioni di legge, ma ha in sé il valore aggiunto di avere sempre sullo sfondo il valore del lavoro e della persona. Michele Di Lecce Magistrato, dal giugno 2003 a febbraio 2012 é stato Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Alessandria. Dal febbraio 2012 al dicembre 2015 é stato Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Genova e ha assunto anche l’incarico di Procuratore Distrettuale Antimafia e Antiterrorismo per il distretto di Genova. E’ stato professore a contratto di Diritto Giurisprudenziale del Lavoro presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Pavia, nonché docente di Diritto Penale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università del Piemonte Orientale. Ha fatto parte di commissioni ministeriali per la riforma del sistema sanzionatorio penale e del diritto penale del lavoro. Fa parte di Comitati Scientifici di riviste giuridiche e tecniche. È stato di recente nominato Garante di Ateneo dall’Università degli studi di Genova per gli anni accademici 2017-2021.Corrado Marvasi, Avvocato, attualmente si dedica alla ricerca in campo giuridico, cercando di coniugare l’esperienza maturata in tanti anni di professione con l’approfondimento del diritto nei suoi vari settori. Autore di diverse monografie in tema di diritti reali, di espropriazione per pubblica utilità, di mandato e di carattere processualistico.

Michele Di Lecce, Corrado Marvasi | 2019 Maggioli Editore

56.00 €  44.80 €

Decadenza dal diritto

Sia ex art. 47 D.P.R. 639/1970 che ai sensi dell’articolo 4 del D.L. n.384 del 19.9.1992 convertito nella L.438/92.

Ai sensi della suindicata disposizione, il termine decadenziale decorre, alternativamente: a) dalla data di comunicazione della decisione sul ricorso amministrativo proposto dall’assicurato avverso il provvedimento, esplicito o implicito, negativo sull’istanza di prestazione, b) dalla data di scadenza del termine stabilito per la pronunzia della predetta decisione, ovvero c) dalla data di scadenza dei termini prescritti per l’esaurimento del procedimento amministrativo, computati a decorrere dalla data di presentazione della richiesta di prestazione. L’art. 6 del D.L. n. 103/91 conv. Nella L. N. 166/91, la cui legittimità è stata riconosciuta dalla Corte Costituzionale (sent. N. 246/92), ha espressamente affermato la natura sostanziale di tale decadenza, prevedendo che essa determina l’estinzione del diritto ai ratei pregressi e l’inammissibilità della relativa domanda giudiziale. La stessa norma, inoltre, dispone che “in caso di mancata proposizione del ricorso amministrativo, il termine decorre dall’insorgenza del diritto ai singoli ratei”.

L’art. 7 della legge n. 533/73 prevede che le domande di prestazione rivolte agli Istituti assicuratori si intendono respinte con il decorso di 120 giorni dalla data della loro presentazione, senza che l’Ente si sia pronunciato (silenzio-rifiuto). L’art. 46, comma 5, della legge n. 88/89 recante disposizioni in materia di contenzioso amministrativo dispone che il termine per proporre il ricorso amministrativo avverso le determinazioni dell’inps, implicite o esplicite, in materia di prestazioni è di 90 giorni, e, al comma 6, che la decisione deve essere emessa nei 90 giorni successivi, decorsi i quali l’interessato può proporre l’azione giudiziaria.

Come rilevato dalla Corte di Cassazione (sent. 30.10.2003, n. 16372), dal quadro normativo sopra delineato risulta che in tanto può farsi riferimento alle varie decorrenze previste dal citato art. 47 del D.P.R. n. 639/70, in quanto nella pendenza del procedimento amministrativo, la cui massima estensione è di 300 giorni (120 giorni per la formazione del silenzio rifiuto; 90 giorni per la proposizione del ricorso amministrativo; 90 giorni, decorrenti dalla proposizione di quest’ultimo per la decisione da parte dell’organo adito; totale 300 giorni), l’interessato abbia proposto il prescritto ricorso amministrativo.

In questo caso tale decorrenza deve essere individuata nella data di decisione, espressa o tacita (silenzio-rigetto), del ricorso amministrativo, solo quando tale decisione sia intervenuta prima della scadenza dei termini complessivamente prescritti per l’esaurimento dell’iter amministrativo.

Se invece entro i suddetti termini tale decisione non è configurabile, come accade quando il ricorso amministrativo avverso la determinazione negativa, esplicita o implicita, sulla domanda dell’interessato sia stato proposto oltre il termine di 90 giorni previsto, ma pur sempre all’interno del termine massimo previsto per la chiusura dell’iter amministrativo, il termine decadenziale prende comunque a decorrere dalla scadenza dei termini stessi, ossia, appunto, dal 301esimo giorno successivo alla richiesta di prestazione. Ciò in quanto, nel presupposto del compimento da parte dell’interessato degli atti necessari per il perfezionamento del procedimento amministrativo (domanda amministrativa e ricorso avverso la determinazione in tutto o in parte negativa), la decorrenza del termine decadenziale non può comunque essere differita oltre la data in cui il procedimento stesso deve improrogabilmente concludersi.

Se invece l’interessato non ha mai proposto il ricorso amministrativo, ovvero ha proposto tale ricorso dopo che il procedimento amministrativo si è virtualmente esaurito (per la scadenza dei termini prescritti per il suo espletamento) il termine decadenziale decorre dall’insorgenza del diritto ai singoli ratei, come previsto appunto dall’art. 6 del D.L. n. 103/91 conv. In legge n. 166/91.

Infatti, l’espressione “in caso di mancata proposizione del ricorso amministrativo contenuta nel citato art. 6 della legge n. 166/91, non può essere interpretata in senso restrittivo, e quindi essere riferita al solo caso di materiale omissione di tale ricorso, ma deve essere intesa nel senso di ricomprendere anche i casi in cui il ricorso stesso sia stato presentato oltre i termini previsti per l’esaurimento dell’iter amministrativo. Diversamente, si finirebbe con il riconoscere all’interessato la facoltà di differire ad libitum la data di decorrenza del termine decadenziale, mediante la presentazione, meramente strumentale, del ricorso amministrativo, anche quando siano decorsi i termini entro i quali il procedimento amministrativo deve essere definitivamente espletato (così appunto Cass. N. 16372/03 cit.; v. Pure Cass. N. 3276/04).

Ciò peraltro con evidente vanificazione delle finalità perseguite dal termine stesso, previsto dal legislatore non soltanto in funzione della esigenza, di carattere generale, di certezza delle situazioni giuridiche, ma anche in considerazione dello specifico “interesse pubblico alla definitiva certezza delle determinazioni che concernono le erogazioni di spese gravanti su pubblici bilanci … , considerato il carattere parafiscale della finanza degli enti pubblici gestori delle assicurazioni sociali obbligatorie, che si connota per l’esistenza di un bilancio di spese, alimentato con prelievi obbligatori (contributi) …” (cfr. Cass. Lav. Sent. N. 6543/94); interesse in ragione del quale la stessa giurisprudenza considera la suddetta decadenza rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo, ed addirittura irrinunciabile da parte dell’istituto (cfr. Sempre Cass n. 6543/94 cit.).

Se l’azione è proposta oltre il termine annuale, l’interessato incorre nella decadenza, la quale estingue tutti i crediti anteriori all’anno computato a ritroso dalla data di intempestiva proposizione della domanda giudiziale.

I termini decadenziali vanno intesi, sulla scorta di quanto disposto dall’art.6 del D.L. 106/91, come termini di decadenza sostanziale dal diritto, oltre che dall’azione.

Improponibilità del ricorso

Si rammenta che ai sensi dell’articolo 443 c.p.c. “la domanda relativa alle controversie in materia di previdenza e assistenza obbligatorie di cui al primo comma dell’articolo 442 non è procedibile se non quando siano esauriti i procedimenti prescritti dalle leggi speciali per la composizione in sede amministrativa o siano decorsi i termini ivi fissati per il compimento dei procedimenti stessi o siano, comunque, decorsi centottanta giorni dalla data in cui è stato proposto il ricorso amministrativo”..

La Suprema Corte di Cassazione ha da tempo evidenziato (per tutte Cass. Sez. Lav. 24.6.2004 n.11756) che “in tema di assistenza e previdenza, la preventiva presentazione della domanda amministrativa costitutisce un presupposto dell’azione, mancando il quale la domanda giudiziaria non è improcedibile, con conseguente applicazione degli art.8 L.11 agosto 1973 n.533 e 148 disp. Att. C.p.c, ma improponibile, determinandosi in tal caso una TEMPORANEA CARENZA DI GIURISDIZIONE, RILEVABILE IN QUALSIASI STATO E GRADO DI GIUDIZIO, senza che tale difetto possa essere sanato in relazione alla domanda amministrativa concernente prestazione previdenziale diversa, ancorché  compatibile con quella poi richiesta in sede giudiziaria; ne consegue che, integrando la previa presentazione della domanda amministrativa, non un elemento costitutivo della domanda proposta in sede giudiziaria [..], ma requisito di procedibilità (in caso di non esaurimento del procedimento amministrativo) o di proponibilità (in caso di mancanza della domanda amministrativa), la circostanza che l’Ente tenuto alla prestazione non abbia tempestivamente dedotto la mancanza della domanda amministrativa non preclude la possibilita’ di proporre l’eccezione stessa in appello ed al giudice di rilevare d’ufficio il temporaneo difetto di giurisdizione”.

In forza dell’art.38, co.5 del D.L.78/2010, che ha previsto il potenziamento e l’estensione dei servizi telematici, dal 01.10.2010 le istanze all’ente di previdenza possono essere inviate solo in via telematica, con la conseguenza che sono da ritenersi tamquam NON esset le richieste formulate con altra modalità (circolari nn. 75 del 30.7.10, n. 141/2011, n. 110 del 2011).

In proposito anche il TAR Campania, sez. III, con la sent. 1353 del 08/3/13, ha chiarito, sebbene in relazione ad altra prestazione previdenziale, che è legittima la conseguenza negativa che deriva al richiedente che abbia formulato la domanda amministrativa in modo inidoneo.

Tale modalità oltre a garantire maggiore celerità nell’attività amministrativa, garantisce anche la certezza della data di presentazione, della ricezione della domanda, del contenuto dell’istanza e della documentazione ad essa allegata.

 

Maddalena Autiero

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento