(Ricorso dichiarato inammissibile)
(Normativa di riferimento: C.p., art. 641)
Il fatto
La Corte di Appello di Palermo confermava la sentenza con cui il Tribunale, in data 5.4.2016, aveva riconosciuto A. S. responsabile (in concorso con G. R.) del delitto di cui all’art. 641 cod. pen. per avere concluso un contratto di alloggio presso la struttura denominata G. P. Hotel dissimulando il proprio stato di insolvenza e, inoltre, con l’iniziale proposito di non adempiere le relative obbligazioni sicché il primo giudice l’aveva pertanto condannata alla pena di mesi 4 di reclusione ed Euro 300 di multa, oltre al pagamento delle spese processuali.
I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Ricorreva per Cassazione, tramite il difensore, A. Sc., deducendo i seguenti motivi: 1) violazione di legge in relazione agli artt. 125 cod. proc. pen. e 111 Cost. stante il fatto che né la sentenza di primo grado, nè quella di Appello, avevano motivato in merito alla esistenza degli elementi costitutivi della fattispecie di reato contestata risolvendosi le considerazioni spese nelle due sentenze di merito in formule di stile ed in argomentazioni apodittiche; b) violazione di legge e vizio di motivazione con riguardo agli artt. 641 cod. pen., 336 e 337 cod. proc. pen. deducenodsi l’errore di diritto in cui sarebbe incorsa la Corte di Appello di Palermo nel disattendere il motivo di gravame che era stato articolato in punto di procedibilità dell’azione penale essendosi anche in tal caso limitata a far presente, in maniera eccessivamente stringata, che la querela era stata sporta da tale E. D. B., socia/dipendente dell’albergo; si osservava altresì come, nel caso di reati in danno di persone giuridiche, la querela debba essere proposta dal titolare del potere di rappresentanza secondo la legge e lo statuto non potendosi affidare alla mera dichiarazione della querelante la verifica della sussistenza degli stessi; c) violazione di legge e difetto, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione all’art. 641 cod. pen. atteso che la Corte di Appello aveva confermato la sussistenza degli estremi del delitto contestato sulla considerazione del silenzio serbato dagli imputati in merito alle loro condizioni economiche, sulle loro rassicurazioni circa il pagamento del corrispettivo dovuto e sulla sottrazione agli obblighi così assunti, non avendo però al contempo motivato sulle doglianze e le considerazioni svolte con l’atto di appello in merito, ad esempio, alle divergenze rinvenibili tra il contenuto della querela e quello dell’annotazione di servizio redatta dai CC intervenuti sul posto nella immediatezza con riguardo alle dichiarazioni rese da parte di tale P. D.; d) violazione di legge e vizio di motivazione in merito agli artt. 641 e 131 bis cod. pen. posto che la Corte di Appello aveva escluso di poter ritenere la causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis cod. pen. in considerazione dell’entità del danno patrimoniale cagionato e della esistenza di un precedente specifico in capo all’odierna ricorrente così argomentando in maniera scarna e comunque inadeguata; e) violazione di legge in relazione agli artt. 641 e 133 cod. pen., 533 cod. proc. pen. dato che, anche sul punto specifico, la sentenza della Corte di Appello si era limitata a condividere il giudizio di adeguatezza del trattamento sanzionatorio determinato dal primo giudice alla luce della entità del danno patrimoniale e delle negativa personalità di essa ricorrente confermando, peraltro, una pena determinata ben al di sopra del minimo edittale per di più determinata senza indicazione dei relativi calcoli ma senza alcuna specificazione delle ragioni che avevano portato ad individuarla in tale misura.
Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
Il ricorso proposta veniva dichiarato inammissibile alla stregua delle seguenti considerazioni.
Si osservava prima di tutto come fosse inammissibile perché generico il primo motivo del ricorso stante il fatto che l’eccezione era stata formulata con il primo motivo di appello in termini del tutto generici che, come tali, risultavano sostanzialmente reiterati con il secondo motivo di ricorso con cui l’eccezione era stata riproposta senza tuttavia contrastare la sentenza impugnata in merito alle ragioni per le quali la Corte di Appello aveva ritenuto la D. B. legittimata a proporre querela; in particolare, a fronte del fatto che i giudici palermitani avevano sottolineato come la D. B. avesse riferito di essere “socio/dipendente dell’albergo G. P. Hotel“, qualifica che, aggiungevano, non era stata contestata dall’appellante e che le conferiva la facoltà di proporre querela, la Corte di Cassazione aveva chiarito che il querelato, che metta in discussione la legittimazione del querelante all’esercizio del diritto di querela, non può limitarsi a contestare il mancato adempimento dell’obbligo di cui all’art. 337 cod. proc. pen. – il quale disciplina l’ipotesi della querela proposta da chi si professa legale rappresentante di una persona giuridica, di un ente o di un’associazione – ma deve dimostrare che detto adempimento è in concreto necessario perché il querelante agisce quale rappresentante di una società di capitali (cfr., Cass. pen., 5, 8.3.2005 n. 12.814, omissis).
E infatti, a fronte della affermazione della D. B., nessun elemento era stato addotto dalla difesa della ricorrente da cui desumere che si trattasse di una società commerciale e che la rivendicata ed affermata qualità di “socio” non indicasse semplicemente la contitolarità della impresa e la legale rappresentanza di un diverso soggetto giuridico.
Venivano altresì reputati manifestamente infondati il primo ed il terzo motivo posto che, ad avviso della Corte, era stata direttamente la difesa ad ammettere che la obbligazione era stata contratta dai due nella iniziale consapevolezza della loro condizione di insolvenza che, nei tre giorni precedenti, era stata pertanto artatamente dissimulata.
In relazione a tale profilo di ordine ontologico, gli ermellini osservavano come fosse stato sottolineato, dalla giurisprudenza, che integra il reato di insolvenza fraudolenta la condotta di chi tiene il creditore all’oscuro del proprio stato di insolvenza al momento di contrarre l’obbligazione, con il preordinato proposito di non adempiere la dovuta prestazione (cfr., Cass. pen., 2, 22.5.2009 n. 39.980, omissis; Cass. pen., 2, 3.2.2017 n. 8.893, omissis) fermo restando che, come rilevato sepre in sede nomofilattica, la prova del preordinato proposito di non adempiere alla prestazione dovuta sin dalla stipula del contratto, dissimulando lo stato di insolvenza, può essere desunta anche da argomenti induttivi seri e univoci, ricavabili dal contesto dell’azione e dal comportamento successivo all’assunzione dell’obbligazione, ma non esclusivamente dal mero inadempimento che, in sé, costituisce un indizio equivoco del dolo (cfr., Cass. pen., 2, 21.1.2015 n. 6.847, omissis; Cass. pen., 2, 11.7.2006 n. 34.192, omissis; Cass. pen., 2, 22.5.2009 n. 39.890, omissis).
Oltre a ciò, veniva considerato in egual misura manifestamente infondato il quarto motivo relativo alla ritenuta impossibilità di applicare la causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis cod. pen. giacchè la Corte di Appello, per escludere la causa di non punibilità, aveva fatto riferimento, in maniera peraltro corretta, all’entità del danno patrimoniale cagionato, pari a quasi 1.000 Euro, tale non potersi ritenere esiguo nonché, sotto altro profilo, una preesistente condanna per fatto analogo (cfr., art. 131 bis comma 3) e pertanto, operando in tal guisa, facendosi riferimento agli elementi di valutazione di natura soggettiva evocati dall’art. 133 cod. pen., la Corte aveva potuto formulare una diagnosi coerente con la “ratio” e, prima ancora, con i presupposti di applicabilità dell’istituto in questione e richiesti dalla lettera della norma in termini congrui rispetto ed esaustivi e nel rispetto dei criteri stabiliti da questa stessa Corte (cfr., Cass. SS.UU., 25.2.2016 n. 13.681).
Da ultimo, veniva del pari considerato manifestamente infondato il quinto motivo violazione di legge in relazione all’entità della pena che, secondo la difesa, sarebbe stata determinata in misura non coerente all’entità del danno patrimoniale e delle personalità dell’imputata e, inoltre, e ben al di sopra del minimo edittale per di più senza indicazione dei relativi calcoli dato che la Corte aveva motivato sul punto specifico in maniera destramente sintetica dovendosi comunque tener conto che la pena, pur superiore al minimo, era stata determinata in misura largamente inferiore alla media edittale sicché andava ribadito l’orientamento della giurisprudenza della Cassazione secondo cui la specifica e dettagliata motivazione in ordine alla quantità di pena irrogata, specie in relazione alle diminuzioni o aumenti per le circostanze, è necessaria soltanto se la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale potendo altrimenti essere sufficienti a dare conto dell’impiego dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen. le espressioni del tipo: “pena congrua“, “pena equa” o “congruo aumento“, come pure il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere (cfr., Cass. pen., 2, 26.6.2009 n. 36.245, omissis; Cass. Pen, 4, 20.3.2013 n. 21.294, omissis; Cass. pen., 3, 15.6.2016 n. 28.251, omissis).
Tal che, come visto in parte anche prima, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, se ne faceva conseguire l’inammissibilità del ricorso proposto e la contestuale condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000 alla Cassa delle Ammende.
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Conclusioni
La sentenza in questione è condivisibile specialmente nella parte in cui, citando dei precedenti giurisprudenziali che avevano statuito in tal senso, si afferma che la prova del preordinato proposito di non adempiere alla prestazione dovuta sin dalla stipula del contratto, dissimulando lo stato di insolvenza, può essere desunta anche da argomenti induttivi seri e univoci, ricavabili dal contesto dell’azione e dal comportamento successivo all’assunzione dell’obbligazione, ma non esclusivamente dal mero inadempimento che, in sé, costituisce un indizio equivoco del dolo.
Va da sé dunque che, ove si contesti un reato di questo genere, ossia il delitto preveduto dall’art. 641 c.p., è onere della pubblica accusa quella di fornire la prova del preordinato proposito di non adempiere alla prestazione dovuta sin dalla stipula del contratto, dissimulando lo stato di insolvenza mediante argomenti induttivi seri e univoci, ricavabili dal contesto dell’azione e dal comportamento successivo all’assunzione dell’obbligazione non essendo sufficiente fornire il mero inadempimento che, in sé, costituisce soltanto un indizio equivoco del dolo.
Ove invece ciò dovesse avvenire, può essere elaborata una valida linea difensiva volta a contestare la sussistenza di tale illecito penale anche attraverso il richiamo a quanto enunciato in siffatta decisione.
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