Giurisprudenza amministrativa sulla natura anticipatoria e preventiva dell’informazione antimafia
Il tema della certificazione antimafia merita di essere attenzionato, soprattutto con riferimento alla fattispecie della informazione interdittiva prefettizia. L’azione del Prefetto presenta aspetti di indubbia problematicità giuridica che appresso verranno esaminati attraverso il percorso interpretativo che ha visto protagonista il Giudice Amministrativo anche con pronunce recenti che emergono per la loro importanza.
E’ opportuno partire dalla lettera della norma, il comma III dell’art. 84 cristallizza la peculiarità della informazione in argomento laddove incardina nella medesima anche “l’attestazione della sussistenza o meno di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate”. Si tratta, evidentemente, di un accertamento volto a salvaguardare la Pubblica Amministrazione da rapporti contrattuali con imprese soggette ad infiltrazione mafiosa. Una disciplina essenzialmente anticipatoria, preventiva e che pertanto si basa su un giudizio discrezionale finalizzato ad operare una sorta di giudizio prognostico circa la paventata infiltrazione mafiosa dell’impresa sottoposta al controllo antimafia.
Argomento ricorrente nei giudizi di impugnazione delle informazioni interdittive prefettizie è rappresentato dal discusso discrimine tra la probabilità di infiltrazione mafiosa e il mero sospetto di condizionamento. In altre parole molto spesso i provvedimenti interdittivi sono stati criticati per il carattere asseritamente inquisitorio. In effetti la questione ha meritato l’attenzione della giurisprudenza e della dottrina in merito, poiché si tratta di provvedimento con un alto tasso di discrezionalità e la necessità di individuare un equilibrio di contemperamento tra l’interessi dell’impresa e quelli pubblici.
Il Consiglio di Stato con la recentissima sentenza n. 2343 del 5 aprile 2018, esemplare quanto a chiarezza espositiva, ha sgombrato il campo da dubbi circa la non necessità di provare dei fatti, ma semmai di accertare la presenza di una serie di indizi in base ai quali sia plausibile ritenere la sussistenza di un collegamento con organizzazioni mafiose o di un possibile condizionamento da parte di queste.
Del resto, come peraltro confermato dalla giurisprudenza amministrativa sul punto, il condizionamento e l’infiltrazione mafiosa possono prescindere da fatti formalmente e sostanzialmente illeciti. Al contrario, l’osservazione sociale del fenomeno mafioso e i dati di comune esperienza emersi dalle attività investigative individuano tra le caratteristiche dell’infiltrazione mafiosa anche comportamenti in sé legittimi, quali la frequentazione di soggetti coinvolti nelle organizzazioni mafiose.
E’ opportuno sottolineare, inoltre, che il provvedimento non deve basarsi sull’accertamento probatorio della già avvenuta infiltrazione mafiosa, bensì, diversamente, sul pericolo di ingerenza. In questo senso la potenziale rilevanza penale delle fattispecie oggetto dell’interdittiva non deve trarre in inganno, la valutazione del Prefetto non deve essere accomunata alle dinamiche logiche della formazione della prova penalistica.
Si tratta della valutazione di elementi tipicamente sintomatici del tentativo di infiltrazione. E’ evidente, ancora, come la valutazione debba sostanziarsi in una valutazione del complessivo quadro indiziario, perché, al contrario, una valutazione “atomistica” dei singoli elementi di fatto non permetterebbe una valutazione equilibrata. La lettura del singolo fatto rischierebbe di schiacciare la valutazione sul versante “inquisitorio” o, diversamente di ignorare la sussistenza di tentatiti di infiltrazione. Si tratta di esiti contrapposti ma entrambi errata di effettuare la valutazione.
In merito il Consiglio di Stato ha statuito efficacemente (cfr. sentenza 4414 del 4.9.2013) affermando che “gli elementi raccolti dall’interdittiva antimafia non vanno considerati separatamente, spettando all’interprete di stabilire se sia configurabile un quadro indiziario complessivo dal quale possa ritenersi attendibile l’esistenza di un condizionamento da parte della criminalità organizzata”.
È doveroso a questo punto delineare i rapporti tra la spiccata discrezionalità della interdittiva in argomento e del sindacato del Giudice Amministrativo. Dato per scontato, alla luce delle precedenti osservazioni, che il provvedimento del Prefetto potrà limitarsi non a fornire la prova, ma a adempiere alla regola causale del cosiddetto “più probabile che non” (cfr. sentenza citata 2343 del 2018 e 1743 del 3.5.2016), la impossibilità per il Giudice di scendere nel merito non elide totalmente il sindacato del Giudice medesimo.
La valutazione alla base del provvedimento interdittivo dovrà, infatti effettuare una ricostruzione del quadro indiziario che “deve dar conto, in modo organico e coerente, ancorché sintetico, di quei fatti aventi le caratteristiche di gravità, precisione e concordanza”. Il richiamo alla contemporanea presenza dei tre requisiti di gravità, precisione e concordanza cosi come esplicitati nell’art. 192 del Codice di Procedura Penale, relativamente all’accertamento di una fatto tramite la cosiddetta prova indiziaria, nulla toglie alla puntualizzazioni prima espresse riguardo alla natura anticipatoria e cautelare del provvedimento interdittivo. D’altro canto, però, questi criteri saranno i parametri di riferimento per il prudente apprezzamento del Giudice.
Il Giudice medesimo, infatti, è chiamato a valutare la logicità dell’iter che ha portato l’Autorità Prefettizia ad attribuire determinati significati agli elementi di fatto, incardinandoli in un iter logico giuridico che l’ha indotta a impedire alle pubbliche amministrazioni o agli enti pubblici di essere coinvolte con i soggetti interessati dell’informazione interdittiva.
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