Infezione a due anni dall’intervento: manca il nesso di causa

Non c’è nesso di causalità tra l’intervento chirurgico e l’infezione batterica emersa due anni dopo.

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Non c’è nesso di causalità tra l’intervento chirurgico e l’infezione batterica emersa due anni dopo. Per approfondire questa materia, consigliamo il volume Manuale pratico operativo della responsabilità medica

Tribunale di Busto Arsizio -sez. III civ.- sentenza n. 1184 del 15-10-2024

SENTENZA_TRIBUNALE_DI_BUSTO_ARSIZIO_N._1184_2024_-_N._R.G._00000671_2022_DEL_14_10_2024_PUBBLICATA_IL_15_10_2024.pdf 234 KB

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Indice

1. I fatti: l’infezione della paziente


Una signora conveniva in giudizio la struttura sanitaria dove aveva eseguito un’operazione chirurgica nonché il sanitario a capo della relativa equipe medica, al fine di chiedere il risarcimento dei danni subiti a causa dell’infezione che – a suo dire – aveva avuto a causa dell’intervento.
In particolare, l’attrice esponeva che nel maggio 2015, nel compiere attività sportiva, aveva avuto una rottura del legamento crociato anteriore pertanto nell’ottobre dello stesso anno si era sottoposta ad un intervento chirurgico, all’esito del quale veniva dimessa senza alcuna complicazione.
Tuttavia, dopo l’intervento la stessa avvertiva dolori al ginocchio operato, sino a quando nel novembre 2017, si recava in pronto soccorso ove scopriva di avere una gonalgia al ginocchio dovuta all’intervento di ricostruzione del crociato anteriore che aveva subito. Inoltre, durante detto accesso al pronto soccorso, la paziente veniva sottoposta ad un esame colturale della ferita chirurgica, che risultava positivo per un batterio tipico da infezione nocosomiale. Un mese dopo, a causa della fuoriuscita di liquido dalla ferita, si recava nuovamente al pronto soccorso, dove i medici accertavano una fuoriuscita parziale di frammenti della vita che le era stata installata durante l’operazione chirurgica al crociato. Infine, nel febbraio 2018, non vedendo miglioramenti, l’attrice era costretta a sottoporsi ad un nuovo intervento per sistemare la complicanza settica dovuta alla ricostruzione del legamento.
Secondo la paziente, le suddette problematiche, che comportavano una mobilità ridotta dell’arto inferiore destro, erano imputabili alle condotte del medico a capo dell’equipe e quindi della struttura sanitaria dove aveva eseguito l’operazione.
A seguito delle difese svolte dalle convenute, che lamentavano una eccessiva genericità della condotta imputabile alle convenute medesime per come esposta dall’attrice, quest’ultima precisava che la responsabilità medica era da ravvisarsi nella mancata applicazione dei protocolli minimi di igiene previsti per garantire la sterilità della sala operatoria. Per approfondire questa materia, consigliamo il volume Manuale pratico operativo della responsabilità medica

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2. Le valutazioni del Tribunale


Per poter decidere il caso concreto, il giudice ha passato in rassegna i principi in materia di responsabilità da infezione nocosomiale e chiarito come deve essere regolato l’onere della prova.
Secondo il giudice, in tema di infezioni nosocomiali, il primo onere della prova grava sul paziente, il quale deve dimostrare – anche presuntivamente – di aver contratto l’infezione in ambito ospedaliero.
A fronte di tale prova, la struttura può liberarsi dalla conseguente responsabilità, fornendo la prova liberatoria di aver adottato tutte le misure utili alla prevenzione delle infezioni. In particolare, mediante l’indicazione: a) dei protocolli relativi alla disinfezione, disinfestazione e sterilizzazione di ambienti e materiali; b) delle modalità di raccolta, lavaggio e disinfezione della biancheria; c) delle forme di smaltimento dei rifiuti solidi e dei liquami; d) delle caratteristiche della mensa e degli strumenti di distribuzione di cibi e bevande; e) delle modalità di preparazione, conservazione ed uso dei disinfettanti; f) della qualità dell’aria e degli impianti di condizionamento; g) dell’avvenuta attivazione di un sistema di sorveglianza e di notifica; h) dei criteri di controllo e di limitazione dell’accesso ai visitatori; i) delle procedure di controllo degli infortuni e della malattie del personale e delle profilassi vaccinali; j) del rapporto numerico tra personale e degenti; k) della sorveglianza basata sui dati microbiologici di laboratorio; l) della redazione di un “report” da parte delle direzioni dei reparti, da comunicarsi alle direzioni sanitarie al fine di monitorare i germi patogeni-sentinella; m) dell’orario delle effettiva esecuzione delle attività di prevenzione del rischio.
In particolare, secondo il giudice, l’accertamento della responsabilità della struttura sanitaria dal punto di vista del nesso di causalità di cui sopra, dev’essere effettuato sulla base del criterio temporale (relativo al numero di giorni trascorsi tra le dimissioni dall’ospedale e la contrazione della patologia), del criterio topografico (correlato all’insorgenza dell’infezione nel sito chirurgico interessato dall’intervento, in assenza di patologie preesistenti e di cause sopravvenute eziologicamente rilevanti) e del criterio clinico (in ragione del quale, a seconda della specificità dell’infezione, dev’essere verificato quali misure di prevenzione sarebbe stato necessario adottare da parte della struttura sanitaria).
Per quanto riguarda, invece, l’onere probatorio gravante sulla struttura sanitaria, per andare esente da responsabilità il dirigente apicale è tenuto a dimostrare di avere indicato le regole cautelari da adottarsi, in attuazione del proprio potere-dovere di sorveglianza e verifica; il direttore sanitario di averle attuate e avere organizzato gli aspetti igienico e tecnicosanitari, vigilando altresì sull’attuazione delle indicazioni fornite; il dirigente di struttura complessa, esecutore finale dei protocolli e delle linee-guida, di avere collaborato con gli specialisti microbiologo, infettivologo, epidemiologo e igienista, essendo tenuto ad assumere precise informazioni sulle iniziative degli altri medici ovvero a denunciare le eventuali carenze della struttura.

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3. La decisione del Tribunale


Nel caso di specie, secondo il giudice, la parte attrice ha sostenuto che l’infezione batterica, anche se si è manifestata a due anni di distanza dall’intervento di ricostruzione del legamento crociato anteriore della paziente, sarebbe imputabile alla non corretta esecuzione delle procedure di sterilizzazione durante il predetto intervento, in quanto il batterio isolato dalla ferita chirurgica due anni dopo ha origine solo nocosomiale, dopo il predetto intervento la paziente non ha subito altri interventi e la struttura sanitaria non aveva dato prova della corretta sterilizzazione per prevenire infezioni.
Secondo il giudice, però, le predette valutazioni di parte attrice non sono sufficienti per ritenere provato il nesso di causalità tra l’infezione subita dalla paziente e la sua degenza nella struttura sanitaria convenuta.
Infatti, come accertato dai CTU, qualunque infezione batterica subita da una persona può raggiungere il sito di un pregresso intervento chirurgico. Infatti, queste infezioni sono prevalentemente causate da batteri che possono essere presenti nell’intestino o sulla pelle e poi trasmessi per via aerea o contaminazione ambientale. Ma quando nell’organismo sono presenti alterazioni dei tessuti, come nel caso in un intervento chirurgico, dette alterazioni diventano un sito di attacco per i batteri.
In secondo luogo, i CTU hanno dato rilievo alla distanza temporale tra l’intervento e l’infezione e di contro alla rapidità di diffusione di quest’ultima: infatti, nel novembre 2017, quando la paziente si sottopose ad un primo tampone, non vi erano segni clinici di un’infezione in atto, né risultarono alterazioni dei valori sanguigni a seguito di esami ematici. Secondo i periti d’ufficio, ciò è indice di una infezione insorta di recente, piuttosto che di una infezione cronica, insorta due anni prima. Inoltre, il veloce peggioramento delle condizioni cliniche avuto dalla paziente tra ottobre e novembre 2017 (dopo che per due anni non aveva avuto alcun sintomo), dimostra che l’infezione è iniziata alla comparsa dei sintomi nei mesi invernali del 2017.
In considerazione di ciò, il giudice ha ritenuto che non vi è un’alta probabilità di correlazione tra l’intervento chirurgico eseguito nell’ottobre 2015 e l’infezione emersa due anni dopo a carico della paziente, che invece può essere stata contratta anche al di fuori della struttura sanitaria.
Conseguentemente, il giudice ha ritenuto non adempiuto l’onere probatorio gravante sulla paziente attrice circa il predetto nesso di causalità ed ha rigettato la domanda risarcitoria, condannandola alla refusione delle spese di lite a ciascuna delle convenute.

Avv. Muia’ Pier Paolo

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