Indice:
- Il fatto
- I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
- Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
- Conclusioni
Il fatto
La Corte di Appello di Napoli respingeva una domanda formulata per una liquidazione a titolo di equa riparazione dovuta ad ingiusta sottoposizione alla misura cautelare degli arresti domiciliari in un lasso temporale intercorrente tra il 2008 e il 2010.
I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Avverso il provvedimento summenzionato proponeva ricorso per Cassazione il difensore dell’istante deducendo vizio di motivazione per illogicità manifesta in riferimento ai presupposti del diritto all’equa riparazione per ingiusta detenzione.
In particolare, il ricorrente sosteneva che la Corte di Appello avrebbe errato nel ritenere che le regole valutative previste per l’accertamento della responsabilità siano diverse e più rigorose rispetto a quelle previste per l’applicazione delle misure cautelari, osservandosi al contempo che, introducendo l’art. 273, comma 1-bis, cod. proc. pen. il legislatore avrebbe reso applicabili al sistema cautelare le disposizioni generali sulle prove imponendo così, anche nella materia cautelare, l’osservanza delle regole di esclusione e valutazione probatoria proprie del giudizio di merito ed equiparando nella sostanza il valore dei gravi indizi di colpevolezza a quello della prova.
Ciò posto, era altresì rilevato che, nel doveroso rispetto per le strategie difensive, occorre usare particolare cautela nel valutare come colpa ostativa al riconoscimento della riparazione per ingiusta detenzione le scelte processuali adottate dall’indagato dopo la perdita della libertà, oltre che ci si lamentava del fatto che, nel ritenere la condotta dell’imputato idonea a condizionare e mantenere la privazione della libertà personale, la Corte di Appello, ad avviso della difesa, non avrebbe considerato le ragioni poste a fondamento della assoluzione, che non ha trovato causa in elementi di prova acquisiti dopo l’esecuzione della misura o nel corso del giudizio, bensì nella compiuta lettura del compendio indiziario quale risultava già nel momento della applicazione della cautela.
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Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
Il ricorso era rigettato per le seguenti ragioni.
Si deduceva a tal proposito innanzitutto che, per giurisprudenza consolidata, il giudizio per la riparazione dell’ingiusta detenzione è connotato da totale autonomia rispetto al giudizio penale perché ha lo scopo di valutare se l’imputato, con una condotta gravemente negligente o imprudente, abbia colposamente indotto in inganno il giudice in relazione alla sussistenza dei presupposti per l’adozione di una misura cautelare, fermo restando che, ai fini della sussistenza del diritto all’indennizzo, può anche prescindersi dalla sussistenza di un “errore giudiziario“, venendo in considerazione soltanto l’antinomia strutturale tra custodia e assoluzione, o quella funzionale tra durata della custodia ed eventuale misura della pena; con la conseguenza che, in tanto la privazione della libertà personale potrà considerarsi “ingiusta” in quanto l’incolpato non vi abbia dato o concorso a darvi causa attraverso una condotta dolosa o gravemente colposa, giacché, altrimenti, l’indennizzo verrebbe a perdere ineluttabilmente la propria funzione riparatoria, dissolvendo la ratio solidaristica che è alla base dell’istituto (così: Sez. U., n. 51779 del 28/11/2013) trattandosi di una valutazione che va effettuata ex ante e ricalca quella eseguita al momento dell’emissione del provvedimento restrittivo, ed è volta a verificare: in primo luogo, se dal quadro indiziario a disposizione del giudice della cautela potesse desumersi l’apparenza della fondatezza delle accuse, pur successivamente smentita dall’esito del giudizio; in secondo luogo, se a questa apparenza abbia contribuito il comportamento extraprocessuale e processuale tenuto dal ricorrente (cfr. Sez. U, n. 32383 del 27/05/2010).
Oltre a ciò, era anche fatto presente che, nel valutare la sussistenza del diritto alla riparazione, per la Corte di legittimità, occorre muoversi all’interno di queste coordinate ermeneutiche sicché il richiamo, operato dal ricorrente, alle regole di valutazione degli indizi proprie del giudizio cautelare, che si vorrebbero equiparabili alle regole di valutazione della prova proprie del giudizio di merito, non era reputato pertinente.
Chiarito tale aspetto, gli Ermellini evidenziavano, una volta fatto presente che la Corte territoriale aveva negato il diritto all’indennità di cui all’art. 314 cod. proc. pen. individuando quali condotte caratterizzate da colpa grave e perciò ostative al riconoscimento di tale diritto: da un lato, l’esistenza di rapporti di natura ambigua con soggetti coinvolti nel traffico di stupefacenti e, più in generale in attività illecite; dall’altro, la scelta di non chiarire la propria posizione rispetto alle accuse e di non fornire in relazione ad esse «giustificazioni o spiegazioni di alcun tipo», come il ragionamento sviluppato in sede di merito apparisse essere logicamente esaustivo, non contraddittorio e scevro dai vizi che gli vengono addebitati perché coerente con i principi più volte enunciati dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui l’utilizzo di un linguaggio criptico di natura convenzionale, che sottintende un riferimento a cose diverse da quelle formalmente menzionate o, intenzionalmente, non esplicita di cosa si parli, può costituire colpa grave idonea a indurre in inganno l’autorità inquirente, tanto più se l’equivocità della situazione è mantenuta con la scelta di non fornire spiegazioni nell’interrogatorio di garanzia.
Oltre a ciò, era altresì rammentato che, secondo un consolidato e condivisibile orientamento giurisprudenziale, il diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione non spetta se l’interessato ha tenuto consapevolmente e volontariamente una condotta tale da creare una situazione di doveroso intervento dell’autorità giudiziaria e neppure se tale condotta, per evidente negligenza, imprudenza, trascuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti o norme disciplinari, ha creato una situazione tale da costituire prevedibile ragione di un intervento dell’autorità giudiziaria che si sostanzi nell’adozione di un provvedimento restrittivo della libertà personale o nella mancata revoca di uno già emesso (Sez. 4, n. 43302 del 23/10/2008) così come, nell’accertare la sussistenza della colpa grave ostativa il giudice deve valutare la condotta tenuta dall’interessato sia anteriormente che successivamente alla sottoposizione alla misura e, più in generale, al momento della legale conoscenza della pendenza di un procedimento a suo carico (Sez. Unite, n. 32383 del 27/5/2010) posto che è stata ritenuta preclusiva al riconoscimento del diritto, proprio in ragione della “ratio” solidaristica posta alla base dell’istituto, la condotta di un soggetto che aveva reso dichiarazioni ambigue in sede di interrogatorio di garanzia, omettendo di fornire spiegazioni sul contenuto delle conversazioni telefoniche intrattenute con persone coinvolte in un traffico di sostanze stupefacenti, alle quali, con espressioni “travisanti“, aveva sollecitato in orario notturno l’urgente consegna di beni (Sez. Unite, n. 51779 del 28/11/2013).
Orbene, in coerenza con tale impostazione e così concludendo le argomentazioni che avevano portato la Cassazione alla reiezione del ricorso nel caso di specie, era infine notato come la giurisprudenza di legittimità abbia ribadito in più occasioni che costituisce colpa grave, idonea a impedire il riconoscimento dell’equo indennizzo, l’utilizzo, nel corso di conversazioni telefoniche, da parte dell’indagato di frasi in “codice“, effettivamente destinate a occultare un’attività illecita, anche se diversa da quella oggetto dell’accusa e per la quale era stata disposta la custodia cautelare, giugendosi a tali conclusioni, ad esempio, in un caso in cui l’interessato aveva documentato che le frasi in codice utilizzate in conversazioni telefoniche erano riferibili al commercio di monili e aveva giustificato l’utilizzo del linguaggio criptico con la natura fiscalmente irregolare della sua attività (Sez. 4, n. 48029 del 18/9/2009) ed anche in un caso, non dissimile da quello in esame, in cui dalle conversazioni intercettate era emerso l’apparente coinvolgimento del ricorrente in una trattativa volta a fissare il prezzo di acquisto di sostanza stupefacente, circostanza della quale, nel corso delle indagini, egli non aveva voluto fornire una logica spiegazione al fine di eliminare il valore indiziante degli elementi acquisiti (Sez. 4, n. 3374 del 20/10/2016).
Conclusioni
Posto che, come è noto, l’art. 314, co. 1, primo periodo, cod. proc. pen., stabilisce che chi “è stato prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, ha diritto a un’equa riparazione per la custodia cautelare subita, qualora non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave”, la decisione in esame desta un certo interesse in quanto con essa si chiarisce in cosa consiste questa colpa grave, oltre a come essa debba essere accertata dal giudice.
Invero, in tale pronuncia, sulla scorta di un pregresso orientamento nomofilattico, si afferma che il diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione non spetta se l’interessato abbia posto in essere una condotta che, per evidente negligenza, imprudenza, trascuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti o norme disciplinari, ha creato una situazione tale da costituire prevedibile ragione di un intervento dell’autorità giudiziaria che si sostanzi nell’adozione di un provvedimento restrittivo della libertà personale o nella mancata revoca di uno già emesso fermo restando che, dal canto suo, il giudice, nell’accertare la sussistenza della colpa grave ostativa, deve valutare la condotta tenuta dall’interessato sia anteriormente che successivamente alla sottoposizione alla misura e, più in generale, al momento della legale conoscenza della pendenza di un procedimento a suo carico.
Tale provvedimento, quindi, deve essere preso nella dovuta considerazione ogni volta si debba verificare la ricorrenza di tale condizione ostativa.
Il giudizio in ordine a quanto statuito in codesta sentenza, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su cotale tematica procedurale, dunque, non può che essere positivo.
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