-INTRODUZIONE
Il legislatore penale prevede all’art. 640 c.p. l’incriminazione della condotta di truffa, ponendone in evidenza l’antigiuridicità, subspecie di danno al patrimonio mediante frode, ragion per cui la stessa fattispecie in esame, secondo l’orientamento prevalente, è stata definita di danno e non di pericolo. Tuttavia, particolari problemi ermeneutici si sono posti nell’ambito della c.d. truffa contrattuale, dove la condotta di artifizi e raggiri ha per oggetto la conclusione di un contratto, nei suoi elementi essenziali e/o accessori, che risulta, quindi, viziato, tanto da legittimare l’esperibilità di un’azione di annullamento ex art. 1441 c.c. e ssgg. D’altronde, si precisa, come, in tali casi, il consenso positivo alla determinazione, sia del contenuto sia della conclusione stessa del contratto, sarebbe stato estorto in modo fraudolento incidendo sul procedimento di volizione del soggetto passivo del reato, limitando la sua libertà di autodeterminazione contrattuale e, secondo altra tesi minoritaria, limitando anche lo sviluppo della persona umana ex art. 2 Cost., poiché gli artifizi ex art. 640 c.p. sarebbero diretti a far credere “esistente l’inesistente”. Secondo tale impostazione minoritaria, allora, il reato ex art. 640 c.p. avrebbe una carica di disvalore enorme, poiché andrebbe ad incidere sulla formazione della persona umana, determinando il soggetto passivo del reato a compiere scelte contrattuali e/o esistenziali (sarebbe risarcibile, allora, il c.d. danno esistenziale???) che in assenza della condotta fraudolenta non avrebbe di certo compiuto. Si precisa, poi, come tale impostazione teorica debba necessariamente incidere anche sul concetto stesso di danno ex art. 640 c.p., dovendo considerarsi tale anche quello meramente soggettivo. In altre parole, optando per tale tesi minoritaria, poiché vengono ad essere “aggrediti” ex art. 640 c.p. valori costituzionalmente tutelati come la persona umana, il danno rilevante potrebbe avere anche natura esclusivamente soggettiva (come ad esempio la vendita di un bene senza alcun valore economico, ma un notevole valore affettivo), potendosi ben prescindere dal concetto di danno al patrimonio, come invece sembra suggerire una lettura del capo II, titolo XIII, c.p.
In altre parole, il concetto di danno (come meglio verrà precisato in seguito) pone notevoli difficoltà ermeneutiche, tanto più che la scelta di una certa impostazione teorica piuttosto che un’altra, determina notevoli conseguenze concrete, come la possibilità di sanzionare talune condotte ovvero altre.
Ad ogni modo, il legislatore penale, ex art. 640 c.p., sembra imporre all’interprete di tenere ben presente il collegamento eziologico tra ingiusto profitto ed altrui danno. In questo senso, allora, sembra opportuno chiedersi se tali aspetti (ingiusto profitto e danno) debbano coesistere assieme ovvero se la sussistenza di uno, indipendentemente dall’altro, sia di per sé sufficiente ad integrare gli estremi di cui all’art. 640 c.p. Un certo orientamento della dottrina sostiene, interpretando latu sensu la norma, come l’ aspetto qualificante la condotta ex art. 640 c.p. debba essere quello determinato dall’ingiustizia del profitto, da intendersi nel senso di profitto senza causa ex art. 2041 c.c.. Tuttavia, tale impostazione non sembra aver avuto seguito e questo sia perché, a rigore, l’ art. 2041 c.c. impone di verificare un “arricchimento a danno di un’altra persona”, sia perché lo stesso legislatore penale sembra richiedere la sussistenza di un nesso causale tra l’ingiusto profitto e il danno altrui. In altre parole, secondo quest’ultima impostazione, seguita anche dalla giurisprudenza (Cass, Sez. un. 16-12-1998, Cellamare), i due elementi presi in considerazione costituirebbero due aspetti di un’unica realtà, che l’interprete sarebbe chiamato a verificare nel suo complesso, attraverso un ragionamento di tipo causalistico. Il legislatore, allora, più che sanzionare un arricchimento senza causa, sembra sanzionare un arricchimento con causa illecita, dove la causa illecita sarebbe rinvenibile nella volontà di arrecare danno ad altri.
-INGIUSTIZIA DEL PROFITTO
Secondo una certa impostazione, poi, che ha analizzato il concetto stesso di ingiustizia del profitto, sarebbe erroneo ritenere “giusto” soltanto il profitto che corrisponde ad un diritto vero e proprio, e più precisamente ad una pretesa che può essere fatta valere davanti l’autorità giudiziaria mediante azione, poiché, qualora così fosse, sarebbe un ingiusto profitto, ad esempio, anche quello del beneficiario di un’obbligazione naturale (che, appunto, ex art.2034 c.c. non può vantare alcuna pretesa). Una tale interpretazione, infatti, non sembra autorizzata dall’espressione usata dal legislatore, poiché nel nostro ordinamento giuridico esistono pretese che, pur non essendo munite di azione, ricevono una tutela da parte del diritto e, quindi, non possono considerarsi ingiuste. Ci si riferisce, ad esempio, alle obbligazioni naturali, le quali se non autorizzano l’azione giudiziaria per l’adempimento, tuttavia escludono la facoltà di ripetere quanto sia stato spontaneamente prestato in esecuzione di esse. In questo senso, allora, si dovrebbe considerare ingiusto soltanto il profitto che non è in alcun modo, e cioè né direttamente né indirettamente, tutelato dall’ordinamento giuridico. Se così fosse, dunque, non potrebbe considerarsi ingiusto il profitto di colui che mira a realizzare, seppur con condotte fraudolente, un suo credito di gioco o di scommessa (art. 1933 c.c.), un suo credito prescritto (art. 2940 c.c.) e, in genere, il profitto che corrisponde all’esecuzione di doveri morali o sociali (art. 2034 c.c.). D’altronde, questa precisazione è ricca di conseguenze pratiche, perché, quando il profitto avuto di mira o realizzato corrisponde all’adempimento di un’obbligazione naturale, dovrà escludersi l’esistenza delle figure delittuose che esigono l’ingiustizia del profitto, seppure vi sia stato un arricchimento senza causa giuridica in senso stretto (intesa, cioè, come vincolo all’adempimento). In altre parole, il concetto stesso di ingiustizia non si riferisce alla esperibilità di un’azione o meno, tanto che il beneficiario di un’obbligazione naturale non può vantare una vera e propria pretesa giuridica sull’altro, ma l’ordinamento considera “giusto” l’atteggiamento del beneficiario che detiene presso sé ciò che è stato spontaneamente prestato ex art. 2034 c.c.. In questo senso, allora, la figura della truffa ex art. 640 c.p., pur in presenza di elementi di artifizi e raggiri, idonei a indurre in errore, sarebbe incompatibile con l’istituto dell’obbligazione naturale perché mancherebbe l’ingiustizia del profitto. A titolo esemplificativo, basti pensare al caso in cui Tizio, dopo aver scommesso e perso una somma di denaro con Caio, ponga in essere artifizi e raggiri al fine di indurre all’adempimento morale lo stesso Caio, che, successivamente, esegue la prestazione a cui non era giuridicamente vincolato. In questo caso, allora, pur sussistendo la condotta di artifizi e raggiri, mancherebbe l’ingiustizia del profitto, poiché l’ordinamento considera “giusto” l’adempimento di un’obbligazione naturale, tutelandolo in modo indiretto (senza, cioè, una vera e propria azione a sua tutela). Si precisa, ad ogni modo, come l’esclusione dal reato di truffa non significa necessariamente impunità, potendo residuare responsabilità per un reato diverso, quale, ad esempio, per il reato di violenza privata (art. 610 c.p.). In altre parole, secondo tale tesi, sarebbe da ritenere sussistente l’ingiustizia del profitto ogniqualvolta lo stesso profitto non trovi, in alcun modo, tutela giuridica nell’ordinamento.
Parte della giurisprudenza, tuttavia, sostiene come nel caso particolare, la stessa figura dell’obbligazione naturale sarebbe incompatibile con il reato di truffa ex art 640 c.p., non tanto per la tutela giuridica apprestata dall’ordinamento nell’ambito dell’obbligazione naturale, quanto per il suo carattere di spontaneità, che mal si concilia con l’induzione in errore, tramite artifizi e raggiri. Sotto altro profilo, sembra opportuno precisare come, secondo dottrina e giurisprudenza prevalenti, l’ingiustizia del profitto debba essere valutata anche successivamente all’effettivo conseguimento del bene o della fruizione del servizio, quando, pur essendo inizialmente giusto, divenga ingiusto per il mutare della situazione e per l’evidente consapevolezza dell’ingiustizia da parte del soggetto attivo; così come, secondo taluni, l’ingiusto profitto sussisterebbe anche in presenza di utilità successiva conseguita dal soggetto passivo. In altre parole, secondo tale tesi, sussisterebbe la condotta illecita punibile a titolo di truffa contrattuale ex art. 640 c.p., anche nel caso di effetti positivi futuri del contratto oggetto di artifizi e raggiri, purchè, evidentemente, il vantaggio futuro sia stato comunque previsto e voluto dall’agente come conseguenza della sua condotta. Diversamente argomentando, infatti, la norma si svuoterebbe di portata, accadendo non di rado, proprio nell’ambito della truffa contrattuale, che l’agente in maniera deliberata preordini la propria condotta in funzione del conseguimento di un profitto ingiusto nel lungo periodo, che, invece, se realizzato nell’immediatezza dei fatti sarebbe anche più difficile da nascondere agli occhi del soggetto passivo del reato, con conseguente maggiore difficoltà di induzione all’errore.
-DANNO EX ART. 640 C.P.
Il tema della truffa contrattuale pone particolari problemi ermeneutici in relazione al concetto di danno ex art. 640 c.p. Secondo una prima tesi, dovrebbe farsi riferimento esclusivamente alla figura del danno emergente, poiché il silenzio del legislatore in tal senso sembrerebbe imporre all’interprete una strada ben precisa e quanto più restrittiva possibile. In altre parole, si evidenzia, come un’interpretazione rigorosamente letterale deponga nel senso di danno patrimoniale, non menzionando, quindi, la perdita derivante dal mancato compimento di scelte contrattuali diverse (c.d. lucro cessante, nell’ambito contrattuale). Argomentando in modo contrario, tra l’altro, si correrebbe il rischio di violare la lettera della legge e optare per un’analogia di natura privatistica non consentita dall’ordinamento penale, ispirato a criteri di tassatività.
Secondo altra impostazione, invece, il danno rilevante ex art. 640 c.p. sarebbe ravvisabile tanto in presenza del danno emergente che del c.d. lucro cessante. Tale tesi, in realtà, muove le mosse da un’interpretazione sistematica dello stesso concetto di danno e in particolare, si dice, come il danno patrimoniale imponga un collegamento ermeneutico con il diritto civile e, in particolare, con l’art. 2056 c.c., affinché la tutela apprestata dall’ordinamento sia effettiva e tenga conto della realtà dei fatti, piuttosto che meramente astratta. In altre parole, si dice, che se il danno cui deve riferirsi è quello patrimoniale, esso deve essere considerato in entrambe le sue forme di danno emergente e lucro cessante poiché, diversamente, la tutela giuridica apprestata dall’ordinamento non solo non sarebbe effettiva, ma lascerebbe un vuoto di tutela ingiustificato e a tutto vantaggio del soggetto attivo del reato. Inoltre, si precisa, come una tale interpretazione non violerebbe il principio di tassatività, poiché in tema di patrimonio il collegamento con il diritto civile non solo sarebbe ammissibile, ma addirittura dovuto e, ad ogni modo, sarebbe giustificato da esigenze di tutela effettiva. A tale tesi è stato obiettato come il collegamento tra concetto di danno civile e danno penale sarebbe vietato dalla stessa diversità di ratio giustificatrice che ispira i due codici. Tuttavia, se è vero che il diritto penale si ispira a logiche di rieducazione del condannato, diversamente dal diritto civile che tende a ristabilire lo status quo ante, è pur vero che la truffa contrattuale, ponendosi al confine tra civile e penale, necessita di una contemperazione di entrambe le logiche giuridiche ispiratrici e quindi non sembra si possa prescindere dal concetto stesso di lucro cessante.
Chiarito questo aspetto, sembra opportuno affrontare la tematica del danno (come accennato nell’ambito della parte introduttiva) chiedendosi se il legislatore abbia inteso riferirsi ad un’impostazione soggettiva ovvero oggettiva dello stesso danno, o, se si preferisce, ad una concezione giuridica o economica. Il problema, come già precisato, assume particolare significato qualora si pensi alle innumerevoli conseguenze pratiche derivanti dalla scelta dell’una o dell’altra teoria.
Optando per la concezione economica, ad esempio, il danno rilevante giuridicamente sarebbe solo quello attinente al patrimonio in senso stretto, con esclusione di altre valutazioni meramente soggettive come quella relativa all’utilità individuale di una data prestazione ovvero al valore affettivo che spesso lega le persone alle cose. Così, non sarebbe punibile una condotta fraudolenta volta a far vendere ad un’anziana signora un portafoglio di modico valore, che però, ad esempio, rappresenta un ricordo di famiglia, poiché, si dice, in tale fattispecie non sussisterebbe un vero danno patrimoniale o comunque sarebbe irrilevante. Optando per la tesi contraria soggettiva del danno, invece, il caso di specie integrerebbe perfettamente gli estremi della truffa contrattuale, ex art. 640 c.p. D’altronde, tale problematica investe non solo il concetto di danno, ma anche di profitto ingiusto e patrimonio, che possono essere intesi in senso oggettivo o soggettivo; tuttavia, appare evidente come la soluzione debba essere comune, trattandosi più che altro di interpretazione di ratio giustificatrice della norma in esame. La concezione economica di danno, muove le mosse principali dell’argomentazione innanzitutto dall’osservazione sistematica che il reato in esame è inserito tra i delitti contro il patrimonio, dovendosi intendere per tale un complesso di rapporti giuridici, economicamente valutabili (diversamente non avrebbero natura patrimoniale!), che fanno capo ad una persona. D’altronde, si precisa come optare per la tesi contraria comporterebbe un’estensione dell’applicabilità dell’art. 640 c.p. difficilmente giustificabile, soprattutto se si pensa alla difficoltà di individuare sul piano probatorio i casi in cui vi sia un valore affettivo che lega le persone ad alcuni beni, dai casi in cui tale valore affettivo non ci sia. In tal senso, sostanzialmente, il danno arrecato al soggetto passivo del reato rischierebbe di tradursi in una presunzione giuridica, difficilmente superabile. In definitiva, secondo tale tesi della dottrina, sarebbe pur sempre necessaria la dimostrazione di un’effettiva “deminutio patrimoni”, da intendersi, conseguentemente, sia nel senso di riduzione di attività (cose e crediti), sia nel senso di incremento di passività (debiti).
Secondo la concezione giuridica di danno, invece, avrebbero valore giuridico anche gli affetti e, più in generale, tutti quegli aspetti psichici che solitamente legano le persone a taluni beni. Secondo tale dottrina, infatti, sarebbe ingiustificato e antigiuridico non tener conto del valore di affezione, poiché lo stesso diritto penale sarebbe improntato alla tutela della persona umana e, solo strumentalmente, alla difesa del patrimonio nella sua accezione economica. Infatti, la ratio giustificatrice della disposizione in esame andrebbe colta sotto il profilo dell’ingiustizia della condotta, in quanto incidente su posizioni giuridiche forti e costituzionalmente garantite di libertà personale, per cui la tutela della persona umana andrebbe intesa in senso completo, e non vi potrebbe essere tutela della persona umana negando rilevanza giuridica al c.d. valore di affezione. In altre parole, secondo tale tesi, il reato di truffa contrattuale, seppure inserito nell’ambito dei delitti contro il patrimonio, avrebbe una valenza più ampia di indubbia tutela della persona umana, che imporrebbe all’interprete di tenere presente il valore affettivo. D’altra parte, si dice, come la concezione economica rischi di portare a risultati inammissibili. Alla stregua di essa, infatti, dovrebbe considerarsi insussistente il furto (anch’esso delitto contro il patrimonio ex art 624 c.p.), ad esempio, nel caso in cui taluno, impossessandosi della cosa mobile altrui, lasci sul posto un oggetto di valore almeno equivalente; l’ordinamento penale, invece, impone di punire tale condotta, seppure attenuata ex art. 62, n. 2, c.p. Anche in questo senso, allora, l’ordinamento penale sembrerebbe prendere in considerazione il valore affettivo. Tuttavia, altra dottrina, pur condividendo la soluzione di tale tesi, sembra criticare il paragone (o l’esempio, se si preferisce) con il furto (ed anche, volendo, con l’appropriazione indebita), poiché in tale caso non sarebbe richiesto tra i requisiti costitutivi del fatto il danno.
Parte della giurisprudenza, in verità, sembra propendere per tale ultima impostazione, almeno in linee generali ( Cass. sez. II, 23/12/1997, Marrosu; in contrario Cass. sez. II, 29/01/1998, Stabile), sottolineando come il concetto di patrimonio non possa essere considerato in termini meramente economici, soprattutto perché non sempre può affermarsi che ciò che rappresenta un danno per alcuni, lo è anche per altri, così come non può dirsi che ogni prestazione che oggettivamente presenta un certo valore può dirsi utile per chi la riceve; occorrerebbe, quindi, procedere ad una considerazione individuale che, comunque, non può confondersi con una considerazione puramente soggettiva: non si può attribuire al mero capriccio della vittima la valutazione del danno. Secondo tale impostazione, in verità, sarebbe necessario considerare come “quantum” minimo il danno nella sua accezione economica, per poi, per così dire, personalizzarlo, attraverso la concezione giuridica; in altre parole, il danno patrimoniale (“deminutio patrimonii”) a cui il legislatore sembra far riferimento, ex art. 640 c.p., sarebbe quello dato da un aspetto oggettivo ed uno soggettivo, tanto che altra parte della dottrina ha sostenuto come, in definitiva, si tratti di un danno “oggettivo soggettivizzato”. D’altronde, precisa la giurisprudenza come tale tesi imponga all’interprete di tener ben presente tutti gli aspetti economico-sociali attinenti al soggetto passivo del reato. In questo senso, allora, sarebbe necessario pervenire ad una valutazione quantitativa dei bisogni della persona offesa e dei suoi mezzi per soddisfarli, pur partendo da un deminutio patromonii rispetto alla condizione precedente; d’altronde l’impronta patrimoniale deriva nel reato di truffa dal bilancio complessivo della vicenda, in presenza cioè di una scelta non solo non conforme all’interesse morale e materiale del disponente, ma anche viziata dall’induzione in errore. La soggettivizzazione del danno, comunque, non intende in alcun modo né smaterializzare la fattispecie di truffa né porre in secondo piano la prioritaria rilevanza della sua collocazione nell’ambito dei reati contro il patrimonio. Tuttavia, si precisa come appaia evidente la scelta costituzionale di una società incentrata sui valori della persona, sulla strumentalità del patrimonio in genere per l’elevazione e la crescita dell’individuo ed il contemporaneo progressivo affermarsi nella fattispecie di truffa degli elementi che delineano l’offesa alla libertà del consenso.
-IL DANNO NELLA TRUFFA CONTRATTUALE E TEMPUS COMMISSI DELICTI
Ci si chiede, poi, se proprio con riferimento alla figura della c.d. truffa contrattuale, sia necessaria la sussistenza del danno patrimoniale, ovvero il danno possa ritenersi in re ipsa, e cioè insito nella stessa formazione di un contratto che, senza artifizi e raggiri posti in essere dal soggetto attivo del reato, non si sarebbe concluso. Il problema assume particolare rilievo, soprattutto sul piano probatorio dovendosi dimostrare, qualora si opti per la prima tesi, sia la condotta fraudolenta che la formazione di un contratto viziato che una certa sproporzione tra prestazione e controprestazione (se si tratti di contratti sinallagmatici, ovviamente). Quest’ultima prova, in particolare sembra particolarmente ardua, non potendo prescindere da una valutazione complessiva dello stesso contratto, con eventuali negozi giuridici collegati, e dalle regole interpretative ex art. 1362 c.c. e ssgg.
Secondo un primo orientamento, la fattispecie in questione, essendo di danno, necessita pur sempre in concreto della sua dimostrazione al fine di non trasformarla in una mera fattispecie di pericolo, in contrasto con la lettera della legge che parla di danno con ingiusto profitto altrui. D’altronde, tale tesi sembra non solo rispettosa della lettera della legge, ma anche coerente con le argomentazioni precedentemente portate avanti; la possibilità che il soggetto truffato agisca per la tutela dei suoi interessi in via civile con l’azione di annullamento ex art. 1427 c.c., non giustifica, attesa la possibile assenza di un danno patrimoniale significativo (come meglio precisato precedentemente), la sanzione penale ex art. 640 c.p. Secondo un altro orientamento, invece, il danno sarebbe dato dalla stessa induzione a stipulare un contratto che diversamente non si sarebbe realizzato. Tale tesi, pone l’accento sul concetto di vizio della volontà in coerenza con le argomentazioni precedentemente svolte di natura costituzionale: se, infatti, esiste una libertà di autodeterminazione, costituzionalmente garantita, allora il danno sussisterebbe ogniqualvolta qualcuno incida in modo ingiustificato e fraudolento sul processo volitivo, condizionandone gli esiti, e questo anche confermando la tesi del danno patrimoniale, come strumentale allo sviluppo della persona umana, ex art. 2 Cost. Si precisa, poi, come tale tesi sembri coerente anche col concetto di “danno oggettivo soggettivizzato”, poiché, si dice, prende in considerazione il soggetto in uno dei suoi momenti più alti e cioè durante il processo di volizione, che spinge la persona umana ad optare per certe scelte piuttosto che per altre.
Parte della giurisprudenza (Cass. sez. II, 23/12/1997, Marrosu), in verità sembra confermare tale tesi, sostenendo come il reato di truffa contrattuale sussista indipendentemente dal fatto che il soggetto passivo abbia pagato il giusto corrispettivo della controprestazione fornitagli, realizzandosi l’illecito per il solo fatto che si sia addivenuti alla stipulazione di un contratto che, senza gli artifizi e raggiri posti in essere dall’agente, non sarebbe stato stipulato. Il problema dello squilibrio contrattuale delle prestazioni (nei casi di presenza di un sinallagma, s’intende), potrebbe al più, secondo la giurisprudenza, rilevare nell’ambito delle aggravanti ex art. 61 n. 7 c.p., e in particolare con esclusivo riguardo al contratto in sé, al momento della sua stipulazione, e non con riguardo all’entità del danno risarcibile, che può differire, in più o in meno, rispetto al detto valore, in ragione dell’incidenza di fattori della più varia natura, concomitanti o successivi, tra i quali ultimi, in particolare, la decisione del soggetto passivo di agire o meno, in sede civile, per l’annullamento del contratto.
Chiarito il concetto di danno con specifico riferimento alla c.d. truffa contrattuale, sembra opportuno chiedersi quando il reato si possa ritenere sussistente e consumato, tale da potersi individuare con precisione il tempus commissi delicti. Infatti, sebbene indubbiamente per la sussistenza del reato vi deve essere un danno con conseguente ingiusto profitto altrui, può accadere che il danno, nella sua accezione contrattuale, possa pur sempre, per così dire, essere sfalsato temporalmente rispetto al profitto acquisito dal soggetto attivo del reato, tale per cui sembra opportuno provare a capire se il momento consumativo attenga al primo elemento o al secondo.
Dottrina e giurisprudenza prevalenti sembrano considerare come momento consumativo del reato l’acquisizione dell’ingiusto profitto, poiché in tale momento si perfeziona la fattispecie, come suggerisce una lettura completa dell’art. 640 c.p.. Tuttavia, il momento stesso di acquisto dell’ingiusto profitto pone alcuni problemi. In particolare, secondo una certa dottrina il momento consumativo della truffa contrattuale non vi sarebbe quando il soggetto passivo viene ad acquisire il vantaggio economico, ma nel momento in cui vi è l’assunzione dell’obbligazione (es: firma di una cambiale). In particolare, si dice, come, diversamente argomentando, non si riuscirebbe a capire perché da un lato il legislatore abbia considerato il danno nel momento di stipula del contratto, ma dall’altro l’ingiusto profitto sarebbe stato collocato in un momento successivo di effettivo acquisto del vantaggio patrimoniale. In altre parole, in senso contrario, si verrebbe a rompere il nesso eziologico immediato tra danno e profitto altrui che la lettera della legge sembra imporre.
Parte della giurisprudenza (Cass. sez. un., 21/06/2000, Franzo e altri), in verità, sembra considerare come momento consumativo della fattispecie non già quando il soggetto passivo assume, per effetto di artifizi e raggiri, l’obbligazione della dazione di un bene economico, ma nel momento in cui si verifica l’effettivo conseguimento del bene da parte dell’agente e la definitiva perdita dello stesso da parte del raggirato. Se, dunque, il delitto si consuma con l’effettivo conseguimento del bene da parte del soggetto agente con il conseguente danno altrui, allora tale impostazione accoglierebbe la tesi del danno economico. In tal senso, infatti, verrebbe ad essere svuotato di significato non solo il danno sussistente per il sol fatto di aver stipulato un contratto, che senza artifizi ed inganni altrui, non si sarebbe concluso, ma anche il concetto di libertà di autodeterminazione strumentale per lo sviluppo della persona umana, ex art. 2 Cost. In altre parole, tale orientamento della giurisprudenza, optando per una tesi rigorosamente sostanziale, sembra, almeno in parte, contraddire l’interpretazione data da altra dottrina e giurisprudenza di danno nell’ambito della c.d. truffa contrattuale, anche con riferimento alla c.d. concezione giuridica. D’altronde, tali discrasie interpretative rispecchiano pienamente i diversi orientamenti attinenti al danno soggettivo o oggettivo e, qualora si voglia propendere per una tesi piuttosto che per l’altra, vi sarà una conseguente e diversa risoluzione del problema attinente al c.d. tempus commissi delicti.
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