Premessa
Viviamo in un’epoca di profonda crisi non solo economica, ma anche valoriale[1]. Nonostante tutto, però, seguendo una visione ottimistica e valutando con attenzione i mirabili tentativi di ricostruzione suggeriti dalla dottrina, più che parlare di una sorta di “medioevo” del diritto, verrebbe voglia di “etichettare” l’era contemporanea come il tempo del “rinascimento giuridico”.
Sempre più avvertita, infatti, appare la crisi delle fattispecie classiche[2], ergo, si è sviluppato un processo di ripensamento di tutte le categorie giuridiche alla luce del nuovo quadro costituzionale e degli influssi provenienti dall’U.E.
Come correttamente rilevato, «Il testo costituzionale individua principî riconducibili ad una sensibilità diffusa ancorché storicamente condizionata, che allargano l’ambito di riferimento del giudice inducendolo a valutare i valori prevalenti nel contesto sociale in relazione ai beni e agli interessi implicati nel conflitto»[3].
I precetti normativi subiscono oggi una profonda influenza dalla vita sociale che li colora di significati di nuovo conio; inalterati rimangono, invece, soltanto i principi cardine su cui si fonda il nostro impianto ordinamentale. Tra questi sembra assumere un ruolo preminente il principio della par condicio creditorum che porta il legislatore a difendere strenuamente il metodo concorsuale di riparto degli assets patrimoniali, soprattutto in materia fallimentare a tutela di tutti i soggetti interessati ad insinuarsi al passivo (per ottenere, quasi mai integralmente, il soddisfacimento delle proprie pretese).
L’art. 2740 c.c., nel corso degli anni, nel suo ruolo di clausola generale, viene interpretato in modo da tutelare le ragioni dei creditori, quale fondamento di un interesse sociale a mantenere l’integrità della garanzia patrimoniale del debitore.
Quanto detto risulta ancor più evidente dalla disamina dello strumento dell’azione surrogatoria (art. 2900 c.c.), con il quale il legislatore assegna ai creditori un potere di ingerenza nella sfera patrimoniale altrui alquanto invasivo, legittimato dal fatto che il surrogante riveste nel caso di specie un ruolo di “interprete e tutore di un interesse superindividuale, facente capo alla molteplicità indistinta di soggetti, non individuabili a priori, che vantano crediti verso la medesima persona”[4].
La par condicio creditorum e la tutela della garanzia patrimoniale debitoria ex art. 2740 c.c. divengono, quindi, principi di ordine pubblico, come tali, intangibili[5], che impongono il ripensamento di antiche categorie giuridiche, soprattutto in relazione alle situazioni giuridiche soggettive.
L’interesse legittimo: nuovi ambiti di rilevanza
Lo studio delle situazioni giuridiche soggettive è stato tradizionalmente influenzato dalla rigida e radicale contrapposizione tra diritto pubblico e diritto privato, frutto di un atavico ed ormai inattuale manicheismo giuridico[6].
Tale ricostruzione sistematica ha portato ad inquadrare alcune situazioni giuridiche soggettive come esclusivamente proprie dell’uno e/o dell’altro settore giuridico senza alcuna alternativa interpretativa[7].
L’interesse legittimo[8], tra tutte le situazioni giuridiche soggettive, è senz’altro quella che maggiormente ha subito un siffatto bipolarismo, “etichettata” come situazione giuridica soggettiva rientrante nel diritto pubblico, volta a garantire al privato un esercizio legittimo, e non arbitrario, del potere attribuito alla Pubblica Amministrazione[9].
Come argutamente rilevato, «Il modo di pensare del giurista dipende da ciò che viene tramandato ma non deve limitarsi ad esso, occorrendo un continuo adattamento all’esistente»[10]. Bisogna spingersi oltre e modellare le tradizionali categorie del diritto[11], accostandole alle mutate esigenze sociali[12]. Occorre abituarsi a ragionare in modo elastico, consapevoli del fatto che «l’accelerazione impressa all’evoluzione sociale dal progresso tecnologico produce nell’esperienza giuridica un aumento costante dei casi non risolvibili con semplici operazioni logico-formali di deduzione da enunciati normativi univoci o da principi generali ricavati per astrazione da norme particolari»[13]. In ragione di ciò, appare doveroso sgombrare il campo da qualsivoglia preconcetto dogmatico ed esperire una sorta di actio finium regondorum ricostruttiva volta alla rivisitazione dei “confini di sabbia” che separano il diritto privato dal diritto pubblico.
In presenza di un’impostazione consolidata che guarda all’interesse legittimo come ad una situazione giuridica soggettiva avente cittadinanza nel diritto pubblico[14], in assenza di una normativa chiara ed esaustiva[15], appare difficile (anche se non impossibile) trasporre tale situazione di interesse nei rapporti privati[16].
Parlare di tutela degli interessi legittimi con riferimento al diritto privato, in generale, ed al diritto ereditario, in particolare, potrebbe sembrare, prima facie, frutto di un’insana follia o di scarsa attenzione e/o conoscenza.
Il diritto successorio tra i settori del diritto civile è, senza alcun dubbio, quello più refrattario alle novità. Sono doverose alcune precisazioni. Bisogna liberarsi da radicati condizionamenti mentali e ponderare attentamente le soluzioni interpretative astrattamente configurabili.
D’altronde, come argutamente sottolineato da autorevole dottrina, «Le definizioni sono puramente e semplicemente precisazioni logiche dei concetti che possono essere espressi da certe voci, e i concetti in sé e per sé non sono né veri né falsi»[17].
Ai sensi dell’art. 459 c.c., il chiamato acquista l’eredità mediante l’accettazione con efficacia retroattiva al momento dell’apertura della successione[18].
Il diritto di accettare l’eredità si prescrive in dieci anni dall’apertura della successione[19]. Potenzialmente, pertanto, tra la morte del de cuius e l’accettazione dell’eredità, con conseguente definitiva allocazione delle risorse contenute nell’asse ereditario, può trascorrere un lasso di tempo anche piuttosto lungo.
Si pone, quindi, il problema di gestire questa situazione di potenziale statica impasse.
Il legislatore tenta di disciplinare la fase di “assenza della titolarità ereditaria” che precede l’accettazione (in cui l’eredità passa dal de cuius ad un erede in pectore, designato, per testamento o per legge, ma non ancora subentrato in universum ius defuncti) per evitare conseguenze negative quali la dispersione del patrimonio ed il consequenziale danno per i creditori[20].
Vengono, infatti, assegnati poteri di vigilanza e poteri conservativi, per tutelare due interessi in gioco che sono entrambi ugualmente meritevoli di tutela: da un lato, l’interesse del chiamato che non ha ancora accettato (ma ha comunque interesse alla corretta gestione dell’asse ereditario per impedire che quest’ultimo venga depauperato); dall’altro, l’interesse dei creditori del de cuius[21].
L’ordinamento attribuisce dei poteri conservativi e di vigilanza, quindi, per difendere l’integrità del patrimonio del defunto[22].
Ai sensi dell’art. 460 c.c., “Il chiamato all’eredità può esercitare le azioni possessorie a tutela dei beni ereditari, senza bisogno di materiale apprensione. Egli inoltre può compiere atti conservativi, di vigilanza e di amministrazione temporanea, e può farsi autorizzare dall’autorità giudiziaria a vendere i beni che non si possono conservare o la cui conservazione importa grave dispendio”[23].
Il legislatore utilizza, non a caso, l’inciso “può esercitare”. La regola, infatti, è che tali poteri vengano esercitati dal chiamato, direttamente interessato a mantenere l’integrità dell’asse ereditario, ma innanzi alla sua inerzia, troveranno applicazione le disposizioni in tema di eredità giacente (art. 528 c.c. ss.)[24].
Esistono delle situazioni, come quella che ci interessa, che potremmo definire di “trasferimento eventuale”. Si possono individuare alcuni beni ereditari, potenzialmente appartenenti al chiamato, come detto erede in pectore, che per un lasso di tempo, anche rilevante, rischiano di trovarsi in una situazione di incertezza quanto all’effettiva titolarità giuridica, che li priva di un concreto profilo soggettivo di appartenenza, non potendosi obiettivamente considerare attuata la confusione dei patrimoni e la conseguente cristallizzazione delle situazioni giuridiche soggettive sottostanti.
Alla luce di quanto detto, sembrerebbero aprirsi nuovi scenari interpretativi: l’interesse legittimo, come meglio infra dimostrato, potrebbe giocare un ruolo decisivo per garantire effettività di tutela ad interessi che, seppur meritevoli di tutela, rischierebbero di rimanerne sprovvisti.
Interesse legittimo ed eredità giacente: una ricostruzione analitica e prospettica
In un siffatto contesto, il rischio che la situazione di stasi creatasi e la mancata amministrazione dei beni possa andare a detrimento dell’asse ereditario è piuttosto forte, a danno evidentemente degli interessi dei creditori (sia del defunto che dell’erede). Ecco che si pone all’attenzione del giurista, e, più in generale, di tutti gli operatori del diritto, il problema dell’ammissibilità o meno della tutela dell’interesse legittimo dei creditori, che postula una valutazione dinamica e ragionevole[25], scevra da qualsivoglia preconcetto dogmatico, della fattispecie de qua, la cui disamina non può prescindere da una veloce analisi dell’istituto dell’eredità giacente (artt. 528 c.c. ss.)[26].
Per eredità giacente si intende quel complesso di beni senza alcun titolare per tutto l’arco di tempo intercorrente tra l’apertura della successione e l’accettazione da parte dei chiamati.
Ai sensi dell’art 528 c.c., per poter configurare l’istituto de quo è necessario che il chiamato non abbia ancora accettato; non sia nel possesso dei beni ereditari ed ovviamente non sia già stato nominato un curatore[27]. La nomina del curatore, infatti, ha efficacia costitutiva: l’eredità giacente diventa concretamente una figura giuridica dal momento della nomina di quest’ultimo[28].
Da questa rapida carrellata, però, non è ancora chiara la connessione tra eredità giacente ed interesse legittimo. Quest’ultimo, come già rilevato in precedenza, storicamente, viene studiato in diritto amministrativo ove ne costituisce una figura cardine nei rapporti tra P.A. e privato cittadino.
La P.A., infatti, si trova in una situazione di forza e di vantaggio rispetto al privato cittadino. Bisogna, ora, trasporre una siffatta situazione relazionale nell’ambito dei rapporti interprivati ed interrogarsi sulla sua configurabilità e sulla sua tutelabilità o meno.
Parliamo, quindi, di un rapporto giuridico tra privati in cui spicca la posizione di predominio di un soggetto che ha la possibilità di esercitare un potere irrelato, cui fa da contraltare la situazione giuridica soggettiva di un altro, che, invece, si trova in una posizione di debolezza rispetto alla controparte.
In ragione di quanto sopra, vien da chiedersi: con riferimento al soggetto cd. “debole”, che tipologia di situazione giuridica soggettiva si configura?
Ed ancora, si può traslare tale problematica anche in relazione alla tutela dei creditori in tema di eredità giacente?
In linea di principio, innanzi alle manifestazioni di potere privato (purchè legittime, in quanto assistite dal riconoscimento da parte dell’ordinamento di un diritto soggettivo), qualsivoglia interesse contrapposto non dovrebbe ricevere alcuna tutela, poiché dagli insegnamenti di teoria generale ci viene tramandata la regola che ad una situazione di potere, come quella del titolare di un diritto soggettivo, corrisponde dal lato passivo, una situazione di dovere (nel caso del diritto potestativo, invece, una situazione di soggezione), ma mai di interesse legittimo[29].
Tradizionalmente, l’approccio dogmatico rispetto a tali interessi contrapposti al potere è stato quello di considerarli irrilevanti da un punto di vista giuridico, cosa che ha prodotto (e produce ancora!) un grave vulnus di tutela.
Si pone, quindi, all’attenzione dell’operatore del diritto la necessità di valutare la legittimità dell’esercizio di tale potere, nonché la sua congruità rispetto agli interessi dei controinteressati coinvolti[30].
Lasciare privi di qualsiasi garanzia giuridica interessi rilevanti dal punto di vista sociale ed economico rischia di creare vuoti di giustizia, incoerenti col nostro attuale impianto costituzionale.
In considerazione di quanto sopra, in linea con i principi di solidarietà ed uguaglianza sostanziale (artt. 2 e 3 Cost.), sarebbe configurabile un interesse legittimo: la “parte debole”, a buon diritto, può pretendere che il potere altrui venga esercitato in modo conforme a legge, in modo legittimo, e potrà finanche far valere una tutela risarcitoria per la lesione degli interessi legittimi di cui si tratta.
Alla luce di quanto detto, non si capisce perché il diritto amministrativo debba avere l’esclusiva sull’interesse legittimo, che rimane una situazione giuridica soggettiva attiva, appartenente a quell’unicum indissolubile che è il nostro ordinamento giuridico, indipendentemente dai soggetti interessati al rapporto in gioco[31].
Questa situazione relazionale si può estendere, vieppiù, al diritto successorio. Entrando in medias res, nel caso dell’eredità giacente, non dimentichiamoci che il curatore ricopre un ufficio di diritto privato, non nel proprio interesse, quindi, ma nell’interesse generale (il chiamato, i creditori dell’eredità, i terzi in genere)[32].
In considerazione della natura peculiare dell’istituto del curatore, l’art. 529 c.c. prevede una serie di obblighi che quest’ultimo deve necessariamente rispettare[33]. Proprio perché esercita il suo ufficio nell’interesse altrui, il curatore, infatti, deve stilare l’inventario dell’eredità. É tenuto, quindi, ad indicare l’elenco dei beni che fanno parte dell’asse in modo da garantire a chi subentrerà come erede di avere contezza dell’effettivo ammontare degli assets ereditari.
Dovrà poi procedere “a esercitarne e promuoverne le ragioni, a rispondere alle istanze proposte contro la medesima, ad amministrarla, a depositare presso le casse postali o presso un istituto di credito designato dal tribunale il danaro che si trova nell’eredità o si ritrae dalla vendita dei mobili o degli immobili, e, da ultimo, a rendere conto della propria amministrazione”[34].
A ciò si aggiunga che ha l’obbligo di prestare giuramento ex art. 193 disp. att. c.p.c., di custodire e amministrare fedelmente i beni dell’eredità, obbligandosi ad esercitare il suo potere nei modi consentiti dalla legge[35].
Tutti gli obblighi suddetti, tassativamente individuati dalla legge, costituiscono una prova decisiva del carattere doveroso, ma non obbligatorio (il soggetto designato potrebbe anche non accettare), dell’attività del curatore volta alla composizione di possibili conflitti inerenti a beni altrui che amministra ex lege.
Il curatore, infatti, nei limiti della doverosità della sua carica, ha un potere potenzialmente discrezionale[36]. Tale discrezionalità, però, non può sfociare nell’arbitrio perché vi sono dei controinteressati come il chiamato, erede in pectore (che se accetta, diventa erede a tutti gli effetti ed acquista le sostanze ereditarie), i creditori ed i terzi in genere (in linea col principio della par condicio creditorum), che l’ordinamento non può omettere di tutelare[37]: questi soggetti hanno la possibilità di vigilare sull’operato del curatore e finanche opporsi alle sue decisioni, come previsto dall’art. 530, co. 2 c.c.[38].
Quanto detto, inoltre, appare in linea con l’attuale evoluzione giurisprudenziale in materia civilistica, che, nell’ambito di un irrinunciabile ed intangibile principio di solidarietà, impone il rispetto delle clausole generali di correttezza e buona fede nei rapporti interprivati[39], anche, se non soprattutto, nell’eventualità di gestione di beni altrui.
Con riferimento all’eredità giacente, quindi, ci troviamo innanzi ad un soggetto (il curatore) con un potere sì discrezionale, ma non illimitato ed irrelato, poiché lo stesso va parametrato sulle esigenze di altri soggetti (chiamato, creditori, terzi interessati) ad insinuarsi nel patrimonio ereditario in aderenza ai generali principi di correttezza e buona fede[40].
Il creditore (sia del de cuius, sia dell’erede), infatti, versa in una situazione di interesse legittimo rispetto all’«amministrazione» dell’asse ereditario e, ove possibile, appare ragionevole, oltre che necessario, garantire a quest’ultimo l’integrità del patrimonio e la sua corretta gestione, evidentemente a tutela del principio fondamentale della par condicio creditorum.
L’esercizio abusivo del potere attribuito dalla legge può ledere, quindi, situazioni di interesse giuridicamente rilevanti, inquadrabili nell’alveo dell’interesse legittimo ad opporsi a decisioni arbitrarie, apparentemente incontestabili e conformi alla legge, ma sostanzialmente contra ius[41], abusive e contrarie ai principi generali di buona fede e correttezza.
Considerazioni conclusive
Dalla ricostruzione suggerita nelle pagine che precedono è evidente la vitalità di una situazione giuridica soggettiva, l’interesse legittimo appunto, da sempre “snobbato” in ambito privatistico e considerato figura residuale, facente parte di altri rami del diritto, in un’ottica bipolare, come detto, ormai superata ed inattuale.
Bisogna desistere «dal venerare arcaiche reliquie o dall’imbalsamare creature morte; il che significa rispettare e comprendere il diritto nella sua storicità, ordinamento efficace (e, pertanto, salvataggio) di questo nostro difficile e fertile tempo di transizione»[42]. In tale direzione, un ruolo centrale verrà giocato dall’interprete[43] che dovrà affrontare le sfide del nuovo millennio modellando gli assetti giuridici consolidati nel tempo sulla realtà sociale in continuo movimento, cangiante ed in trasformazione[44].
Evidentemente, il giurista non è legittimato a sostituirsi alla legge, deve necessariamente restare saldamente ancorato al dato positivo che, però, si badi bene, consta non soltanto della disciplina codicistica, ma anche, se non soprattutto, dei principi fondamentali consacrati nella Costituzione, come i principi di solidarietà ed uguaglianza sostanziale[45], che ormai permeano di sé tutto il sistema giuridico.
In un processo di continua integrazione tra forma e sostanza, di dialettica tra istanze statuali, regionali ed internazionali, le categorie giuridiche devono evidentemente trasformarsi in “contenitori aperti”[46], pronte a rispondere alle mutate esigenze sociali, nel tentativo di ottenere la massima garanzia possibile per tutti gli interessi giuridici, anche quelli apparentemente più insignificanti, che si dimostrino, però, meritevoli di tutela per l’ordinamento, considerato, in un’ottica sistematica, come un unicum inscindibile[47].
D’altronde, come argutamente, evidenziato «La società non è materia inerte senza aspettative, puro kaos, che riceve senza fiatare dal diritto il suo ordine. La società è, contemporaneamente, materia attiva e passiva, come, d’altro canto, il diritto è, contemporaneamente, prodotto e produttore di ordine sociale»[48].
In questa prospettiva, la tutela dell’interesse legittimo rappresenta un evidente indizio di “progresso giuridico”, una conquista che assicura equità e giustizia nei rapporti tra privati, uno strumento che frustra sperequazioni ed arbitri innanzi a posizioni di supremazia, sì, perfettamente legittime, ma che vanno contingentate al fine di evitare un uso distorto, come tale abusivo, del potere privato, il tutto, evidentemente, in linea con gli artt. 24, co. 1, 103, co. 1 e 113, co. 1 Cost.
Non si tratta di “giustizia del singolo caso”, ma semplicemente di evitare che l’eccessiva rigidità della norma attributiva di un potere privato tradisca le ragioni della tutela a discapito di posizioni giuridiche cd. “deboli” in un’ottica di bilanciamento a posteriori degli interessi coinvolti[49].
Non è soltanto, quindi, la volontà di tutelare il rapporto giuridico specifico in sé, ma quella piuttosto di tutelare una generale situazione di equilibrio nel sistema di interessi in gioco, evitando abusi a favore di una sola delle parti contraenti in linea col sacrosanto principio di uguaglianza sostanziale[50].
[1] Sul punto si rinvia alle puntuali osservazioni di N. LIPARI, Il ruolo del giudice nella crisi delle fonti del diritto, già in Riv. trim. dir. proc. civ., 2009, 479 ss., ora in Il diritto civile tra legge e giudizio, Milano, 2017, 15 ss., 21, ove l’A., con riferimento all’epoca contemporanea, parla di “tempo a forte conflittualità assiologica”.
[2] In proposito cfr. N. IRTI, La crisi della fattispecie, in Riv. dir. proc., 2014, 1, 36 ss.
[3] V. N. LIPARI, Intorno ai “principi generali del diritto”, già in Riv. dir. civ., 2016, I, 27 ss., ora in Il diritto civile tra legge e giudizio, cit., 83 ss., 95-96.
[4] In tal senso C. MAZZÚ, La logica inclusiva dell’interesse legittimo nel rapporto tra autonomia e sussidiarietà, Torino, 2014, 274 ss., 276-277, il quale precisa (276) che «La sanzione indiretta per l’inerzia del debitore-creditore trova la propria ragione fondante nella contrarietà alla buona fede, desumibile dalla condotta omissiva non giustificata. È una riproposizione della valutazione in termini di disvalore, che consegue all’esercizio della discrezionalità del titolare del diritto, che (stavolta omettendo di agire) danneggia senza apprezzabile motivo i terzi creditori in genere».
[5] A maggior riprova di quanto detto, si pensi all’abituale attenzione profusa dall’ordinamento giuridico nei confronti delle deroghe all’art. 2740 c.c. La volontà del legislatore, neanche troppo celata, infatti, è stata sempre quella di contingentare il più possibile il depauperamento del patrimonio del debitore. Laddove si è voluto derogare al disposto di cui all’art. 2740 c.c., lo si è fatto expressis verbis, ammettendo solo ipotesi tassative di segregazione patrimoniale, con conseguente alterazione della garanzia patrimoniale debitoria. Si pensi ad esempio, in via meramente esemplificativa, al fondo patrimoniale (artt. 167 c.c. s.s.), ai patrimoni destinati ad uno specifico affare (artt. 2447 bis c.c. s.s.) e, da ultimo, alla recente introduzione dell’art. 48 bis TUB, così come introdotto dall’art. 2 D.L. 59/2016 convertito in l. 119/2016 (il quale sembrerebbe derogare al disposto dell’art. 2744 c.c. in tema di divieto del patto commissorio, introducendo, entro i rigidi limiti imposti dalla norma, un patto marciano tipizzato).
[6] Sul punto sempre attuali si presentano le riflessioni di S. PUGLIATTI, Gli istituti del diritto civile, I, 1, Milano, 1943, ora in S. PUGLIATTI, Scritti giuridici, II, 1937-1947, Milano, 2010, 725 ss., 751, il quale evidenzia che «La distinzione tra diritto pubblico e diritto privato non compromette la fondamentale unità dell’ordinamento giuridico: anzi la mette ancor meglio in evidenza. Si tratta di una distinzione collaudata da una secolare tradizione, ciò che rivela quanto notevole sia la sua vitalità». L’A. aggiunge (756) che «Giova avvertire che la distinzione tra diritto pubblico e diritto privato assume, in concreto, aspetti variabili, in relazione ai singoli sistemi positivi e alle diverse epoche: ora i due campi appaiono separati, ora il diritto pubblico si restringe a ciò che attiene alla organizzazione della società e ai più tipici aspetti dell’attività degli organi pubblici, ora invece acquista prevalenza assoluta sul diritto privato».
[7] Critico sull’argomento C. MAZZÚ, La logica inclusiva dell’interesse legittimo nel rapporto tra autonomia e sussidiarietà, cit., 16 ss., 18 ss., ove si fa notare che «La consapevolezza della sostanziale unitarietà del sistema giuridico, a fronte del continuo mutamento della linea di demarcazione tra diritto pubblico e diritto privato, ha indotto a riflettere sulla ragione, sulla natura, sui fattori generatori e regolativi della legge di sviluppo della distinzione tra le situazioni giuridiche. La loro diversità è stata ricercata in funzione ora dell’area di appartenenza (pubblica o privata) dei soggetti titolari; ora della materia cui esse afferiscono. Nel frattempo, le categorie classiche dei diritti assoluti e relativi mostravano significative evoluzioni e migrazioni verso poli distanti da quelli tradizionali: emergevano, per un verso, profili di assolutezza dei diritti relativi, grazie alle intuizioni ed agli studi sulla tutela aquiliana del credito e dei diritti di godimento; per altro verso, si articolava in modo nuovo la struttura tradizionale dei diritti reali assoluti e della proprietà in particolare».
[8] Per una ricostruzione generale della nozione di interesse legittimo v. R. GALLI, Nuovo corso di diritto amministrativo, VI ed., I, Padova, 2016, 59 ss.
[9] V. A. FALZEA, Gli interessi legittimi e le situazioni giuridiche soggettive, già in Riv. dir. civ., 2000, I, 679 ss., ora in Ricerche di teoria generale del diritto e di dogmatica giuridica. Scritti d’occasione, III, Milano, 2010, 215 ss., 226, il quale evidenzia che «La peculiarità dell’interesse legittimo non può essere desunta altrimenti che dal terreno nel cui ambito è stato individuato – anche se poi trasposto in altri settori del diritto -; e cioè in quella zona dell’esperienza giuridica in cui l’interesse del privato, qualificato dal diritto come rilevante, sta a fronte dell’interesse, anch’esso qualificato dal diritto come rilevante, di cui è portatrice la pubblica amministrazione. Ciascuno degli interessi a confronto, come avviene per ogni interesse giuridico, è assistito da una doppia tutela da parte del diritto: di conservazione, anzitutto, con l’attribuzione del potere di opporsi, a qualsiasi iniziativa altrui che possa lederlo indebitamente; di realizzazione, poi, con l’attribuzione del potere di adottare le iniziative dirette a conseguirne il soddisfacimento. Il confronto degli interessi si traduce, dunque, nel confronto dei rispettivi poteri di azione e di reazione».
[10] In tal senso S. PATTI, La ragionevolezza nel diritto civile, Napoli 2012, 48 ss.
[11] Le categorie giuridiche non devono mai assurgere a rigidi gioghi per l’interprete, ma possono (e devono) acquisire un valore storico relativo come strumenti di conoscenza e sviluppo. In tal senso P. PERLINGIERI, Scuole, tendenze e metodi. Problemi del diritto civile, Napoli, 1989, 21 ss. V. anche N. LIPARI, Le categorie del diritto civile, Milano, 2013, 28 ss.
[12] Per maggiori approfondimenti sull’argomento v. C. MAZZÚ, Itinerari dei giuristi nella crisi delle regole, in www.comparazionedirittocivile.it, giugno 2013, 1 ss.
[13] Cfr. L. MENGONI, Sull’efficienza come principio giuridico, già in Scritti in memoria di Massimo D’Antona, Milano 2004, VI, 4173 ss., ora in Scritti I. Metodo e teoria giuridica, a cura di C. Castronovo, A. Albanese ed A. Nicolussi, Milano 2011, p. 263 ss., 273, ove l’A. precisa che «Normalmente le leggi sono affette dalla plurivocità del linguaggio comune; sovente è incerto quale di più norme prima facie candidabili per la decisione sia applicabile, oppure il caso non è previsto, né può essere deciso per analogia o in via di sussunzione sotto un principio sistematico. Il giudice deve allora scegliere tra più interpretazioni possibili o tra più ricostruzioni tipologiche possibili del caso in rapporto a una piuttosto che a un’altra fattispecie legale, ovvero, se il caso rivela una lacuna della legge, deve elaborare una regola di decisione adeguata alle circostanze concrete e insieme coerente col sistema normativo, ossia universalizzabile a un certo livello di astrazione del sistema, dato che una scelta razionale è tale solo se derivabile da un ordinamento».
[14] Sull’argomento si rimanda alle osservazioni di N. PAOLANTONIO, Esistenza dell’interesse legittimo? (rileggendo Franco Ledda), in Dir. amm., 1/2015, 1 ss.
[15] Si consenta di citare N. IRTI, I ‘cancelli delle parole’. Intorno a regole, principî, norme, Napoli, 2015, 46, il quale evidenzia il fatto che «In luogo di enunciati di principio, di anglicismi o superflui neologismi, di gerghi burocratici e ministeriali, di furbeschi equivoci e inganni grammaticali; in luogo di queste merci di contrabbando, di questo affaccendato o affaristico tramestio linguistico, le leggi ordinarie hanno l’indifferibile dovere della sicura e stringente chiarezza».
[16] Si rinvia sull’argomento a C. MAZZÚ, La logica inclusiva dell’interesse legittimo nel rapporto tra autonomia e sussidiarietà, cit., 151 ss.
[17] In tal senso A. FALZEA, Introduzione alle scienze giuridiche. Il concetto del diritto, VI ed., Milano 2008, p. 230.
[18] Cfr. Orientamenti giurisprudenziali in tema di accettazione e rinuncia all’eredità, a cura di V. Amendolagine, in Corr. giu., 3/2016, 397 ss.
[19] Per maggiori approfondimenti cfr. A. BULDINI, Accettazione dell’eredità devoluta al minore e conflitto di interessi nell’interpretazione adeguatrice dell’art. 2942 n. 1 c.c., nota a Cass. civ., sez. II, 1 febbraio 2007, n. 2211, in Fam. dir., 10/2007, 902 ss.
[20] V. U. NATOLI, L’amministrazione dei beni ereditari, Milano, I, 1947, 1 ss.
[21] Per una disamina generale della problematica in oggetto cfr. G. DI LORENZO, L’amministrazione del patrimonio ereditario prima dell’acquisto. I poteri del chiamato, in Tratt. dir. succ. donaz., diretto da G. Bonilini, Milano, I, 2009, 1157 ss.
[22] Per un quadro esaustivo si rinvia a V. GIANCASPRO, I poteri del chiamato all’eredità: rilettura dell’art. 460 c.c., in www.altalex.com, 26 febbraio 2008.
[23] Per un puntuale inquadramento dell’argomento cfr. A. ALBANESE, Il chiamato all’eredità e l’attività contrattuale prima dell’accettazione, in Contr. impr., 4-5/2006, 977 ss.
[24] «Non può il chiamato compiere gli atti indicati nei commi precedenti, quando si è provveduto alla nomina di un curatore dell’eredità a norma dell’articolo 528» (art. 460, co. III, c.c.).
[25] Sottolinea l’importanza del continuo dialogo tra dottrina e giurisprudenza, in un’ottica di evoluzione del sistema giuridico, N. LIPARI, Dottrina e giurisprudenza quali fonti integrate del diritto, già in Riv. trim. dir. proc. civ., 2016, 1153 ss., ora in Il diritto civile tra legge e giudizio, cit., 39 ss., 45, il quale osserva che «Il diritto finisce per riscoprire la sua socialità e si libera dalla genericità delle vecchie formule con la conseguenza che dottrina e giurisprudenza scoprono una sostanziale identità di funzione. Attraverso il filtro della dottrina e della giurisprudenza, riconciliate in un’ottica sostanzialmente unitaria, si misura la concretezza di un’attività guidata dalla ragion pratica e che non si ferma più alla statica fissità di una norma dettata, entro la rigida consequenzialità della tesi della validità, ma avverte l’importanza e insieme la problematicità della regola che nasce e si consolida ponendo alla ribalta del diritto la rilevanza del suo contenuto e della sua ragionevolezza».
[26] Per maggiori approfondimenti si rinvia a G. CAPOZZI, Successioni e donazioni, III ed., a cura di A. Ferrucci e C. Ferrentino, I, Milano, 2009, 131 ss.
[27] V. F. SPOTTI, Il problema della giacenza dell’eredità nel caso in cui i chiamati siano ignoti, in Fam. pers. succ., 12/2009, 979 ss.
[28] Per maggiori approfondimenti cfr. E. BILOTTI, L’eredità giacente pro quota, nota a Cass. civ., sez. II, 22 febbraio 2001, n. 2611, in N.G.C.C., 3/2002, 454 ss.
[29] Sul punto v. C. MAZZÚ, La logica inclusiva dell’interesse legittimo nel rapporto tra autonomia e sussidiarietà, cit.,79, il quale fa notare che «Quando il potere è allo stato puro, cioè assoluto e irrelato, non c’è spazio per l’esame del corretto esercizio della discrezionalità; per i terzi esiste solo la categoria del dovere. Ma queste due situazioni giuridiche esprimono una polarizzazione estrema e costituiscono un’ipotesi teorica ormai estranea alla realtà. Esse non sono i termini di un rapporto giuridico, anzi lo escludono in radice e per definizione, perché il potere assoluto, se veramente è tale, è autosufficiente, non tollera ingerenze ed i terzi devono limitarsi ad astenersi (neminem laedere). Questa impostazione ha ormai fatto il suo tempo ed è stata assoggettata a profonda revisione».
[30] V. L. BIGLIAZZI GERI, Contributo ad una teoria dell’interesse legittimo nel diritto privato, Milano, 1967, 28-29, ove, con riferimento “all’esistenza di un potere (rectius, agere licere) di volta in volta specificantesi come facoltà o pretesa, che ne costituisce il contenuto e consente al soggetto-titolare di realizzare il proprio interesse”, si evidenzia che «Tale comportamento, peraltro, si caratterizza in base ad una esigenza di congruità rispetto all’interesse suddetto o ad un fine oggettivo, cui si rapporta anche e specificamente quell’interesse, che (in entrambi i sensi, ha, perciò, una rilevanza immediata e) concorre, quindi, a determinare e delimitare il come della situazione di tale diverso soggetto – qualunque ne sia, poi, il senso sostanziale (di diritto, nell’un caso, o di dovere nell’altro) -: cioè, in quella che, come si vedrà, può dirsi tecnicamente la discrezionalità di tale situazione». In ragione di ciò, l’A. rappresenta la situazione di interesse legittimo come “attiva (in quanto di vantaggio) e inattiva (con riferimento al suo contenuto)”.
[31] In proposito cfr. C. MAZZÚ, Appunti per uno studio sistematico dell’interesse legittimo nel diritto privato, in www.comparazionedirittocivile.it, aprile 2013, 1 ss.
[32] In tal senso anche G. CELESTE, Uffici ed interessi legittimi in materia di disposizioni testamentarie sottoposte a condizione e di attribuzioni in favore di nascituri, in Rass. dir. civ., 1/2001, 20 ss., 24.
[33] V. C. CECERE, art. 529 c.c., in Commentario del codice civile, diretto da E. Gabrielli, Delle successioni, a cura di V. Cuffaro e F. Delfini, Milanofiori Assago (MI), 2009, 435 ss.
[34] Per maggiori approfondimenti si rinvia a G. DI LORENZO, L’eredità giacente, in Tratt. dir. succ. donaz., cit., diretto da G. Bonilini, 1177 ss.
[35] In tema di eredità giacente v. inoltre le lucide osservazioni di E. BILOTTI, Note sull’amministrazione dei beni ereditari in caso di vacanza parziale della titolarità ereditaria, in Riv. dir. civ., 5/2003, 441 ss.
[36] Sul punto si consenta di richiamare le osservazioni di E. DEL PRATO, Qualificazione degli interessi e criteri di valutazione dell’attività privata funzionale tra libertà e discrezionalità, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2/2012, 403 ss., 404, il quale, dopo aver precisato la nozione di “funzione” intesa come scopo per cui un potere è attribuito, afferma: «Un maggior costrutto può ricavarsi, verosimilmente, dall’esame delle situazioni funzionali accorpate in rapporto, e cioè nei cosiddetti uffici di diritto privato e, più in generale, nell’agire nell’interesse altrui – nella rappresentanza (art. 1387 c.c.) e nel mandato (art. 1703 c.c.) – dove l’esercizio del potere è materia di un dovere nell’interesse di un altro privato, che si caratterizza in modo diverso a seconda che l’interessato possa o meno gestire da sé il suo interesse (ciò che demarca la rappresentanza legale da quella volontaria). Il richiamo al potere funzionale – all’ufficio ed al munus che lo impronta – evoca la potestà e l’interesse legittimo». L’A. aggiunge, inoltre, che «Gli interessi delimitano il campo in due modi: nel contenuto normativo dei diritti, che già è funzionalizzato verso determinati interessi che li delimitano e nel peso delle clausole generali. Libertà e discrezionalità esprimono i due momenti dell’esercizio dell’attività privata: la discrezionalità delimita l’attività normativamente funzionalizzata; la libertà caratterizza l’autonomia «controllata» dalle clausole generali».
[37] In senso analogo D. PULIATTI, I tratti distintivi dell’interesse legittimo: figura teorica generale, che trascende l’ambito proprio del diritto amministrativo e supera la ristretta ottica intraordinamentale. L’esercizio del potere, pur astrattamente legittimo, per attuare il valore, dev’essere anche concretamente lecito. Il principio di congruità dei mezzi rispetto ai fini, in C. MAZZÚ, La logica inclusiva dell’interesse legittimo nel rapporto tra autonomia e sussidiarietà, cit., 73 ss.
[38] Sul punto più che mai attuali sono gli insegnamenti di L. BIGLIAZZI GERI, Contributo ad una teoria dell’interesse legittimo nel diritto privato, cit., 63-64. L’A., infatti, sottolinea che «L’incidenza di un particolare interesse individuale […] nell’ambito dell’attività del soggetto agente, riduce il margine di scelta a questo lasciato e sia che la sua «posizione» si appalesi come essenzialmente facoltativa, sia che, invece, si presenti come dovuta, in ogni caso imponendo al soggetto stesso di tener conto anche della necessità della realizzazione di tale interesse. Funziona, quindi, da una parte, come limite determinante la discrezionalità; dall’altra, come vincolo ulteriore alla preesistente discrezionalità. Conseguentemente, il comportamento del soggetto agente apparirà illegittimo in tutti i casi, in cui si sia determinato prescindendo totalmente dall’interesse individuale incidente; ovvero sulla base della ritenuta prevalenza di esigenze concrete imponenti il sacrificio di quell’interesse, ma in realtà non sussistenti o non oggettivamente prevalenti. Che è, poi, una delle possibili concretizzazioni di quel «vizio», che i pubblicisti sogliono denominare «eccesso di potere» e che, per quanto ci riguarda, porta ad una evidente lesione dell’interesse legittimo».
[39] Sull’argomento cfr. Cass. civ., 18 settembre 2009, n. 20106, in Contr., 1/2010, 5 ss., con nota di G. D’AMICO, Recesso ad nutum, buona fede e abuso del diritto; cfr., inoltre, C. SCOGNAMIGLIO, Abuso del diritto, buona fede, ragionevolezza (verso una riscoperta della pretesa funzione correttiva dell’interpretazione del contratto?), in N.G.C.C., 3/2010, II, 139 ss. V. anche Cass. civ., 31 maggio 2010, n. 13208, in Giur. it., 4/2011, 795 ss., con nota di P. RESCIGNO, Un nuovo caso di abuso del diritto.
[40] Sul punto v. E. NAVARRETTA, Forma e sostanza dell’interesse legittimo nella prospettiva della responsabilità, in Il diritto privato nel prisma dell’interesse legittimo, a cura di U. Breccia, L. Bruscuglia e F.D. Busnelli, Torino, 2001, 322 ss., 339, la quale, però, evidenzia che «[…] occorre svelare, al di là dei dogmi, se sia inutile, necessario o non sia necessario ma possa comunque servire qualificare l’interesse leso come situazione soggettiva ed eventualmente come interesse legittimo. Sul primo quesito, la risposta è inevitabilmente negativa, cioè non basta in sé l’abuso a costruire la responsabilità: in primo luogo, perché l’ingiustizia del danno non è riferibile solo alla mera condotta non iure, ma coinvolge anche il danno contra ius; in secondo luogo, perché in realtà non esiste abuso e non opera la correttezza se non sussiste dall’altro lato un interesse che non può essere un generico interesse alla correttezza nei rapporti sociali, ma deve essere quanto meno un interesse specifico alla correttezza, la cui specificità nasce o da presupposti normativi o da presupposti collegati con i modelli legali e costruiti attraverso l’evoluzione giurisprudenziale».
[41] Per una rapida carrellata sulle tutele esperibili cfr. E. DEL PRATO, Qualificazione degli interessi e criteri di valutazione dell’attività privata funzionale tra libertà e discrezionalità, cit., 422 ss.
[42] Cfr. P. GROSSI, Ritorno al diritto, Roma-Bari, 2015, p. 95.
[43] Sul punto v. P. SCHLESINGER, Interpretazione della legge civile e prassi delle Corti, in Scienza e insegnamento del diritto civile in Italia, Convegno di studio in onore del Prof. A. Falzea, Messina 4-7 giugno 2002, a cura di V. Scalisi, Milano, 2004, 99-100, il quale sottolinea che «Nonostante i profondi rivolgimenti in corso, di carattere storico e dogmatico, relativi alla teoria delle fonti – sopravvenuta priorità di fonti sovranazionali, rilevanza di fonti infrastatuali, costituzionalizzazione di principi a maglie larghe di carattere sostanzialmente morale, prevalenza anche nell’ambito dei diritti positivi del catalogo in continua crescita dei diritti inviolabili dell’uomo, ecc. – il civil law, ed in particolare il diritto italiano, rimane un diritto prevalentemente scritto […]. Donde il ruolo fondamentale dell’interprete, quale indispensabile medium tra le disposizioni della «legge civile» e le sue concrete applicazioni».
[44] V. Z. BAUMAN, Vita liquida, Roma-Bari, 2005, VII ss.
[45] In tal senso V. SCALISI, Categorie e istituti del diritto civile nella transizione al postmoderno, Milano 2005, p. 439-440, il quale sottolinea che «[…] quali conclusioni possono trarsi in ordine al compito che attende oggi l’interprete in quest’area del diritto privato? Di sicuro egli non è autorizzato a sostituirsi alla legge. Il suo limite obbligato e invalicabile è e rimane il dato positivo. E però positivo non è soltanto il regolamento successorio del codice: positivi sono anche i valori consacrati nel testo costituzionale, i princìpi che informano la legislazione speciale delle vocazioni c.d. anomale, le indicazioni scaturenti dall’intero sistema degli interessi giuridici dell’ordinamento formalmente e sostanzialmente inteso. Di questa positività plurima e convergente è intessuto il diritto delle successioni. Essa definisce il piano sul quale vanno ricercati i princìpi direttivi della materia, ma delimita anche l’ambito entro il quale va individuata la soluzione normativa sollecitata dalla questione pratica. L’attività dell’interprete può dirsi quindi anche in questo campo per un verso di conformazione della regola codicistica ai valori reali e sostanziali del sistema e per altro verso di traduzione in strumenti pratici operativi delle potenzialità normative insite nel sistema, entro le estensioni legittime – s’intende – rese possibili dai consueti canoni e criteri ermeneutici».
[46] Per maggiori approfondimenti sul punto cfr. E. DEL PRATO, Categorie “internazionalprivatistiche” ed istituti civilistici, in Riv. dir. civ., 1/2007, 93 ss., 105, ove si suggerisce «[…] di superare la settorialità dell’approccio e di evitare la frammentazione delle categorie, ricercando, oltre le nozioni, l’unità della sistematica giuridica. Dinanzi ad una normazione alluvionale, eterogenea ed affrettata, al fallace convincimento che la legge in senso formale sia il mezzo per risolvere ogni nuova esigenza, coniugare le categorie è l’opera a cui l’interprete è chiamato per rielaborare facili suggestioni di sfaldamento della sistematica e concorrere a preservare la qualità della conoscenza».
[47] Solo così potrà realizzarsi quanto profetizzato da S. ROMANO, Lo stato moderno e la sua crisi. Saggi di diritto costituzionale, Milano 1969, 20, il quale consigliava di «Costruire e non distruggere: è questo, più che altro, il compito che può e deve proporsi, rispetto all’ordinamento politico, l’evolversi dell’attuale vita sociale e, quando avrà costruito, probabilmente i nuovi edifici non contrasteranno con la solida e severa architettura dello Stato moderno, ma poggeranno sulle stesse sue basi e ne costituiranno parti integranti».
[48] Cfr. G. ZAGREBELSKY, La legge e la sua giustizia. Tre capitoli di giustizia costituzionale, Bologna 2008, 23.
[49] Per osservazioni analoghe cfr. E. PELLECCHIA, Qualche considerazione sulla tutela delle minoranze nel diritto delle società, in Il diritto privato nel prisma dell’interesse legittimo, cit., 183 ss., 190, la quale evidenzia che «Ecco allora che a terreno di elezione della tematica dell’abuso si candida quello dell’esercizio delle situazioni giuridiche soggettive connotate dalla discrezionalità, di volta in volta intesa come «allentamento del contenuto del dovere» (se rapportata ad una situazione di svantaggio) o come «espressione di una specifica limitazione del contenuto della libertà» (se rapportata ad una situazione di vantaggio). Nell’uno e nell’altro caso il richiamo alla discrezionalità del comportamento conferisce alle situazioni in oggetto una fisionomia tutta particolare, imponendo al soggetto agente di valutare le esigenze del titolare dell’interesse contrapposto: quale che sia, poi, il nome che a tale interesse si voglia attribuire».
[50] Sul punto v. S. PUGLIATTI, Interesse pubblico e interesse privato nel libro delle obbligazioni, già in Riv. Stato e diritto, 1942, 26 ss., ora in Scritti giuridici, III, 1948-1957, Milano, 2011, 283 ss., 288, ove si precisa che «È certo da considerare come tipica manifestazione del pubblico interesse la cura che il legislatore ripone nel dosaggio dei vari interessi in contrasto per la determinazione della tutela degli uni e degli altri, cioè per la ricerca del punto di equilibrio o del confine tra le diverse sfere private alle quali la tutela è accordata».
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